2 DICEMBRE 1943

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DI SERGIO LEPRI

Centocinque aerei tedeschi bombardano il porto di Bari, pieno di navi cariche di materiale da guerra; una di bombe all’iprite. Nessuno sa che è un terribile aggressivo chimico. E la gente muore senza sapere perché.

Il sole è tramontato da due ore. Nel cielo sereno solo una piccola falce di luna a sudovest, sopra il Salento. L’aria è chiara e luminosa sul mare calmo. Il porto di Bari è pieno di luci, sulle navi e sulla banchine; è illuminato a giorno come se la guerra non ci fosse e non ci fosse il pericolo dei bombardamenti tedeschi. Eppure nel primo pomeriggio si è sentito volare alto un aereo; a lungo, avanti e indietro; il centro radar lo ha identificato come un ricognitore Messerschmitt 210 della Lutwaffe; è passato anche ieri e l’altro ieri.

Alle 19.25 suonano le sirene dell’allarme aereo. Tutte le luci si spengono. Un rombo di aerei arriva da nordest e alle 19.30 ecco le prime bombe e le prime esplosioni, mentre candelotti illuminanti appesi a piccoli paracadute scendono lentamente e illuminano il porto e le quaranta grandi navi da carico alla fonda, in gran parte della classe “Liberty” (1); molte sono piene di munizioni; una, l’americana John Harvey, è piena di bombe all’iprite, il “gas mostarda” (2), e nessuno lo sa. Comincia così l’unico episodio di guerra chimica della seconda guerra mondiale; un disastro le cui conseguenze si faranno sentire per più di mezzo secolo (3).

Con l’arrivo degli eserciti alleati, che lentamente risalgono la penisola, il porto di Bari è diventato il nodo principale dell’organizzazione logistica dell’8a armata inglese sul fronte adriatico e la base di rifornimento di carburante della 15a Air Force, che ha il suo Comando nell’aeroporto di Manfredonia: 600 mila litri di carburante alla settimana, che una rete di oleodotti porta anche agli aeroporti di Foggia, Gioia del Colle e Grottaglie. Da questi aeroporti partono gli aerei che bombardano non solo l’Italia del centro e del nord ancora occupata dai tedeschi ma anche la Germania. Comandante è il generale James Doolittle, l’artefice del bombardamento di Tokyo del 18 aprile 1942 (4).

Gli aerei tedeschi in arrivo sono più di cento, quasi tutti Junkers 88, i bimotori da bombardamento più diffusi; alcuni sono partiti dall’aeroporto di Ronchi dei Legionari, vicino a Monfalcone, gli altri da due aeroporti in Grecia, vicino ad Atene; l’appuntamento, alle 19.25, è stato sul mare, trenta miglia a nordest di Bari. Alle 19.30 sono sulla città.

“Le navi, specie quelle che erano lungo il molo foraneo di levante“ scriverà Augusto Carbonara, uno che era in città e vide scardinata dal bombardamento la finestra della sua camera da letto (5), “furono sorprese d’infilata dalle bombe tedesche. Erano tanto vicine che le bomba cadute in acqua furono molto poche. Alcune navi bruciavano, altre affondavano, altre, incendiate, rotti gli ormeggi, andavano alla deriva, avvicinandosi alle navi non colpite. Le navi che nella stiva trasportavano esplosivi dapprima si incendiarono e poi finirono per deflagrare e colpire tutto il porto e anche molte case della città vecchia. I vetri delle abitazioni di mezza Bari andarono in frantumi”.
La sorpresa dell’attacco e l’ignoranza del carico della Harvey causano i danni più gravi. La maggior parte dei marinai è in franchigia. Cinema e teatri – il Piccinini, il Petruzzelli, l’Oriente, il Margherita, il Kursaal – sono aperti e pieni di inglesi e americani; al Margherita, ribattezzato Garrison Theatre, si proietta Springtime in the rockies con Betty Grable e John Payne. I militari più alti in grado stanno al vicino Barion, trasformato in circolo ufficiali.

Gli italiani no. “Al momento dell’attacco, dal comandante agli ufficiali, ai marinai” racconterà Oberdan Fraddosio, che quel giorno era l’ufficiale di guardia (6) “eravamo tutti in Capitaneria o sul posto di manovra delle ostruzioni retali alla testata del molo foraneo di levante. Non esistevano rifugi antiaerei. Non esistevano mezzi di protezione personale che non fossero vecchie maschere antigas inutilizzabili e inutilizzate. Perfino gli elmetti erano in numero inadeguato. Tutti rimasero ai loro posti fino alla fine dell’incursione”. Il porto, come altre basi navali ha all’imboccatura una rete che viene aperta per un tratto al passaggio di una nave. “Il Comandante” racconterà ancora Fraddosio “mi ordinò di eseguire una ricognizione nel bacino portuale portandomi fino alle ostruzioni. Nel percorrere le acque del bacino passammo molto vicini a navi che bruciavano e sulle quali esplodevano ancora le cariche dei cannoncini e delle mitragliere. Dovevamo tenerci sopravvento per evitare di essere avvolti dal fumo denso e acre degli incendi”.

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Quello che sembra fumo non è soltanto il fumo degli incendi; è anche il vapore dell’iprite. “Tra le navi” racconterà ancora Augusto Carbonara “fu colpita e incendiata anche la John Harvey, quella che, con altro materiale esplosivo, trasportava le cento tonnellate di bombe con l’iprite (7). I marinai rimasti a bordo tentarono con ogni mezzo di domare il fuoco, ma inutilmente, e dopo mezz’ora l’incendio si propagò alla stiva. Non ci volle molto che la nave saltasse in aria con tutto il suo carico e tutti gli uomini, compresi quei pochi che conoscevano la verità sul carico. Da quel momento cominciò l’inferno”. “La maledetta mustard” dirà ancora Carbonara “si mescolò alla nafta venuta fuori dalle petroliere affondate e formò un velo mortale su tutta la superficie del porto. Coloro che dalle altre navi si lanciavano in acqua furono ben presto zuppi della maleodorante sostanza. I vapori dell’iprite si spargevano intanto su tutto il porto; bruciavano la pelle e intossicavano i polmoni dei sopravvissuti”. A notte (solo alle 23 le sirene hanno dato il cessato allarme) si contano le navi affondate; sono 17: cinque americane, quattro inglesi, tre norvegesi, tre italiane (Barletta, Frosinone, Cassala), due polacche; sette le navi gravemente danneggiate. Il calcolo del materiale perduto sarà fatto nei prossimi giorni: non meno di quarantamila tonnellate. E i morti, i feriti?

“All’ospedale neozelandese (che aveva trovato posto nel non ancora finito Policlinico della città)” scriverà Carbonara “cominciarono ad arrivare i primi feriti. Molti, più che colpiti dalle esplosioni, erano provati dall’effetto del gas vescicante. Ma non si sapeva che fosse stato il gas a provocare tali effetti, perché, sul momento, nessuno lo intuì. Non vi erano vestiti di ricambio e pertanto non fu possibile cambiare d’abito i soldati che erano caduti nelle acque del porto. Chi non poté cambiarsi di sua iniziativa rimase quindi con gli abiti zuppi d’iprite, che non solo agì sulla pelle, ma fu assunta attraverso le vie respiratorie.
“I primi inspiegabili collassi si ebbero dopo cinque o sei ore dalla contaminazione. Dopo, seguirono le prime morti, quasi improvvise, di gente che qualche minuto prima sembrava stesse per riprendersi. Tutti avevano la pelle piena di vesciche. Sulle ascelle, l’inguine e i genitali le pelle si staccava come avviene per le ustioni più gravi”. Soltanto domani qualcuno dei medici comincerà a intuire qualcosa. Un capitano della sanità si recherà dalle autorità alleate per chiedere l’esatto contenuto delle navi colpite. Si telegraferà negli Stati Uniti, da dove le navi erano partite, ma nessuno darà o vorrà dare una risposta; e anche in futuro la risposta non arriverà mai (8). Quante le vittime? Sarà impossibile calcolarne il numero; sicuramente intorno a un migliaio tra civili e militari. Oltre ai morti per le bombe e per i crolli, oltre ottocento militari saranno ricoverati per ustioni o ferite; di essi 617 a causa dell’iprite. A Bari ne moriranno 84 e molti in altri ospedali, sia italiani sia in Africa del nord e negli Stati Uniti dove verranno trasportati. I civili saranno almeno 250. Nella città vecchia sono crollate alcune vecchie case e una di esse, non ricostruita, creerà una piazzetta al fianco della sacrestia della cattedrale. Nella parte nuova della città crollano tre edifici; due tra via Andrea e via Roberto, vicino alla chiesa di San Ferdinando, un terzo in via Crisanzio nei pressi della manifattura dei tabacchi.
“Ma se il bombardamento” racconta Paolo de Palma (9), un altro che era a Bari in quel giorno, “non si trasformò in un vero e proprio massacro per i cittadini baresi lo si deve al vento che si mise a spirare verso levante, evitando così un pericolo devastante. Forse fu San Nicola che volle ancora una volta tutelare la sua città”. E’ un fatto che in tutti i posti di mare una brezza, la sera, spira dal mare (che si raffredda più rapidamente) verso la terra (che rimane per un po’ più calda); e quindi, a Bari, da levante verso ponente. Questa sera la brezza è spirata da ponente verso levante e ha portato in alto mare i gas venefici dell’iprite (10).

NOTE

(1) Le “Liberty ships” furono uno dei fattori di successo della vittoria alleata. Per sopperire alla carenza di flotta mercantile e alla sua continua decimazione da parte dei sottomarini tedeschi operanti nell’Atlantico, gli Stati Uniti cominciarono a costruire nel 1941, su disegno inglese, questo tipo speciale di navi da carico, che avevano una portata lorda fino a diecimila tonnellate (trasportavano anche carri armati e aerei imballati) e una velocità di undici nodi. La loro peculiarità era di essere costituite da sezioni prefabbricate, prodotte eguali da fabbriche diverse e assemblate in cantiere con saldature elettriche. Occorreva poco tempo per costruire e mettere in mare queste navi; il primato fu di una di esse, costruita in quattro giorni, 15 ore e 30 minuti e allestita in tre giorni. Fra il 1941 e il 1945 di navi Liberty ne furono costruite 2578; anche due-tre al giorno.

(2) L’iprite (un solfuro di cloro-etile) non è un gas ma un liquido di colore bruno giallognolo dall’odore di aglio e senape (di qui l’appellativo di “mostarda”). Penetra in profondità nella cute e agisce anche attraverso gli abiti, il cuoio e la gomma, producendo vesciche e lesioni dolorose; se, vaporizzata da un’esplosione, si diffonde nell’aria, arreca danni gravi all’apparato respiratorio e al sangue. Prende il nome da Ypres, la cittadina del Belgio dove i tedeschi l’usarono per la prima volta nel 1915 durante la prima guerra mondiale. Nel 1925 una conferenza internazionale a Parigi vietò l’uso di quelli che comunemente vengono chiamati “gas asfissianti”, ma riserve di aggressivi chimici, anche più pericolosi dell’iprite, sono possedute da quasi tutti gli eserciti, ufficialmente per eventuali ritorsioni se il nemico li usasse per primo. Così gli americani hanno spiegato – molti anni dopo – il carico di bombe all’iprite a bordo della Harvey. Aggressivi chimici sono stati usati anche dall’Italia contro gli abissini durante la guerra di Etiopia del 1935-1936.

(3) Sembra che resti delle bombe all’iprite della Harvey siano rimasti nei fondali del porto di Bari e trascinati dalle correnti lungo la costa. Casi di leucemia fra i pescatori di Bari e di Molfetta sono stati attribuiti all’iprite del 1943 e molte interrogazioni in questo senso sono state presentate in Parlamento; l’ultima il 30 gennaio 2001 alla Camera dal deputato Delle Vedove. Nello stesso anno un “libro bianco” sullo stesso argomento (“Cinquanta anni di colpevole silenzio”) è stato illustrato da Nichi Vendola.

(4) Ingegnere aeronautico civile prima della guerra, James Doolittle, detto Jimmy, comandò nell’aprile del 1942 i sedici bombardieri americani che, partiti dalla portaerei Enterprise a 1200 chilometri dal Giappone, bombardarono Tokyo, Yokohama, Osaka e Nagoya e poi, consumato il carburante, quindici atterrarono o si schiantarono in terra cinese e uno atterrò a Vladislovak in Unione Sovietica. Il “Doolittle raid” fu il primo attacco aereo americano sul Giappone e risollevò il morale dell’opinione pubblica americana, colpita dall’attacco giapponese a Pearl Harbor del 7 dicembre 1941.

(5) Augusto Carbonara in [email protected]. Il racconto è anche in www. cronologia.it/biogra2/bari.htm

(6) Oberdan Fraddosio (Bari 1917), Percorsi di pace e di guerra, note autobiografiche. Nel 1956 ha lasciato la Marina ed è diventato funzionario della Camera dei deputati.

(7) Sembra che ciascuna bomba, lunga 120 centimetri e del diametro di venti centimetri, contenesse 31 chili di mustard gelatinosa. Si scoprì poi che fra le bombe sganciate dagli aerei tedeschi c’era anche un tipo nuovo, usato per la prima volta e di fabbricazione italiana: la motobomba FF, un ordigno del peso di 300 chilogrammi e armato di 120 chilogrammi di esplosivo; scendeva frenato da un paracadute e in acqua, spinto da un motore elettrico, diventava una specie di siluro. La sigla FF derivava dal nome dei progettisti, il tenente colonnello Ferri e il colonnello Fiore.

(8) Nel dicembre del 1943 il governo americano inviò a Bari un esperto, il colonnello Stewart Alexander, perché redigesse un rapporto sulle “strane” morti avvenute a Bari. Alexander aveva un eccellente curriculum di studi e nel 1942 fu chiamato a far parte del Quartier generale di Eisenhower come consulente medico per il settote della chimica di guerra. Una prima relazione fu presentata al Quartier generale di Algeri il 27 dicembre 1943 (“Ustioni da gas tossici durante la catastrofe del porto di Bari”). Eisenhower approvò il rapporto e lo fece archiviare, ma Winston Churchill dette disposizioni affinché venisse tolta la parola “iprite” e le ustioni fossero attribuite “ad azione nemica”. In altri rapporti le ustioni furono classificate come “dermatiti” per causa “not yet identified”.

(9) Paolo De Palma (Bari 1923, Roma 2007), La mia vita, la nostra storia. Dal 1961 al
2006 membro del Comitato di presidenza della Fieg (Federazione italiana editori di giornali); dal 1973 al 1992 Amministratore delegato dell’agenzia Ansa.

(10) Disastro a Bari; con questo pertinente titolo (e il sottotitolo: La storia inedita del più grave episodio di guerra chimica nel secondo conflitto mondiale) è uscito nel 1971 a New York (“The Macmillan company”) un libro di Glenn B. Infield, maggiore dell’aviazione americana durante la guerra. Il libro è stato pubblicato in Italia nel 1977 (seconda edizione nel 2003) da Mario Adda editore, con un saggio introduttivo di Giovanni Assennato, docente della scuola di specializzazione in medicina del lavoro presso l’università di Bari, e di Vito Antonio Leuzzi, direttore dell’Istituto pugliese per la storia dell’antifascismo e dell’Italia contemporanea. Nel saggio si parla di centinaia di casi di intossicazione da iprite sia tra il personale di bonifica dei porti di Bari e di Molfetta, sia tra i pescatori. Tra il 1955 e il 2000 sono state presentate più di duecento denunzie di pescatori per ustioni di varia entità da “gas mostarda”.

Sergio Lepri
Fonte : http://sergiolepri.it
Link:http://www.sergiolepri.it/1943/021243.pdf
2.12.08

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