Francia 2017: vincerà Marine Le Pen, grazie all’errore della banca Rothschild

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DI FEDERICO DEZZANI

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Si surriscalda il clima politico in Europa, in attesa delle tornate elettorali che decideranno il futuro della moneta unica. Il punto di svolta coinciderà con le presidenziali che si terranno il 23 aprile ed il 7 maggio in Francia, sempre meno “motore” dell’Unione Europea e sempre più europeriferia. L’elettorato francese è in aperta ribellione, come già dimostrato dalle primarie del partito repubblicano vinte dal candidato “outsider”, il “filo-russo” François Fillon. Per scongiurare un ballottaggio tra Fillon e la populista Marine le Pen, l’establishment è corso ai ripari, azzoppando il repubblicano con uno scandalo mediatico e lanciando verso il ballottaggio il “rottamatore” Emmanuel Macron, ex-banchiere della Rothschild & Compagnie. La manovra si basa su un calcolo politico clamorosamente sbagliato e Marine Le Pen avrà gioco facile a battere al secondo turno  “le candidat du fric”, il candidato dei soldi.

La “douce France” è in aperta ribellione

Gli ultimi caotici, folli, mesi dell’Unione Europea si stanno svolgendo senza sorprese, regalando ogni giorno colpi di scena: i falchi tedeschi attaccano Mario Draghi e le sue politiche ultra-accomodanti, il governatore della BCE ricorda “l’irrevocabilità” della moneta unica (ammettendo implicitamente che la sua dissoluzione è nell’ordine delle cose), la cancelliera Angela Merkel ipotizza un’Europa a due velocità per liberarsi dal fardello dell’europeriferia, il governo italiano (forse bluffando, forse alienato dalla realtà) plaude alle proposte di Berlino, come se l’euro-marco non avesse già relegato l’Italia ai margini dell’Europa.

Più si avvicinano le decisive tornate elettorali del 2017 e più la situazione si fa incandescente. Messa di fronte al fallimento dell’euro come strumento politico per strappare gli Stati Uniti d’Europa (nein tedesco agli eurobond, all’unione bancaria, alla transfer-union, etc. etc.), l’oligarchia euro-atlantica ha scelto di arroccarsi, difendendo strenuamente le posizioni dall’avanzata dei “populisti”, ossia dei partititi che catalizzano il malessere della società accumulato in sette anni di eurocrisi. L’apice della tensione sarà certamente toccato nei prossimi mesi quando, tra il 23 aprile ed il 7 maggio, la Francia sarà chiamata alle urne per scegliere il nuovo inquilino dell’Eliseo: grazie al sistema elettorale transalpino, un doppio turno dove al ballottaggio si fronteggiano i due candidati più votati, i “populisti” del Front National avranno ottime probabilità di conquistare la presidenza della Repubblica, innescando così il processo finale di dissoluzione dell’Unione Europea.

La Francia non è infatti un Paese periferico come la Grecia od il Portogallo, né uno Stato commissariabile (più o meno velatamente) come l’Italia e la Spagna, sottoponendolo a massicce dosi di austerità/recessione/svalutazione interna: l’Esagono è la seconda economia della moneta unica, nonché parte integrante del famigerato “motore franco-tedesco” (da tempo sbiellato). Il successo dei populisti alle prossime presidenziali sancirebbe automaticamente la fine dell’euro e delle istituzioni di Bruxelles, con buona pace delle pretese di irrevocabilità dell’euro ed i sogni di Angela Merkel di un’Europa a più velocità. Il giorno dopo alla vittoria del populisti francesi, l’Unione Europea arriverebbe al capolinea, imboccando la strada della disgregazione, forse concordata, ma più probabilmente caotica.

La pericolosità della Francia per l’architettura euro-atlantica è tutt’altro che nuova, tanto che già nell’ottobre del 2015 scrivemmo un articolo dall’eloquente titolo “Turbolences en France: danger mortel pour l’euró!”: un capo dello Stato, François Hollande, tra i più impopolari della Quinta Repubblica, un debito pubblico che è lievitato dal 60% al 100% del PIL da quando è stato adottato l’euro, una bilancia commerciale in cronico disavanzo, una disoccupazione record, pari al 10% della forza lavoro. Perché la Francia possa rimanere agganciata all’euro, andrebbe anch’essa sottoposta alle dure ricette dell’austerità e della svalutazione interna: i cugini d’Oltralpe vantano però una lunga storia di rivoluzioni e sono naturalmente inclini a ribellarsi se giudicano lo Stato troppo vessatorio. Lo hanno ricordato il piano di esuberi ad Air France, che per poco non è degenerato in un linciaggio dei dirigenti, e le proteste contro il “Job Act” francese, la legge El Khomri, sfociate in mobilitazioni di massa di lavoratori e sindacati che hanno portato il Paese ad un passo dalla paralisi.

Nel tentativo di sedare l’elettorato e soffocare le pulsioni populiste/blanquiste, l’establishment euro-atlantico decide di adottare, a partire dal gennaio 2015, la classica strategia della tensione, così da stringere l’opinione pubblica attorno al capo dello Stato ed ai “partiti di sistema”. Si notino le date: nell’autunno 2013 François Hollande inanella un nuovo record di impopolarità1, nella primavera 2014 Manuel Valls è nominato primo ministro, nel gennaio 2015 è inaugurata, con la strage di Charlie Hebdo, la lunga scia di attentati gestita dalla DGSE e dai servizi segreti atlantici (Mossad, CIA, MI6). Seguono la carneficina del Bataclan, la strage di Nizza ed uno stillicidio di attentati minori con cadenza mensile: circa 200 persone muoiono nell’arco di due anni ed è facile attendersi ancora qualche colpo di coda prima delle presidenziali.

Sull’onda della strage di Parigi, è dichiarato lo stato d’emergenza (novembre 2015) e la serie quasi interrotta di attentati permette di protrarlo ad ogni scadenza: per la prima volta dalla guerra in Algeria, i francesi voteranno quindi in un contesto di limitazioni alle libertà personali, mentre nei Paesi limitrofi (Gran Bretagna, Spagna, Italia e Germania) regna una relativa calma. Sebbene gli attentati servano a mobilitare 10.000 riservisti, a ripetere il mantra “la France est en guerre” e ad iniettare effimere dosi di popolarità alla presidenza di Hollande, i consensi dei principali partiti d’establishment si squagliano come neve al sole: a distanza di mese dalla carneficina del Bataclan il Front National si impone come prima forza politica alle regionali del dicembre 2015 e si rafforza la certezza che il FN conquisterà il ballottaggio alle presidenziali del 2017, come già avvenuto nel 2002 con la sfida tra Jacques Chirac e Jean-Marie Le Pen.

A differenza di 15 anni fa, il Front National è però rappresentato dall’accattivante volto di Marine Le Pen e, complice la grande debolezza dei repubblicani (ancora convalescenti dalla presidenza di Nicolas Sarkozy) e la liquefazione dei socialisti, il partito è ben posizionato per raccogliere voti a destra (sicurezza, lotta all’immigrazione, gaullismo anti-NATO) ed a sinistra (difesa dell’industria nazionale, contrasto all’impoverimento post-euro, attacco ai soliti notabili parigini). Le probabilità di una vittoria del Front National aumentano settimana dopo settimana, concretizzando i peggiori incubi dell’establishment euro-atlantico: dopo Donald Trump alla Casa Bianca, Marine Le Pen all’Eliseo.

Un presidente della Repubblica espressione del Front National, favorevole all’Europa della Nazioni, all’uscita dall’euro ed al ritorno alla franco, allo svincolamento della Francia dalla NATO (con il probabile avvallo di Donald Trump) ed a rapporti solidi e proficui con la Russia (da cui ha sinora ricevuto finanziamenti per la campagna elettorale2): la vittoria di Marine Le Pen sarebbe, dopo l’affermazione dell’isolazionista e protezionista Trump, il colpo di grazia alla già traballante impalcatura CEE-UE/NATO su cui basa da 70 anni il dominio angloamericano sul Vecchio Continente.

Che fare? Come sempre avviene in questi casi, l’establishment sceglie di intervenire in campagna elettorale a colpi di scandali mediatici-giudiziari, in barba a qualsiasi principio democratico, così da eliminare i concorrenti scomodi e spianare la strada al proprio candidato: un film già visto con Nicolas Sarkozy, Angela Merkel, Matteo Renzi, etc. etc.

In Francia, l’operazione si basa però su un calcolo politico che rischia quasi certamente di rivelarsi errato alle urne: contrapporre, al ballottaggio del 7 maggio, l’ex-Rothschild Emmanuel Macron alla populista Marine Le Pen, confidando nella vittoria del “rottamatore”  transalpino sulla candidata anti-sistema. Come se la Francia ed il mondo fossero rimasti fermi al 2002 ed il vento del populismo non stesse spazzando l’Occidente da tempo.

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