QUELLO CHE SIAMO (LA DEMOCRAZIA NON PUÒ FUNZIONARE COME DOVREBBE: LA NATURA UMANA NON LO PERMETTE)

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DI GEORGE MONBIOT
theguardian.com

E se la democrazia non fosse realizzabile? E se non fosse mai stata possibile e mai lo potesse essere? E se il governo del popolo da parte del popolo per il popolo fosse solo una favola? E se fosse solo un’utopia spacciata da sempre da bugiardi e ciarlatani?

C’é più di un motivo per sollevare questi dubbi. Le bugie, le esagerazioni e le paure ingiustificate da entrambe le parti nel non-dibattito sulla Brexit; le ‘fandonie’ xenofobiche che hanno accompagnato il referendum in Ungheria; la capacità di Donald Trump di schivare qualsiasi scandalo o chiacchiera sul suo conto; l’elezione di Rodrigo Duterte nelle Filippine, che si considera un nuovo Hitler: si tratta di casi isolati o rivelano un problema sistemico?

In Democrazia per Realisti, pubblicato all’inizio dell’anno dai professori di scienze sociali Christopher Achen e Larry Bartels, si sostiene che “la teoria popolare della democrazia” – l’idea cioè che i cittadini prendano insieme decisioni politiche coerenti e intelligenti, sulla base delle quali i governi poi agiscono – non ha alcuna relazione con il suo funzionamento reale. Ammesso che possa mai funzionare.

Gli elettori – sostengono i due professori – non soddisfano mai i suoi requisiti fondamentali. La maggior parte di essi sono troppo occupati con il lavoro, la famiglia e altri problemi quotidiani. E quando ci fosse del tempo libero, sono pochissimi quelli che scelgono di occuparlo per approfondire i problemi socio-economici legati all’allentamento monetario; e quei pochi che lo fanno, non lo fanno neanche nel modo come detta la “teoria” democratica.

La nostra idea popolare di democrazia si fonda sulla nozione Illuminista della scelta razionale. Secondo questa, noi prendiamo decisioni politiche sulla base di informazioni raccolte, valutando le prove e utilizzandole per identificare le scelte più giuste; poi tentiamo di eleggere un governo che sposerà queste politiche. In questo modo, ci mettiamo in competizione con altri elettori razionali, e cerchiamo di raggiungere quelli ‘incerti’ attraverso un dibattito ragionato.

In realtà, come suggerisce in sintesi la ricerca di Achen e Bartels, la maggior parte delle persone non dispone delle giuste informazioni sulle politiche e sulle loro implicazioni, hanno poco interesse a migliorare questo stato di mediocre conoscenza e nutrono una profonda avversione per il confronto politico. Basano le loro decisioni politiche su chi siamo più che su come la pensiamo.

In altre parole, agiamo politicamente non come esseri individuali e razionali, ma come membri di gruppi sociali che esprimono collettivamente un’identità sociale. Aderiamo a quei partiti politici che sembrano più corrispondenti alla nostra cultura, senza considerare se le loro politiche soddisfino o meno i nostri interessi. Restiamo fedeli a quei partiti politici anche se questi hanno smesso da tempo di agire per i nostri veri interessi.

Naturalmente, possono avvenire dei cambiamenti, spesso come risultato di circostanze estreme, a volte perché un altro partito prende delle posizioni che meglio tutelano alcune identità culturali. Ma raramente questi cambiamenti rispecchiano una razionale valutazione politica.

L’idea che i partiti siano guidati dalle decisioni politiche prese dagli elettori sembra essere un puro mito: in realtà, i partiti fanno le politiche e noi ci mettiamo in riga. Per minimizzare la dissonanza cognitiva – il divario cioè tra ciò che percepiamo e ciò in cui crediamo – o adattiamo le nostre idee a quelle del nostro partito favorito o evitiamo di capire quello che tale partito sostenga realmente. E’ così che le persone finiscono con il votare contro i loro stessi interessi.

E poi, va detto: facciamo pena nella comprensione della lingua. Quando nei sondaggi è stato chiesto agli americani se il governo federale stesse spendendo troppo poco per l’”assistenza ai poveri”, il 65% ha risposto sì. Ma solo il 25% ha risposto sì alla domanda se stesse spendendo troppo poco per il “sociale”. Sull’approccio alla guerra del 1991, quasi due terzi degli americani si sono dichiarati disposti ad “usare la forza militare”. Ma meno del 30% era disposto ad “andare in guerra”.

Persino la nozione meno ambiziosa di democrazia – che sia uno strumento con il quale il popolo punisce o gratifica i governi – appare dissociata dalla realtà. Tendiamo a ricordarci solo degli ultimi mesi delle performance di un governo (un errore noto come “oblìo del lungo termine”) e siamo pessimi nell’attribuire correttamente le responsabilità. Un grande squalo bianco che uccise cinque persone nel Luglio del 1916 provocò tra le comunità costiere del New Jersey un calo di favore del 10% per il governo in carica. Nel 2000, secondo un’altra analisi condotta dagli autori, 2.8 milioni di elettori punirono i Democratici per le gravi inondazioni e la siccità verificatesi quell’anno: Al Gore, sempre secondo gli autori, perse Arizona, Louisiana, Nevada, Florida, New Hampshire, Tennessee e Missouri, il che appare ironico considerando le sue posizioni sul cambiamento climatico.

Un’ovvia risposta sarebbe più informazione e educazione civica. Ma anche questo sembra non funzioni come dovrebbe. I Repubblicani moderatamente informati erano più propensi dei Repubblicani poco informati a credere che Clinton avesse approvato un aumento nel deficit di bilancio (che poi calò rapidamente). Perché? Perché a differenza di quelli completamente disinformati, loro sapevano che fosse un Democratico. Quel piccolo numero di persone politicamente molto informate tendono ad utilizzare le loro informazioni non per mettere in discussione le proprie convinzioni, ma per razionalizzarle. La conoscenza politica, secondo Achen e Bartels “aumenta il pregiudizio”.

La democrazia diretta – referendum e iniziative popolari – sembra produrre dei risultati anche peggiori. Negli Stati Uniti, accade sempre più spesso che gruppi di lobby miliardarie sfruttino le iniziative popolari per raggiungere degli scopi che la legislazione in vigore non gli consentirebbe. Tendono a sostituire le imposte con canoni di utilizzo, a ostacolare la redistribuzione della ricchezza e a provocare il degrado dei servizi pubblici. Che sia per rappresentanza o diretta, la democrazia pare essere proprietà privata dei ricchi.
Questo non vuol dire che non abbia delle virtù, ma solo che non sono quelle virtù che normalmente le attribuiamo. La democrazia consente ai governi di cambiare senza spargimenti di sangue, limita i termini temporali delle cariche pubbliche e assicura che i risultati delle elezioni siano pubblicamente accettati e recepiti. A volte una pubblica assunzione di responsabilità coincide con la realtà: è per questo che nelle democrazie non avvengono carestie.

In questo batte le dittature. Ma è tutto qui quello che può offrire? Un punto debole del libro è che la maggior parte degli esempi citati riguardano gli Stati Uniti e sono anche datati. Se gli autori avessero esaminato i gruppi d’informazione pubblica in America Latina, i bilanci partecipati in Brasile e a New York, la frammentazione dei tradizionali partiti politici in Europa e il movimento che è poi culminato nel successo mancato per un pelo di Bernie Sanders, avrebbero conosciuto e analizzato dei buoni motivi per sperare nel futuro. Questo non significa che la teoria popolare della democrazia sia realizzabile, ma che la situazione non è così disperata come loro la rappresentano.

George Monbiot

Fonte: www.monbiot.com

Link: http://www.monbiot.com/2016/10/06/what-we-are/

6.10.2016

Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di SKONCERTATA63

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