Di Gianfranco Bosco per ComeDonChisciotte.org
Il nome Afghanistan a molti suggerisce l’idea di una popolazione, di una cultura e di un territorio lontani, poco e male conosciuti, un po’ esotici e probabilmente molto “arretrati” secondo i parametri di sviluppo e civiltà che sono definiti dall’Occidente.
Comparato agli stati vicini dell’Iran e dell’India, l’Afghanistan, nell’accezione ad esso riferita nel momento storico attuale, è il Paese che più tardi ha posseduto una storia che gli sia propria e ci si potrebbe chiedere se, per il gioco bizzarro del destino, contingenze diverse non avrebbero potuto definire un tracciato altro da quanto si può constatare.
In modo approssimativo, il paese potrebbe essere geograficamente, etnicamente e culturalmente separato da una linea ideale sud ovest-nord est dal Sistan iranico, lungo l’Hindukush fino alle alte cime del Pamir; la parte a nord di cultura persiana e quella a sud profondamente pashtun.
La storia dei secoli lo conferma e lo racconta, anche se le sovrapposizioni dei destini nel “Crocevia dell’Asia” sono state il motivo caratteristico di codeste contrade, sempre. I confini geografici attuali però sono il risultato degli equilibri tra grandi potenze al tempo del “Great Game” mirabilmente definito così da Ruyard Kipling.
Con la fine British Raj, e come in molte altre situazioni, i figli della “Perfida Albione” lasciarono le terre del popolo pashtun divise dalla linea Durand, ora confine tra Pakistan ed Afghanistan, ai tempi tracciata a difesa della pianura del Punjab. L’Afghanistan restò quello che ora è, comprendente etnie e culture diverse, e gli afghani divisi.
Per queste ragioni bisogna sempre aver chiaro ciò che l’Afghanistan è, insieme all’idea che gli afghani possano essere e sono anche altro. Sempre per tali motivi, probabilmente, ogni riflessione sullo stato attuale delle vicende può trovare un valido supporto dalla proposizione di aspetti culturali e storici del contesto da cui essa viene originata.
È doveroso premettere ed affiancare elementi dell’essenza afghana, nella sua dimensione storica e culturale, all’analisi degli aspetti della situazione attuale del paese; altrimenti ne risulterebbe inficiata una corretta lettura, soprattutto se effettuata con criteri e categorie poggianti su valori – i nostri valori e regole – non contestualizzati, fallaci ed impropri come la storia attuale sta viepiù mostrando.
È indubbio che, nonostante questo paese sia balzato agli onori della cronaca e della storia recente, popolo, origini, cultura e storia dell’Afghanistan siano qualcosa di oscuro e misterioso per la maggior parte delle persone. Questa mancanza di conoscenza dipende dalla remota posizione geografica e dal fatto che il paese per le vicende del XIX secolo sia rimasto isolato e si sia isolato per resistere all’aggressiva pressione della Russia zarista e dell’Inghilterra vittoriana.
Anche per queste ragioni l’Afghanistan ha scoraggiato a lungo l’ingresso dei visitatori stranieri e nel contempo gli afghani stessi si sono mostrati per la maggior parte poco propensi a muoversi all’estero. Solo nel secondo dopoguerra la situazione è cambiata e una conoscenza più recente, rispetto alle relazioni e ai resoconti degli europei del XIX secolo, ha potuto avere corso.
L’Afghanistan ha avuto una grande importanza, in verità, nel passato dell’Asia; è stato centro di grandi imperi oppure oggetto di dispute tra grandi potenze della storia passata. Inoltre, è stato l’unico passaggio possibile per migrazioni, invasioni e viaggi che hanno percorso l’immensità di quella parte dell’Asia: un vero e proprio “Crocevia dell’Asia”.
L’idea di Afghanistan ha preso forma in misura considerevole nell’immaginario occidentale, purtroppo, solo a partire dal 27 dicembre 1979 quando cominciò l’invasione del paese da parte dell’Armata Rossa sovietica, avvenuta a supporto del governo del Partito Democratico del Popolo dell’Afghanistan (PDPA); quest’ultimo in difficoltà per aver avviato riforme di modernizzazione di ispirazione marxista che avevano cominciato ad incrinare l’amalgama tradizionalista che aveva retto nei decenni precedenti.
Le vicende successive, la resistenza vittoriosa ai sovietici, l’avvento dei Talebani e l’intervento americano, principalmente, lo hanno proiettato alla ribalta della cronaca ed hanno convogliato su di esso l’attenzione dei mezzi di informazione.
Il paese collocato tra i deserti e le alte montagne dell’Asia centrale, in cui si trovano popoli e culture a testimonianza di grande civiltà e di secoli e secoli di storia, è sopravvissuto grazie alla sua neutralità assoluta durante le tragedie della storia umana contemporanea; esso è sopravvissuto conservando fino ai nostri giorni usi e costumi di una dominante culturale tradizionale nelle innumerevoli sfaccettature del “tappeto” etnico afghano, ovviamente all’interno di un sostrato islamico di base. Ciò ha comunque permesso, tra le altre ragioni, di intraprendere una propria strada verso lo “sviluppo”, svincolata dai dettami dell’allineamento ai blocchi contrapposti della Guerra Fredda prima e dall’adeguamento ai criteri di una certa globalizzazione poi.
L’invasione sovietica ha proiettato il paese brutalmente nella realtà contemporanea; l’intervento americano ha perseguito, al di là dei proclami ideali, ideologici e di principio, lo stesso scopo invertendo solo i fattori di un “Grande Gioco” che si poggia su interessi politici e geostrategici.
L’interesse dell’opinione pubblica delle terre d’Occidente è stato destato solo per un certo tempo e poi, come in troppe altre occasioni, l’abitudine colpevole a bombardamenti, mine, massacri e un sempre maggior lassismo morale hanno fatto sì che si distogliesse l’attenzione dalle vicende afghane.
Una diffusione delle informazioni superficiale, poco preparata e di parte ha contribuito a mettere sullo stesso piano, come in molti altri contesti, gli aggressori e le vittime.
Sul pretestuoso ed improprio assoluto dell’essere e del divenire di una certa e presunta civiltà occidentale, assoluto che trova le sue origini soprattutto nella mancanza di conoscenza e forse anche nella malafede propagandistica, il popolo afghano è diventato parte di uno scenario da giochi di guerra e ogni aberrazione è stata giustificata da ragioni che poggiano sull’arretratezza culturale e sulla “barbarie” dei costumi di genti e culture che, in fondo, per nulla o poco si conoscono. Illuminanti sono le riflessioni, in tal senso, sul concetto di Orientalismo, di Oriente e di Orientale effettuate tempo fa da Edward Said nel suo “Orientalismo” e possono essere importanti ora alcune riflessioni sulla “letteratura” occidentale che disserta sulle vicende afghane, da cui emerge la linea determinante di moltissime analisi.
Un vero e proprio razzismo culturale – darwiniano, dimentico di ogni relativismo di analisi e di ogni onestà intellettuale, manipolato o inconscio, ha giustificato atrocità tali da parte della “Comunità internazionale” che rendono superflue e ridicole le elucubrazioni sul progressismo, sulla libertà, sulla modernità, sulla democrazia e sulla civiltà più in generale che si vuole calare sugli afghani dall’alto dei bombardieri.
Afghan e Pashtun sono sinonimi. Essere pashtun vuol dire sentirsi libero e indipendente quasi fino all’anarchia. Unici legami guida sono quelli con la famiglia estesa: clan, tribù, etnia e soprattutto un codice etico secolare e tradizionale (il Pashtunwali). I pashtun non hanno mai accettato a lungo ingerenze e presenza straniere.
Ma chi sono gli afghani? La Costituzione del 1964 e quelle successive considera afghano ogni abitante dell’Afghanistan; originariamente il termine afghan era usato da altre etnie e con malevolenza dai tagiki, come sinonimo di pashtun: il 40% di essi vive in Afghanistan, il 20% in Pakistan.
L’Afghanistan osservato, l’Afghanistan immaginato, l’Afghanistan giudicato, l’Afghanistan…..
L’importanza delle fonti scritte europee per creare l’“idea” dell’Afghanistan è stata a lungo riconosciuta e studiata. Resoconti di viaggio, rapporti coloniali militari e amministrativi e successivamente testi giornalistici ed etnografici, hanno tutti svolto un ruolo fondamentale nel plasmare il modo in cui l’Afghanistan è stato immaginato, compreso e affrontato nel corso dei secoli.
Durante periodi alternati di attenzione esterna e oblio, l’Afghanistan e i suoi abitanti sono stati materiale generalizzante per autori di narrativa di tutto il mondo. Dall’inizio del XIX secolo e per oltre un centinaio di anni, le fonti degli scrittori erano in gran parte gli “scrittori di notizie”, soldati e agenti dell’Impero britannico e le gazzette e i memorandum da loro prodotti. Fino alla metà del XX secolo, la difficoltà di viaggiare nel paese era considerevole, e quando è diventata – per un breve periodo – più facile, gran parte della precedente ondata di interesse per la lettura e la scrittura del paese si è attenuata.
L’interesse del mondo per l’Afghanistan si riaccese dalla fine degli anni ’70 in poi con un colpo di stato, l’invasione sovietica e la guerra; tutto ciò significava anche che l’accesso diretto al paese era nuovamente vietato. Le informazioni venivano ottenute attraverso una nuova classe di intermediari e faccendieri politicamente motivati, o ricorrendo ai vecchi classici, spesso coloniali. Le opere di narrativa sull’Afghanistan hanno quindi in gran parte interiorizzato e abbellito molti degli argomenti politicamente caratterizzati esposti dai suoi aspiranti colonizzatori e dai loro elogiatori o rivali. E’ esemplare dare uno sguardo ai troppi più comuni, fondati su circostanze di varia verità o significato, ma tutti problematici in quanto costruiti come essenziali ed assoluti:
- L’Afghanistan come posizione strategica chiave nella competizione per il potere in Asia – controllo militare, la “Porta dell’India”, il potenziale economico, fulcro sulla “Via della Seta”.
- l’Afghanistan come paese crocevia tra Asia centrale, Asia meridionale e Medio Oriente – un triplo confine senza centro con l’implicazione che la sua esistenza è intrinsecamente artificiale o instabile, nonostante sia una delle poche entità statali nella regione che ha preceduto l’era coloniale.
- L’Afghanistan intellettualmente sopito e politicamente immobile, con gli afghani che “tradizionalmente” rifiutano ogni nozione di secolarismo, statualità e politica in nome della religione, dei costumi tribali e della faziosità tra clan.
- L’Afghanistan come “cimitero degli imperi”, una terra abitata da una popolazione così turbolenta e bellicosa che nessuna potenza esterna potrebbe controllarla in modo soddisfacente, poiché le varie tribù smetterebbero (per breve tempo) di litigare tra loro per unirsi e massacrare gli stranieri.
Una serie corrispondente di luoghi comuni è stata quindi applicata per descrivere gli abitanti del paese, la cui immagine è stata a lungo confusa con quella delle tribù pashtun orientali che i funzionari britannici allora, e l’intelligence ora, potevano affermare di conoscere meglio, pur non avendo mai conosciuto direttamente l’Afghanistan. Gli “afghani” sono stati alternativamente descritti come traditori o cavallereschi, egualitari o fanatici. Successivamente, il mondo esterno scoprì il “mosaico di etnie” che componeva il paese e decise che erano le loro differenze inconciliabili la causa delle turbolenze politiche, la causa dell’incapacità ad accedere alla Modernità – quella globalizzante e neocoloniale che si ritiene (riteneva?) un assoluto.
Christian Bleuer in – From ‘Slavers’ to ‘Warlords’ – ad esempio – analizza la descrizione degli uzbeki dell’Afghanistan nella scrittura occidentale. Dopo aver esaminato la storia della scrittura occidentale sugli uzbeki, dagli storici apertamente razzisti del XIX secolo ai giornalisti del XXI secolo, con le loro più sottili sfumature anti-uzbeke. Bleuer ha concluso che le ragioni per le “rappresentazioni spesso offensive, parziali o sprezzanti degli uzbeki nelle pubblicazioni e nel giornalismo occidentali sono cambiate nel tempo, ma alcuni fattori rimangono costanti e possono essere visti sia negli scritti dell’Impero britannico che in pubblicazioni più recenti. Il definire e l’interpretare illuminano sulle ragioni per cui il modo in cui le diverse comunità etniche in Afghanistan sono state rappresentate come sono state – “al servizio di determinati obiettivi politici – dell’impero (filo-impero britannico), dell’ideologia (anticomunismo o pro-comunismo) o della difesa (governo pro o anti-USA).”
I principali luoghi comuni visti nella letteratura sull’Afghanistan – che è una posizione strategica chiave, un paese al bivio, intellettualmente torpido e politicamente immobile e il cimitero degli imperi – hanno generato nel tempo vari analoghi sottotemi. Alcuni luoghi comuni sono passati in secondo piano, mentre ne sono emersi di nuovi, come l’enfasi sull’approccio ultra-ortodosso – categoria non applicabile senza un chiarimento in specifico – degli afghani all’Islam – dimenticando la presenza del sunnismo hanafita, della shiismo duo decimano e di quello ismailita con le loro ovvie differenze – o l’attenzione sulla condizione precaria delle donne afghane – generalizzazione accomunante etnie diverse, la vita in città, le necessità del nomadismo Kuchi ed altro.
I luoghi comuni ricorrenti sono stati, e sono tuttora, rafforzati durante i periodi di crisi e di maggiore attenzione globale. Ad esempio, la visione dell’Afghanistan come cimitero degli imperi sembra attualmente fondersi con il luogo comune del rifiuto di ogni innovazione da parte degli afghani e del loro torpore politico e intellettuale per produrre un nuovo luogo comune più completo, che potrebbe essere provvisoriamente intitolato “L’Afghanistan come il cimitero della modernità”.
Gli insuccessi guidati dagli Stati Uniti potrebbero col tempo trasformarsi in un esempio archetipico dell’inadeguatezza delle moderne istituzioni e dei valori “occidentali” di fronte all’ostinato rifiuto della modernità, di questa modernità, da parte degli afghani in nome del “tradizionale” e “religioso” sistema di valori. Un simile approccio sottovaluta l’impatto delle carenze e degli squilibri militari, politici ed economici dell’esperimento di costruzione istituzionale post – 2001, a favore di una narrazione che attribuisce la colpa della debacle al “carattere afghano”.
Sarebbe utile notare che i tempi di crisi non sempre forniscono utili punti di osservazione per osservare e comprendere le caratteristiche a lungo termine di una determinata entità territoriale e sociale. Sfortunatamente, sono stati proprio questi momenti di crisi a risvegliare gran parte dell’interesse mondiale per l’Afghanistan, diventando così importanti nel definirne l’immagine globale.
In termini di narrativa moderna, gran parte della produzione letteraria apparsa dopo l’intervento internazionale a guida USA (iniziato nel 2001), era costituita da “libri istantanei” pubblicati frettolosamente per sfruttare l’interesse globale sulla scia dell’11 settembre e della caduta del primo regime talebano. Altri sono stati spinti dal bisogno di approfondire la conoscenza di questo paese devastato dalla guerra e della difficile situazione della sua gente. Nel corso del tempo, le rappresentazioni eccessivamente superficiali o eccessivamente drammatizzate hanno lasciato il posto ad approcci più ricercati e sofisticati al paese, alla sua gente e al panorama post – 2001. Inoltre, per la prima volta, un certo numero di autori afghani hanno ottenuto una crescente visibilità e importanza nella rappresentazione del loro paese, e alcuni dei loro libri sono diventati best – seller internazionali.
Questi recenti libri di narrativa, siano essi scritti da stranieri o da afghani orientati a un pubblico straniero, si uniranno così al corpo letterario esistente prodotto dall’intervento internazionale in Afghanistan. La raccolta di resoconti dei media, file di intelligence, documenti di ricerca e romanzi è ora destinata a diventare la base per la comprensione, l’analisi e la nuova narrazione dell’Afghanistan in futuro.
Ciò che è potenzialmente problematico a proposito è che tra queste “nuove fonti” sull’Afghanistan ci saranno ancora meno possibilità di trovare rappresentazioni che non si concentrino sul paese e sulle persone come in un costante stato di crisi, o anche solo di trovare accenni di una contestualizzata normalità. Sarà difficile conservare l’immagine di un Afghanistan che, se non necessariamente pacifico o sviluppato, sia almeno un luogo in cui il conflitto, l’isolamento, l’autocrazia o la corruzione non siano diventati la condizione costante e unica immaginabile. Potrebbe diventare difficile persino descrivere e comprendere l’Afghanistan come un paese in cui la vita continua nonostante la crisi decennale e dove i cambiamenti possono avvenire come altrove nel mondo.
La costante sovraesposizione a luoghi comuni drammatizzati minaccia anche di aumentare la tolleranza dell’opinione internazionale secondo cui la crisi è normale in Afghanistan e la gente vi è abituata; “resiliente” sarebbe l’ultima parola d’ordine usata per ignorare la sofferenza delle persone. Questi luoghi comuni rischiano di rafforzare l’idea che, sulla base di esperienze precedenti e di un insieme di valori estranei, gli afghani non desiderano o non meritano lo stesso accesso a mezzi di sussistenza dignitosi e diritti umani del resto dell’umanità. E anche se i mali dell’Afghanistan potrebbero non discendere direttamente da come viene rappresentato nella letteratura mondiale, le storie che sono state raccontate hanno certamente avuto un ruolo, e continueranno a farlo, nel modo in cui il mondo può condonare, reagire o dimenticare ciò che sta succedendo lì.
Evidentemente, quindi, approccio di comprensione alle dinamiche della regione afghana e delle sue genti un po’ più onesto non può prescindere da uno sforzo di conoscenza appropriato – storico & culturale – che non si limiti a raccontare, a volte in modo sensazionalistico e qualunquista, di generici luoghi comuni, ma lontani dalla realtà afghana.
Di Gianfranco Bosco
Laurea in Storia e civiltà dell’Islam con focalizzazione specifica sull’area iranico afghana.
Molteplici viaggi in Afghanistan, con lunghe permanenze di studio e conoscenza.
Relatore in numerose conferenze sulla cultura islamica e sulla contemporaneità geopolitica dei paesi Medio orientali e dell’area iranico afghana.
Di Gianfranco Bosco per ComeDonChisciotte.org