La sospensione dell’incredulità nella grande truffa della pandemia

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L’intervista a Francesco Benozzo pubblicata da Libri e Parole lo scorso 30 marzo ha avuto una diffusione e una serie di reazioni che non erano certamente prevedibili. Salvatore Ridolfi torna a intervistare Benozzo quasi un mese dopo, per capire se le sue idee siano nel frattempo cambiate.

Chi è Francesco Benozzo

Francesco Benozzo è un filologo dell’Università di Bologna , ed è anche un musicista e un poeta di fama internazionale, candidato dal 2015 al Premio Nobel per la Letteratura.

È autore di diverse centinaia di pubblicazioni, dirige tre riviste scientifiche internazionali, coordina il Dottorato di ricerca in Studi letterari e culturali all’Università di Bologna, è membro del comitato scientifico di prestigiosi gruppi di ricerca internazionali (tra i quali  il “Centro Studi di Medical Humanities” (CMH),  il workgroup “We Tell / Storytelling e impegno civico in epoca post-digitale”, “FIMIM – Filologia e Medievistica Indo-Mediterranea”, il “Paleolithic Continuity Paradigm for the Origins of Indo-European Languages”).

Sospensione dell’incredulità e pandemia: il pensiero di Francesco Benozzo

La sua precedente intervista pubblicata su «Libri e Parole» ha avuto un seguito che è andato al di là delle intenzioni e del piccolo contesto in cui l’intervista era nata: è stata ripresa da circa 400 siti italiani e internazionali; è apparsa il 23 aprile, per le cure di Orsola Casagrande, sul quotidiano curdo di opposizione al regime turco «Yeni Yaşam» e – in lingua inglese e spagnola – sull’importante agenzia di stampa mediorientale «ANF News». Un centinaio di siti inglesi, americani e spagnoli ha ripreso e diffuso l’intervista sui social. Se lo aspettava?
Ovviamente no. Parte della “colpa” è di Paolo Barnard, uno dei pochi giornalisti che non ci sarebbe bisogno di definire “giornalista”, perché l’etichetta in questo caso fa torto all’intelligenza della persona. Gliela avevo spedita, pur non conoscendolo, perché avevo visto un suo video davvero illuminante contro gli scienziati che trottano nei tribunali per denunciare chi non la pensa come loro; e lui, pur non condividendo diverse mie conclusioni, l’ha twittata e le ha consegnato un destino che ai miei occhi probabilmente non meritava.

Ci sono state diverse reazioni, di tipo anche opposto. Cosa ci può dire?
Nel mio ambiente di lavoro ho avuto diverse censure e qualche ingiuria, nonché una perentoria e autorevole recriminazione per il fatto che i pensieri di cui mi facevo portavoce erano in qualche modo associati al prestigioso nome della mia università: episodi che indicano una triste verità sull’ipocrisia della vita accademica, che da un lato organizza cortei nelle piazze a favore della libertà d’opinione e dall’altro censura la libertà d’opinione dei propri professori o condanna il loro punto di vista.

Al di là di questo, frequento poco i social. Meglio dire che non li frequento affatto. Ma il curatore della mia pagina Facebook, che ora vive in Perù, mi ha mandato un campione delle diverse reazioni. E un campione significativo l’ho avuto anche io, avendo ricevuto più di 500 mail dopo il 30 marzo. Un buon 30% sono mail di offese, insulti e minacce. Sono a mio parere comprensibili, perché la tensione è alle stelle, e ci sono purtroppo dei morti di mezzo, dei morti tra i propri cari, oltretutto senza abbracci e senza alcuna possibilità di esequie. Ho naturalmente risposto a chi mi ha scritto, per provare a far capire meglio che cosa intendevo dire nell’intervista. Ma con scarso successo. C’è poi una maggioranza che è costituita da mail di ringraziamento, per aver dato voce a un sentimento che molte persone provavano e in cui si sono, stando a quanto mi hanno scritto, riconosciute. Mi ha fatto piacere poi ricevere mail positive di autorevoli medici, dirigenti di ospedali, professori di medicina, oltre che di alcune autorità universitarie di altre discipline, che non conosco di persona ma che hanno colto nelle mie parole spunti degni di approfondimenti. Infine ho ricevuto proposte per interviste televisive e radiofoniche, ma sentivo di non avere niente di nuovo o diverso da dire rispetto a quanto avevo detto rispondendo alle sue domande, e ho preferito declinare gli inviti. Non mi sento per niente autorevole su questi argomenti. Sono semplicemente una persona disgustata dalla serialità umana.

E adesso ha invece qualcosa di nuovo da dire?
Forse sì. O meglio qualcosa da ribadire con ancora maggiore convinzione.

Mi lasci partire da due dei punti che hanno maggiormente fatto scalpore nelle sue parole: lei ha parlato di «strage di stato» e di «finta pandemia». La pensa ancora così?
La penso così ancora più di prima. Credo che a quasi tutti sia molto chiaro che le misure messe in atto per arginare la dichiarata epidemia non servono quasi a niente da un punto di vista medico, e che in ogni caso quello non è lo scopo per cui sono messe in atto. Le mascherine imposte nella “fase due”, per esempio, fanno ridere i polli. Lo scopo di questi provvedimenti snervanti e per lo più demenziali, la cui attuazione è controllata dalle forze armate e di polizia, è quello di abituarci ad accettare delle regole rigide e disumane in nome di qualcosa che in realtà non ha niente a che vedere con la salute, o che, se volessimo essere anche più precisi, ha a che vedere con conseguenze che alla fine hanno minato, minano e mineranno la salute stessa. Quanto alla “strage di stato”, ho usato quella frase citando un fatto su cui nessuno, nemmeno il Presidente della Repubblica, potrebbe obiettarmi niente: e cioè che con le spese militari che anche in questo periodo si spendono in un solo giorno (ripeto: con le spese che si spendono in ventiquattro ore) si sarebbero potuti invece costruire sei nuovi ospedali, evitando forse le stragi di medici e civili che hanno colpito in particolare le trincee degli ospedali lombardi. Io qui non sto parlando dei tagli alla sanità degli scorsi anni. Parlo di una situazione che è in atto adesso, anche adesso mentre le rispondo. Parlo del qui e ora.

Lei dice che questo è molto chiaro a tutti. Ma se è molto chiaro, perché ci si lascia convincere del contrario?
Io credo che avvenga ciò che avviene quando leggiamo un libro o guardiamo un film. Per quanto inverosimili la trama i personaggi e le situazioni ci possano apparire, noi mettiamo in atto quella che un grande poeta come Samuel Taylor Coleridge ha chiamato una volta la «sospensione dell’incredulità» (suspension of disbelief). Perché un’opera di teatro si possa fruire e funzioni, perché un film si possa guardare e funzioni, perché un romanzo si possa leggere e funzioni, perché qualcosa di inverosimile e che noi sappiamo benissimo non essere reale funzioni, dobbiamo sospendere la nostra incredulità rispetto a ciò che in cuor nostro sappiamo non essere possibile e non essere vero. Anche Tolkien – che era un filologo medievista oltre che un grande scrittore – spiegò, con qualche differenza, questa caratteristica di ogni spettatore e lettore, cercando di fare capire come mai mentre leggiamo, e ancor più mentre ascoltiamo, una fiaba noi crediamo che il drago della fiaba esista davvero. Se non attuassimo questa rinuncia allo spirito critico, dopo la prima scena del film usciremmo dalla sala o resteremmo distratti, e così dopo le prime pagine di un romanzo fantasy. Sappiamo che quell’orco non può esistere, ma dobbiamo crederci se vogliamo essere parte della narrazione in atto, e dunque finiamo per crederci. Sappiamo che quella strega che mangia i bambini non esiste, ma dobbiamo crederci se vogliamo essere parte della narrazione in atto, e dunque finiamo per crederci. E io penso che ormai abbiamo capito che è attualmente messa in scena una truffa colossale e che essa, attraverso i suoi burattinai, dà luogo di continuo a misure inverosimili, risibili e umilianti, ma penso che finiamo per crederci e per credere a quelle misure perché non abbiamo risorse individuali che siano in grado di opporsi al nostro istinto di essere parte della grande narrazione che ci riguarda. Questa narrazione è quella nella quale noi siamo i cittadini, i bravi cittadini, i cittadini responsabili, i cittadini che amano e proteggono i propri cari, i cittadini che danno il buon esempio e che ripetono come pappagalli ogni irragionevole fandonia contenuta nei decreti e diffusa dalle televisioni e dalle pubblicità. Ed è per questo che alla fine ci crediamo. Perché ci fa incredibilmente e paradossalmente comodo crederci. E perché se non fosse così, se non sospendessimo l’incredulità, scopriremmo di non avere quasi più alcun valore in cui credere tra quei valori a cui ci hanno abituato a dare importanza fin da quando siamo stati indottrinati sui banchi di scuola. La sospensione dell’incredulità è in fondo una strategia inconscia per sentirsi parte di un branco, che è una propensione manifestata da Homo sapiens fin dalla sua comparsa, e che – unita alla paura della morte – è tra l’altro alla base di ogni credenza religiosa.

Qualcuno potrebbe obiettarle che pensandola così lei attribuisce troppa intelligenza o troppi incredibili poteri ai nostri vertici o ai virologi anti-dialogici contro i quali si è schierato.
No, per niente. Io credo al contrario che anch’essi abbiano dovuto in parte sospendere la propria incredulità, quella per intenderci che hanno continuato razionalmente a manifestare fino agli ultimi giorni di febbraio. Ma a tutti i livelli fa paradossalmente comodo sospendere l’incredulità per diventare parte della grande narrazione imposta. Per quanto appaia strano o difficile da comprendere, è proprio quando si arriva ai vertici del potere – parlo dei sistemi con una struttura apparentemente ancora democratica – che è necessario smettere di pensare con la propria testa. Gli stati funzionano precisamente in questo modo, con o senza pandemie e finte pandemie. È infatti solo grazie alla narrazione imposta, in questo caso la narrazione della pandemia dichiarata, che può essere messo in scena ad esempio il burlesco teatro dei rapporti interstatali, delle proteste tra stato e stato per i fondi destinati alla “ripartenza”, della commovente solidarietà tra alcuni di questi stati (milioni di italiani sono stati profondamente toccati dalla caritatevole e strappalacrime generosità della Germania, che ha accolto una quarantina di nostri pazienti nei suoi ospedali), delle telefonate tra i capi dei vari governi (quasi tutte con telefoni vintage, con la cornetta bianca e il filo arricciato). È solo se si finisce per sospendere l’incredulità, infine, che si potrà da un lato promuovere e dall’altro confidare nell’elemento prodigioso e soprannaturale che risolverà in un miracoloso finale le complesse vicende della nostra discesa agli inferi: nei testi mitologici-fiabeschi si chiama “oggetto magico” qui si chiama “vaccino”. Ma è necessario sottolineare con chiarezza un punto: la sospensione dell’incredulità non è affatto una menzogna che si racconta a se stessi: è al contrario un meccanismo cognitivo in virtù del quale, mentre la narrazione si svolge, noi crediamo veramente a ciò cha sta accadendo, e magari lottiamo per difendere questa verità. Nella sospensione dell’incredulità noi perdiamo noi stessi e ci abbandoniamo al narratore.

Lei parla in particolare dell’Italia. Ma come si fa a mettere in atto una simile finzione, una finta pandemia, su scala planetaria?
Questo è il più banale dei dubbi da risolvere, mi creda: la finzione su scala globale è in atto ogni giorno e non certo da ieri: non nasce certo con questa pandemia dichiarata. Questa pandemia, semmai, rende visibile ciò di cui abitualmente non ci accorgiamo, perché altre volte sembra non toccare le nostre libertà quotidiane, o non mira a toccare quelle direttamente. Lei è un dottorando in antropologia: penso che le basti aprire un qualche classico della disciplina che studia, ad esempio Tristi tropici di Claude Lévi-Strauss – o scelga lei il suo preferito – e sarà lei a spiegarlo a me come si fa a mettere in atto una finzione su scala planetaria.

L’intervista al professor Francesco Benozzo è a cura di Salvatore Ridolfi.

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