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DI PASCAL ZACHARY
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Ecco perché non è solo una fantasia della destra

Tutto questo parlare di secessione evidenzia un aspetto esistenziale nascosto, ma non inesistente, dello stato nazione americano: che l’unione è una scelta quanto la separazione.

Con cadenza regolare molti cittadini si ritrovano a pensare con favore a uno smembramento degli Stati Uniti – patrioti di ogni colore politico che “nel corso degli eventi umani” sono arrivati a ritenere che sia sorta “la necessità che un popolo sciolga i legami politici che lo hanno stretto [a un altro popolo]” [1].

Il nostro è uno di questi periodi, e nonostante le istanze politiche e il momento storico abbiano una loro unicità, uno sguardo a passati episodi di zelo secessionista potrebbe illuminare il presente. Il profluvio di fervore secessionista seguito alle ultime elezioni è solo una fantasticheria passeggera, oppure è l’indicazione di un più profondo, perfino rivoluzionario, cambiamento del contesto politico americano?
Il fattore scatenante più immediato è stato la vittoria di Barack Obama, che ha portato sulla scena un nuovo corpo elettorale – donne, persone di colore e giovani – che hanno votato per i Democratici in percentuale tale che, date le tendenze demografiche prevalenti, per il prevedibile futuro è il Partito Democratico a essere in grande vantaggio.

Dopo le elezioni gli attivisti di destra invocarono immediatamente la secessione del Texas dall’unione. Questo richiamava una dichiarazione da parte di alcuni progressisti del Vermont, enunciata per la prima volta nel 2003, in cui si esploravano le possibilità di separarsi da una paese che si riteneva troppo reazionario.

Una petizione del 9 novembre, che chiedeva all’amministrazione Obama di “di acconsentire pacificamente allo stato del Texas di ritirarsi dagli Stati Uniti d’America” ha raccolto 120.000 firme, divenendo di gran lunga la petizione più popolare sul sito della Casa Bianca [2]. Ulteriori petizioni per la secessione sono arrivate dagli altri 49 stati, con quelle della Louisiana , della Florida e della Georgia che hanno raccolto più di 30.000 firme ciascuna.

Una cosa è certa: un intero blocco di stati meridionali che un tempo erano essenziali per qualsiasi maggioranza Democratica – da Wilson fino a Clinton, dall’inizio della I Guerra Mondiale fino alla sconfitta di Al Gore nel 2000 – ormai non è più della partita. Texas, Mississippi, North Carolina: i Democratici ormai possono anche perdere tutti questi stati nella corsa alla presidenza e vincere facile lo stesso. Obama l’ha appena fatto. La “Southern Strategy” [3] è ormai storia vecchia.

L’arruffianamento nei confronti del Profondo Sud da parte di entrambi i partiti, per molti stati si è dimostrato enormemente vantaggioso, ad esempio per l’Alabama, che ha iniziato a distaccarsi dai Democratici negli anni 70 e oggi se ne è completamente allontanato. L’Alabama riceve 2 dollari di finanziamento federale per ogni dollaro dato in tasse; questo stupefacente squilibrio è il prodotto di un Collegio Elettorale [4] disfunzionale, che incoraggia i leader di entrambi i partiti a corteggiare gli stati del sud.

Con un Sud ormai politicamente escluso dal processo decisionale delle elezioni presidenziali, il richiamo alla secessione è la prima prova di un inedito panico nella Destra. Avendo di fronte la prospettiva di una Corte Suprema più liberal e una ratio politica che renderà sempre minori gli incentivi a distribuire contributi federali agli stati meridionali, gli estremisti locali hanno dissepolto una strategia del XIX Secolo. Mettendo sul tavolo l’unica carta politica rimastagli, minacciano di abbandonare la nazione.

Il clamore è maggiore in Texas principalmente per le sue dimensioni, l’influenza nazionale e l’orgoglio campanilistico. Diciamolo pure, i secessionisti texani sono picchiatelli. La loro organizzazione più rumorosa, il Texas Nationalist Movement , afferma seriamente che “questo è il fatto essenziale, che non può esistere l’unione con quelli che ritengono i principi di Karl Marx superiori a quelli di Thomas Jefferson. Qui in Texas, noi rispettiamo quei principi di Thomas Jefferson – che tutto il potere politico è nel popolo.” [5]

Il prudente liberalismo di Obama – la sua accettazione dell’economista Repubblicano Ben Bernanke come capo della Fed e gestore della politica economica del governo, escludendo economisti Democratici di chiara fama come Paul Krugman e Jared Bernstein – rende il concetto di un presidente agente del marxismo ridicolmente caricaturale. Eppure, quando i secessionisti passano dall’ideologia generale a rimostranze più specifiche, i loro argomenti a favore della separazione cadono con precisione nella casella degli “state’s rights” [6] – argomenti che trovano da lungo tempo buon ascolto nelle corti federali e in una parte oscillante della pubblica opinione.

“Abbiamo un governo federale che tratta stati come il Texas come
fossero il suo salvadanaio, che non ha la minima considerazione per la sovranità degli stati e ci tratta davvero come suddivisioni amministrative soggette ai capricci del governo federale,” ha detto a F FoxNews Daniel Miller, un carneade diventato portavoce del Texas Nationalist Movement.

Esiste una prospettiva storica che vede il Texas come una sorta di inland empire [7] dalla specifica identità e percorso politico. I texani dissenzienti sono ovviamente del tutto consapevoli che il Texas fu, per quasi dieci anni, una repubblica indipendente prima di unirsi agli USA nel 1846 [8]. Eppure, Miller e la sua accozzaglia di picchiatelli di estrema destra non invocano l’immediato ritiro dall’unione, o addirittura la secessione sic et simpliciter. Piuttosto, quello che chiedono è che i legislatori texani si impegnino in una variante di politica spettacolo [political theater] [9]. “L’ideale per noi sarebbe che i parlamentari [dello stato] ponessero la questione nella forma di un referendum non vincolante,” ha detto Miller a Sean Hannity della Fox, “in modo che il popolo del Texas possa esprimere la propria volontà sull’argomento.”
Si sa com’è la politica spettacolo, e l’élite politica texana prende i secessionisti molto alla larga.

Dopotutto lo stato ha 26 milioni di abitanti, per cui anche 120.000 firme a favore di qualsiasi cosa possono essere accantonate come “rumore” statistico.

“Non si tratta di un vero movimento secessionista,” ha detto a Voice of America Mark Jones, professore di scienze politiche alla Rice University di Houston. “Dietro questo movimento non c’è nessuno sponsor politico di peso.”

In effetti l’élite politica Repubblicana del Texas, dal Governatore Rick Perry in giù, ha evitato coinvolgimenti col movimento. Ma in un’America dominata da quelli che lo storico Daniel Boorstin una volta etichettò come “pseudo-eventi” – un’America dove le satiriche “finte notizie” di Jon Stewart possono essere più veritiere delle vere notizie di un [famoso anchorman come] Scott Pelley – un “finto movimento secessionista” può assumere l’apparenza della realtà, anzi, forse l’ha già fatto.

Un mondo di possibilità

Per valutare quanto sia plausibile l’opzione secessione, diamo uno sguardo all’estero. Negli Stati Uniti i discorsi sul dissolvimento politico dell’unione vengono associati allo squilibrio mentale. Ma in molte altre parti del mondo non è così. Gli scozzesi, che al pari dei texani possono rievocare un passato di indipendenza politica, potrebbero benissimo scegliere di separarsi dalla Gran Bretagna in una votazione prevista per il 2014. In Catalogna, la regione di Barcellona, la più prospera della Spagna, i catalani discutono esplicitamente se si debba realizzare un distacco dello stesso genere. I galiziani, per quel che riguarda la loro regione nel nord-ovest della Spagna, nutrono aspirazioni simili.
L’esistenza dell’Unione Europea, che assicura una rete di servizi istituzionali alle piccole nazioni, aumenta l’attrattiva del separatismo regionale. Nel 2010 il Parlamento Europeo chiese ai propri stati membri di riconoscere la sovranità del piccolo Kosovo, fino ad allora provincia meridionale della Serbia – e 22 nazioni hanno approvato. Il movimento per l’indipendenza politica ha molte madri, e una di esse, paradossalmente, è la globalizzazione, perché la “sovranità condivisa” – specialmente nel campo della difesa, del commercio e della politica monetaria – porta benefici tangibili.

Negli ultimi vent’anni i popoli della terra hanno conosciuto un’ondata di scissioni geo-politiche senza precedenti, portando alla creazione di unità politiche di minore estensione in possesso di qualcosa di simile alla piena sovranità. Il collasso dell’Unione Sovietica ha portato alla creazione di 15 nazioni, e quando i sovietici hanno allentato la loro presa sull’Europa dell’Est, i secessionisti hanno fatto festa. La Iugoslavia, da sola, ha dato vita a sei nazioni diverse. Pochi di questi nuovi stati hanno scelto di unirsi di nuovo. La scelta della Germania Est di fondersi col suo fratello maggiore occidentale è solo l’eccezione che conferma la regola.

I vari governi statunitensi hanno salutato con favore le secessioni all’estero, trovando facili giustificazioni nella filosofia di Thomas Jefferson, che considerava l’autodeterminazione con un fervore di solito riservato alla fede religiosa. Il famoso detto di Jefferson, “ogni generazione ha bisogno di una nuova rivoluzione”, fornisce un comodo appiglio per qualsiasi secessionista in cerca di giustificazioni.
Nella loro politica estera gli Stati Uniti di solito cercano di appoggiare l’esistenza di confini politici già esistenti, ma abbastanza spesso sostengono nuovi assetti politici, da una maggiore autonomia regionale a un’esplicita secessione. Nel caso del Sudan, sia l’amministrazione Bush sia quella di Obama spinsero per una separazione del Nord dal Sud. Nonostante la nascita del Sudan del Sud si sia rivelata una delusione, soprattutto a causa della crescente corruzione all’interno del nuovo governo, la scissione è stata ottenuta senza enormi spargimenti di sangue.

Ogni nazione così concepita… [10]

Quello dei due pesi e due misure è il fondamento della politica statunitense, per cui l’apertura di presidenti presenti e passati nei confronti dei movimenti secessionisti internazionali non va fraintesa. Lincoln ha costruito la sua reputazione storica sostenendo l’unione americana ad ogni costo, e il costo risultò essere la Guerra Civile. Considerando l’eredità politica di Lincoln, nessun presidente americano sarà disposto a sciogliere con facilità qualunque parte degli Stati Uniti dai suoi vincoli federali. Gli impegni in questione includono ovviamente anche una fetta del debito pubblico, nonché delle risorse del paese. Il governo federale possiede, o controlla, una notevole estensione territoriale, specialmente a Ovest, e sostiene anche un debito di 50.000 dollari per ogni cittadino in circolazione. La suddivisione delle risorse – e dei debiti – sarebbe uno dei problemi maggiori da affrontare in vista di una separazione politica.

Naturalmente, talvolta un negoziato può fallire. La Storia è piena di terribili guerre civili in un contesto secessionista. Aspramente contestate e talvolta cariche di tragedia, le secessioni violente gettano una luce oscura sull’intera categoria. Come scrive Chinua Achebe nel suo nuovo libro di memorie, There Was a Country, la fallimentare secessione (dalla Nigeria) degli Igbo del Biafra portò a una guerra spietata, durata dal 1967 al 1970, che fu colma di “conflitto e sofferenza” e che produsse innumerevoli vittime, in parte per inedia.

E tuttavia, il sogno secessionista continua a vivere, per una semplice concatenazione logica. Se le comunità politiche sono “comunità immaginate”, per citare il titolo di un trattato del teorico politico Benedict Anderson, ne consegue che, seguendo lo spirito di Jefferson, le comunità politiche possono essere re-immaginate, ri-concepite e ri-generate. La logica dell’autodeterminazione non si fa contenere tanto facilmente dagli appelli all’orgoglio nazionalista o all’inevitabilità degli eventi storici. La libera associazione è uno stimolo potente per raggiungere una dimensione politicamente rilevante. Ma il medesimo stimolo può portare alla decostruzione del corpo politico. E pluribus unum può capovolgersi in ex uno plures.

Crepe americane

Negli Stati Uniti, come altrove, le difficoltà poste dal concetto di secessione non stanno nelle procedure materiali: per gestire la separazione di entità geografiche minori da una nazione più grande può bastare un bravo contabile. Staccare il Texas o la California o il Vermont o la regione dei Grandi Laghi, per dire, dal resto degli Stati Uniti (e ognuna di queste proposte è stata davvero avanzata), non richiederebbe chissà quale abilità matematica. L’obbligo a prendersi carico del debito federale, e forse un risarcimento a favore del governo nazionale a fronte della perdita di territorio e risorse del Texas o della California, tutto questo si può calcolare e mettere nero su bianco.
Il problema è che la sensibilità americana è talmente suscettibile, e la nostra società talmente eterogenea, che la fuoriuscita indolore di uno o più stati dall’unione è lo scenario meno probabile, e di molto, dell’intera ipotesi secessionista. Arrestare il processo separatista a livello del singolo stato si potrebbe rivelare impossibile, come già indicano alcuni indizi. In Texas, accanto alle speculazioni sulla separazione dagli Stati Uniti, si sta sviluppando ad Austin, la capitale dello stato, un movimento per la secessione dallo stesso Texas. In modo simile, nella Contea di Pima (Arizona) sta prendendo corpo un movimento per separarsi dall’Arizona e restare, in tal modo, nell’unione.

I singoli stati, se dovessero secedere circa nello stesso periodo, potrebbero a loro volta formare una loro unione imperfetta, o chiedere di unirsi ad altri paesi. La Gran Bretagna potrebbe desiderare di consolarsi della perdita della Scozia, tanto per dire, invitando il Texas a far parte del suo stato nazione.

Non c’è limite a un tale ventaglio di possibilità, perché, in realtà, le crepe e le forze centrifughe presenti nella vita degli americani sono pressoché infinite. Allo stesso modo in cui negli anni 30 il Partito Comunista propose la creazione di uno stato indipendente per gli Afroamericani [11], non potrebbero gay e lesbiche mirare allo stesso obiettivo? Perché i ciclisti che volessero combattere il riscaldamento globale rinunciando all’auto non dovrebbero ottenere il loro territorio? E naturalmente il sorgere di corpi politici a carattere religioso sarebbe inarrestabile. I Battisti potrebbero avere un loro stato. E i Cattolici. E i Mormoni – no, un momento, ce l’hanno già. E via dicendo.

Compagni secessionisti, avanti! [12]

La Destra non ha il monopolio dello spirito secessionista. L’entusiasmo per campagne donchisciottesche per l’indipendenza di stati o regioni ha da lungo tempo caratterizzato i progressisti, un entusiasmo animato da una schietta prospettiva del tipo “piccolo è bello”. Allo stesso modo in cui la città può divenire bastione di riforme e perfino strumento di liberazione, una città-stato più piccola e compatta, semplicemente in virtù delle sue dimensioni, può permettere l’adozione di forme di democrazia diretta e deliberazione partecipata che solitamente sono assenti nelle grandi nazioni. Questo genere di impulsi secessionisti spesso intriga i progressisti nei periodi di grande difficoltà, come gli anni 80 di Reagan e gli anni oscuri di George W. Bush. Quando acquisire potere a livello nazionale sembra una vana speranza, è comprensibile che ci si entusiasmi all’idea di nuove strutture politiche che permetterebbero alla Sinistra di organizzare esperimenti [politici] senza l’ostacolo degl interessi conservatori.

In ogni modo, la contingenza non basta a spiegare l’apertura della Sinistra alle idee secessioniste e all’impulso rivoluzionario. Ci sono sempre stati progressisti che hanno visto nelle stesse dimensioni degli Stati Uniti l’origine del suo terribile e distruttivo potere militare. Attraverso un letterale ridimensionamento del “Pentagono del potere”, per parafrasare il critico culturale Lewis Mumford, la capacità da parte degli USA di arrecare danno al mondo verrebbe ridotta. Per gli oppositori alla totale militarizzazione della vita degli statunitensi – dal Presidente e sicario-capo ai programmi sociali solo per veterani – la più grande vittoria per la pace sarebbe lo smantellamento della struttura politica degli Stati Uniti.

La fantasia della separazione nutre certamente la possibilità di uno stato nazione progressista, socialdemocratico e portatore di pace – un traguardo politico a lungo perseguito dalla Sinistra. Nel visionario romanzo di Ernest Callenbach del 1975, Ecotopia, questo tipo di invocata realtà alternativa viene dispiegato in tutta la sua gloria. In una prosa maldestra, Callenbach crea un mondo fantastico che ha come nucleo l’indipendenza politica del Nord-Ovest – un’area che attualmente copre le zone costiere di tre stati, California, Oregon e Washington. Il paese di Ecotopia ricorda l’Olanda per il suo rispetto per la libertà sociale, la Svizzera per l’assenza di coinvolgimenti in politica estera, e la Germania per l’adozione di uno stile di vita Protestante ed eco-consapevole.

Nel romanzo, un giornalista proveniente da ciò che resta degli Stati Uniti visita Ecotopia vent’anni dopo la secessione “non tanto per criticarla, quanto per comprenderla”. Il narratore, “un reporter di questioni internazionali” di nome William Weston, arriva alla conclusione, dopo un tour giornalistico di sei settimane, che “il rischioso esperimento sociale che è stato condotto qui ha funzionato a livello biologico”.

Weston prosegue: “L’aria e l’acqua di Ecotopia sono ovunque limpide come cristallo. […] Il cibo è abbondante, sano e diversificato. Tutte le infrastrutture vitali operano a un livello di auto-sostentamento, e possono così andare avanti all’infinito. La buona salute e il generale benessere della popolazione sono innegabili”.

Ma il narratore, che dopotutto è un cittadino degli Stati Uniti, ammette che la realizzazione del sogno verde ha comportato un costo enorme per quel che riguarda il livello materiale di esistenza. “I consumi [sono] nettamente inferiori ai nostri [negli Stati Uniti], a un livello che non sarebbe mai tollerato dagli americani in generale,” scrive. E tuttavia la stessa sopravvivenza di Ecotopia da’ credibilità a chi afferma che “l’era dei grandi stati-nazione” sia al tramonto, e che “il separatismo è desiderabile sia sul piano ecologico sia su quello culturale”.

Enfatizzando il ruolo di cultura e identità nella formazione di intese politiche volte a promuovere la sostenibilità ambientale, Callenbach prefigura il movimento del Nord Ovest che forma lo stato nazione “biodiverso” di Cascadia, in modo del tutto simile a quello proto-secessionista del Vermont. Questo stato, l’unico che porti regolarmente istanze radicali nel Congresso, continua ad avere aspirazioni politiche impossibili anche secondo la più liberale delle interpretazioni degli “state’s right”.

Nella Burlington Declaration del 2006 i fautori della Seconda Repubblica del Vermont insistevano sul diritto a una secessione pacifica e sulla centralità della “democrazia diretta” nelle decisioni politiche. Richiamandosi a Jefferson e citando il principio di autodeterminazione, i firmatari affermavano che “il popolo ha diritto di mutarla o abolirla [la forma di governo] e di istituire un nuovo governo fondato su tali principi e di organizzarne i poteri nella forma che sembri al popolo meglio atta a procurare la sua Sicurezza e la sua Felicità”.
Alla Terza Conferenza Statale sull’Autodeterminazione del Vermont [Third Statewide Convention on Vermont Self-Determination], tenutasi il 14 settembre 2012 nella State House [sede del Parlamento] del Vermont a Montpelier, è stato presentato il Manifesto di Montpelier, a cui ha collaborato (tra molti altri) il pensatore neo-luddista Kirkpatrick Sale e la romanziera Carolyn Chute, autrice di The Beans of Egypt, Maine [13].

Il manifesto mostra sin dall’incipit la sua impostazione:

“Noi, cittadini di questa terra americana, tormentati dal nichilismo della separazione, dall’insignificanza, dall’impotenza, soggiogati [14] da élite politiche che utilizzano il potere statale, corporativo e militare per manipolare le nostre vite, pedine di un sistema globale di dominio e mistificazione nel quale mega-imprese transnazionali e un governo invasivo ci controllano tramite il denaro, i mercati e i media, logorando la nostra volontà politica, le libertà civili, la memoria collettiva, le culture tradizionali, la sostenibilità e l’indipendenza, rendendoci vittime della bulimia economica, della tecno-mania, della cyber-mania, del globalismo e dell’imperialismo…”

E si conclude con questo appello all’azione:

“Cittadini, aggiungete il vostro nome a questo manifesto e partecipate al nobile compito di respingere l’immorale, corrotto, decadente, agonizzante, fatiscente Impero Americano, per perseguire un suo rapido e pacifico dissolvimento, prima che ci trascini con esso nella sua caduta.”

I ribelli di destra e di sinistra non sono del tutto inconsapevoli che le loro passioni secessioniste hanno radici comuni, pur recando frutti diversi. Per le ali estreme dello spettro politico, la schiacciante inverosimiglianza di una secessione di chiunque da qualsiasi cosa, destra o sinistra, nord o sud, non rende il dibattito sulla secessione sciocco o irrilevante.

È per mezzo di simili speculazioni che gli americani, qualsiasi sia la loro tendenza politica, ricordano a se stessi che se si associano gli uni cogli altri è per volontà loro, e che quell’accordo, per quanto durevole, non è immutabile. In breve, i discorsi sulla secessione, per quanto strambi e fantasiosi, suscitano dubbi necessari sulle idee date fatalisticamente per scontate, ed evidenziano un aspetto esistenziale nascosto ma non assente nello stato-nazione americano: che l’unione è una scelta tanto quanto la separazione.

Questa intuizione, sia pure ridicola agli occhi dei realisti, è carica di importanti implicazioni per un tipo particolare di federalismo come quello americano. Avendo permesso una tale diversità di leggi e pratiche di governo tra i singoli stati – perfino al loro interno, date le differenze tra città e contee – il sistema federale americano non può che essere arricchito dal dibattito sui sogni di secessione.

Il “genio” di questo federalismo asimmetrico significa, nella sua realizzazione pratica, che non esiste una singola realtà americana, ma che gli americani, sia individualmente sia uniti in un corpo politico istituzionale, possono riesaminare e ideare nuove strutture politiche che rispondano a nuovi bisogni e desideri. In teoria ci sono sempre poteri superiori – la Corte Suprema, il Presidente, il Congresso – che possono surclassare le iniziative politiche sotto il livello federale. E poi ci sono terreni, come la guerra e la diplomazia, nei quali la pressione perché gli americani “parlino” con una sola voce è grande, se non schiacciante. Tuttavia questi campi sono l’eccezione, non la regola. Gli impulsi alla secessione non sono mai del tutto sopiti nella cultura politica statunitense, perché le tradizioni del federalismo asimmetrico – uno stato che può fare in un certo campo qualcosa del tutto diversa da un altro – sono talmente solide che gli americani danno per scontato un alto grado di diversità nelle loro leggi, politiche pubbliche e forme di amministrazione statale.

Che il Colorado possa legalizzare la marijuana, mentre l’Arizona può determinare una propria limitata politica per l’immigrazione, non distoglie nessuno dei due dallo spingere i limiti della loro sovranità ancora più oltre. Tollerando, addirittura incoraggiando i diversi stati a intraprendere approcci radicalmente diversi all’azione politica, gli Stati Uniti rendono il secessionismo meno dannoso per il pubblico dibattito. Tuttavia, la stessa permissività e promiscuità della pratica politica americana che rendono la secessione più facile da immaginare, potrebbero anche rendere tutt’altro che impossibile la sua realizzazione.

Nello stato-nazione unitario della Gran Bretagna, con le sue singole forze di polizia, norme fiscali eccetera, la fuoriuscita della Scozia implicherebbe una serie straordinaria di cambiamenti. Lo stesso non varrebbe per i cittadini del Texas o del Vermont che già esercitano, secondo i parametri degli stati nazione europei (se non del mondo intero), un controllo insolitamente ampio sui loro affari.

Di qui, il paradosso: l’esperienza dell’autodeterminazione spinge un corpo politico a desiderarne di più o di meno?

G. Pascal Zachary, membro del Comitato di Redazione di In These Times, è autore di Married to Africa: A Love Story e The Diversity Advantage: Multicultural Identity in the New World Economy. Dal 1989 al 2001 è stato redattore capo al Wall Street Journal. Zachary ha contribuito a In These Times per più di vent’anni, e cura il blog Africa Works, che tratta della politica economica nell’Africa sub-sahariana.

Fonte: www.alternet.org
Link: www.alternet.org/news-amp-politics/will-secede-why-its-not-just-right-wing-fantasy
19.12.2012

Note a cura del traduttore

[1] L’autore cita la Dichiarazione di Indipendenza degli Stati Uniti del 1776. La secessione, in questo caso, era nei confronti della Gran Bretagna.

[2] Queste petizioni, da presentarsi sul sito della Casa Bianca, non hanno, ovviamente alcun valore legale, ma costituiscono una forma di “comunicazione” tra pubblico e governanti. Occorre anche ricordare che il Texas ha più di 25 milioni di abitanti, dei quali più di 13 sono elettori registrati. Incidentalmente, la petizione di cui si parla nel testo contiene anche (almeno) un errore di ortografia.

[3] “La Southern Strategy, campagna tesa alla conquista dell’elettorato del Sud, del Partito Repubblicano, e di Nixon in particolare, mutuò gran parte del suo arsenale retorico, con toni più moderati, proprio dai personaggi più rappresentativi di questa regione nel dopoguerra: George Wallace e Strom Thurmond. Questa strategia faceva leva su due argomentazioni che trovavano molto ascolto fra la crescente middle-class bianca del Sud e della Sunbelt, ma che ben presto fecero breccia anche nel resto del paese: il diritto delle comunità locali ad autogovernarsi e l’immagine dei liberal come un’élite antipopolare.” [Le Radici e la presenza della Destra Americana]

[4] L’Electoral College è l’assemblea dei grandi elettori che scelgono il Presidente e il Vice Presidente: “Gli Stati Uniti non eleggono direttamente il presidente. Attraverso un sistema chiamato electoral college (collegio elettorale), infatti, ogni stato elegge con sistema prevalentemente maggioritario – chi ha un voto in più li prende tutti – un gruppo di cosiddetti “grandi elettori”, distribuiti in modo proporzionale alla sua popolazione (e per questo periodicamente aggiustato). In ogni stato, insomma, chi vince si prende tot grandi elettori e chi perde zero: con quel tot variabile di stato in stato. (ci sono due eccezioni, Maine e Nebraska, dove il maggioritario è applicato su grandi circoscrizioni interne)
I grandi elettori sono in tutto 538 – il collegio elettorale suddetto – distribuiti sui 50 stati: questo vuol dire che ne servono almeno 270 per arrivare alla Casa Bianca. Per come funziona il sistema maggioritario è possibile che un candidato possa ottenere la maggioranza dei voti totali ma la minoranza dei grandi elettori, e quindi perdere le elezioni. È successo due volte, la più recente e celebre è quella del 2000, quando Al Gore ottenne lo 0,4 per cento dei voti in più rispetto a George W. Bush, che però vinse tra i grandi elettori grazie a una contestata decisione della Corte Suprema sul voto in Florida.
Il collegio elettorale si riunisce a dicembre e vota per il presidente sulla base del risultato del voto dei singoli stati. I grandi elettori non sono legalmente vincolati a votare come da esito del voto e hanno solo un obbligo politico, che però è stato violato rarissimamente nella storia degli Stati Uniti e mai in modo determinante.”

[Il Post]

[5] Anacoluti nell’originale. “Il potere è nel popolo [inherent in the people]”: terminologia della Dichiarazione dei Diritti della Virginia del 1776. Cfr. il
testo presso il Dipartimento di Scienze Giuridiche dell’Università di Torino.

[6] Questi “diritti degli stati”, sanzionati dal
X Emendamento della Costituzione statunitense, riguardano ciò che non viene espressamente delegato al governo federale e non viene espressamente negato al governo locale (statale). Sorpresa, questo principio è stato
ripetutamente utilizzato dai singoli stati per limitare le libertà civili della popolazione. Insomma, come si permette il governo federale di
venirci a dire come dobbiamo trattare i nostri negri?!

[7] Inland Empire: è l’appellativo dato a una zona della California meridionale che comprende San Bernardino e la Contea di Riverside (per alcuni anche zone di Los Angeles e San Diego), che viene giudicata (forse eccessivamente) come popolata da bigotti, sottosviluppati, ignoranti e razzisti. [
Urban Dictionary]

[8] Ricordiamo al lettore italiano che il Texas faceva parte del Messico fino alla sua indipendenza del 1836 (l’arrivo di coloni anglo-americani fu permesso a partire dal 1821). Tra alti e bassi, il Messico aveva abolito la schiavitù nel 1829, e quindi il Texas costituisce un unicum nella storia dell’Occidente, il solo caso in tempi moderni in cui la schiavitù non sia stata abolita ma re-instaurata. Ovviamente, durante la Guerra Civile il Texas era nel novero degli stati schiavisti. Le vicende del Texas vanno viste nel contesto delle mire imperialiste USA su tutta l’America Latina (la dottrina Monroe). Cfr. Domenico Losurdo –
Negazionismo e Libertà di Ricerca ; Pierre Chaunu – L’America e le Americhe. Storia di un Continente – Dedalo Libri – Bari 1969
[Google Libri]

[9] Political Theater: qui non si parla di Brecht, ma della politica spettacolo che imbraccia argomenti e concetti sensazionalistici per ottenere visibilità, oscurando le tematiche concrete e davvero vitali per il pubblico. Tanto per fare un esempio, l’isterismo statunitense sul fiscal cliff.

[10] “Any nation, so conceived…” È un frammento del
discorso tenuto a Gettysburg, durante la Guerra Civile, da Abraham Lincoln il 19 novembre 1863. La frase che lo contiene recita: “Ottantasette anni or sono, i nostri avi diedero vita, su questo continente, ad una nuova nazione, concepita nella Libertà e consacrata al principio secondo cui tutti gli uomini sono creati uguali. Siamo ora impegnati in una grande guerra civile, la quale proverà se quella nazione, o ogni altra nazione così concepita e così votata, possa durare a lungo.”

[11] Tema
affascinantissimo, per i suoi collegamenti col pensiero utopistico e con la tradizione “secessionista” statunitense, nonché alla triste vicenda dei comunisti in USA. Per non parlare dei sinistri paralleli con le soluzioni “africane” concepite dai nazisti all’inizio del percorso che avrebbe condotto alla Shoah.

[12] L’originale (Arise ye secessionists of the earth!) parafrasa un verso dell’Internazionale (in una delle sue versioni in inglese )
, ma visto che in italiano, storicamente, si è affermata una traduzione molto distante dall’originale francese, ho dovuto ricorrere a un compromesso che ne rendesse il sapore “comunista”.

[13] A dire il vero, la scrittrice non appare tra gli estensori ufficiali del Manifesto. Il suo romanzo (che ha fatto paragonare l’autrice a Faulkner) descrive l’esistenza miserabilissima di una famiglia di bianchi poveri del Maine. Occorre meravigliarsi se Chute e il marito sono fanatici delle armi?

[14] Soggiogati: il testo riporta “subsumed”, che si riferisce al concetto marxiano di “sussunzione” (“La sussunzione concepita da Marx è infatti sussunzione del lavoro al capitale, e la distinzione in cui si articola tra sussunzione formale e sussunzione reale del lavoro al capitale, ricalcata sulla distinzione kantiana tra sussunzione del particolare all’universale nel giudizio riflettente e in quello determinante, serve a comprendere il ciclo storico già compiuto attraverso il quale il capitale è giunto ad assoggettare pienamente a sé il lavoro umano, riducendolo a mera forza produttrice di plusvalore.”), ma “sussunti” non mi sembrava un termine umanamente utilizzabile.

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