THE DREAM AND THE END – UNA RADIOGRAFIA HOLLYWOODIANA DELLA STORIA

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DI HS

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La fabbrica dei sogni e il “risveglio

Che l’American Dream of Life fosse un reperto di un passato piuttosto recente era chiaro fin dagli anni del conflitto in Vietnam (1961 – 1975) mai chiamato realmente “guerra” da chi provocò la terribile escalation. Quando fu finalmente visibile e ben impresso neglio occhi degli americani e del mondo che una superpotenza imperialista e arrogantemente sprezzante stava bombardando popolazioni e civili inermi piuttosto che combattere la solita supposta minaccia “comunista”, il sogno si spezzò o, meglio, cambiò repentinamente di segno.

Nonostante la già collaudata e mastodontica macchina bellica a stelle e strisce avesse dispiegato tutto l’enorme potenziale assassino e distruttivo – se si eccettuano le bombe nucleari – provocando un milione e mezzo di morti, un esercito di resistenti partigiani piuttosto male armato e peggio equipaggiato era riuscito ad avere la meglio infliggendo una sconfitta di proporzioni non indifferenti al potente nemico. Sotto lo sguardo di attoniti spettatori erano apparsi i corpi nudi, disfatti e dolenti di donne e bambini che fuggivano dai bombardamenti incessanti dell’aviazione americana. Quella non era più l’America assurta al rango di baluardo del “mondo libero”, dei liberatori dell’Europa dal giogo nazifascista e dei fieri oppositori e avversari del colosso totalitario sovietico. Gli USA precipitavano più in basso, al rango di potenza imperialista e dominata da pulsioni fascisteggianti. Il cambiamento veniva registrato e assimilato proprio da Hollywood, la sede dell’industria culturale e dello spettacolo più redditizia e importante del paese, fabbrica dei sogni di intere generazioni occidentali e non che hanno vissuto nel secolo scorso. Fino a qualche tempo prima Hollywood alimentava una mitologia ricca di enfasi e retorica sulle grandi virtù degli States e degli americani o, quantomeno, gran parte di quella filomografia rifletteva un immaginario che si imponeva al di sopra e al di là della Storia. Tale campionario era offerto soprattutto dal genere western – come mito fondante e fondativo di una nazione costata anche e soprattutto molte lacrime e molto sangue – e da quello bellico che metteva in scena sempre in maniera estremamente manicheista – con qualche significativa eccezione – il confronto armato fra le truppe alleate e l’esercito tedesco durante la Seconda Guerra Mondiale. Per tacere poi del genere storico che, per larga parte, era dedicato al periodo della Roma imperiale evidentemente assurto a modello per le future ed “eroiche” imprese.

In fondo in fondo, da destra a sinistra, eravamo tutti americani, noi piccola gente anche povera e affamata di un Belpaese che usciva in ginocchio da un conflitto rovinoso. Per noi era l’America, terra di libertà e di grandi opportunità, del divertimento sfrenato, della musica jazz e del ballo scatenato e frenetico. Se nel mondo la libertà veniva minacciata – agli occhi dei comuni mortali – eravamo sicuri che, in qualche modo, i “nostri” sarebbero arrivati e avrebbero sistemato le cose con coscienza e con giustizia finchè… Finchè gli squilli di tromba del Settimo Cavalleria si sono trasformate in qualcosa di diverso, in un incubo ad occhi aperti, nello spettacolo della carneficina spettacolare condotta al ritmo della wagneriana “Cavalcata delle Valchirie” rappresentata nell’indimenticato capolavoro di Coppola ispirato al “Cuore di tenebra” conradiano, “Apocalypse now”. John Wayne non accorrerà in soccorso degli indifesi e dei più deboli perchè, da un giorno all’altro, l’attore è diventato l’emblema di un’America retriva e testardamente patriottarda. Il tentativo della star – capofila e iniziatore di una stirpe di eroi violenti e attaccabrighe, tipicamente yankee – di trasferire la mitologia western nella giungla indocinese – l’inguardabile pellicola propagandistica “Berretti verdi” – si rivela fallimentare e il successivo Oscar per l’interpretazione del “Grinta” appare come una sorta di risarcimento deciso con il plauso dei colleghi. Il volto del “mostro sacro” – peraltro interprete di alcuni degli immortali capolavori del genere western – viene rimpiazzato dai Nicholson, Pacino, De Niro, Hoffman, Duvall, ecc… le cui fisionomie e interpretazioni rompono la catena degli stereotipi svelando tutte le nevrosi e le fragilità dell’americano medio. L’America è costretta a guardarsi dentro e a rovistare nella propria immondizia. Se in una pellicola “seminale” e di culto come “Easy rider” va di scena la violenta intolleranza dell’America rurale e “selvaggia”, “Un uomo da marciapiede” ritrae una New York – all’epoca espressione più elevata dello spirito e della civiltà metropolitana occidentale – spietata, cinica, viziosa e corrotta, fucina di nuove povertà ed emarginazioni. Naturalmente anche il genere western si rinnova e accoglie le tensioni e le pulsioni contemporanee, senza dimenticare le lezioni che paradossalmente arrivano proprio dall’Italia, dallo spaghetti western di Sergio Leone e dei suoi epigoni o imitatori. Non c’è nessuna Frontiera da celebrare, ma solo da prendere spunto dalla violenza di una terra in cui bounty killers, pistoleri e fuorilegge impongono la legge del più forte e del più lesto di mano. E nelle pellicole di quegli anni di sangue ne scorre tanto e a fiumi, tingendo di rosso la coscienza degli attoniti spettatori americani. A partire dall’ineguagliato “Mucchio selvaggio” del maestro del cinema iperviolento Sam Peckinpah il quale promuove al rango ingrato di “eroi” una banda di “desperados”, attempati ma violenti e assassini, che troveranno redenzione e morte sulla scena di un incredibile massacro, rappresentato come una sarabanda di ralenty e accelerazioni con orgia di sangue annessa -. Un anno più tardi i pellerossa, i selvaggi che, in buona parte delle pellicole del genere avevano indossato gli scomodi e minacciosi panni degli assedianti e assalitori del fortino della Civiltà, si ritrovano dalla parte delle vittime in “Soldato blu” che prende spunto dallo sciagurato e criminale “episodio” di Sand Creek poi cantato anche dal mitico De Andrè. Gli autori non ci risparmiano nulla: lo sterminio di massa di donne e bambini inermi, decapitazioni, mutilazioni, evirazioni, ecc… Il regista Ralph Nelson negò, ma era evidente che “Soldato blu” narrava una storia per raccontarne un’altra molto più vicina e traumatica come il massacro di My Lai.

Sin da allora il sogno si era dissolto o, almeno, si era ricomposto e si era materializzata in forme diverse ed inedite, antieroiche e disseccate dalla linfa mitologica, epica e retorica. Il nuovo eroe è l’antieroe, colui che sfida le autorità e si ribella, che abbandona la comoda vita quotidiana per varcare e bucare le frontiere. Non è un caso che uno dei generi più frequentati nel corso degli anni Settanta fosse quel road movie ambientato nella profonda – e più arcaica e selvaggia – America del Sud che avrebbe rimpiazzato per alcuni anni i western. Questa volta i protagonisti sono i cavalli a motore mentre i tutori della legge, sceriffi e incauti poliziotti, non hanno più la stoffa degli eroi solitari, bensì quelli di sbirri poco efficienti, spesso corrotti e quasi sempre goffi, maldestri e idioti come nelle migliori barzellette.

Quella era la particolare temperie culturale dell’America di quegli anni a cavallo fra i Sessanta e i Settanta che necessariamente si riverberava sulla più grande industria dello spettacolo del mondo. Una stagione forse irripetibile ma che, sicuramente, è stata fra le più fervide per quanto riguarda la creatività di “celluloide”. La New Hollywood – con i giovani Scorsese, Coppola, Cimino, Bogdanovich, Altman, ecc… – e il nuovo cinema indipendente – per tacere dei più “anziani” Peckinpah, Penn e Ray e della loro “poetica della violenza” – scombinano le vecchie regole del mainstream concedendosi il lusso di innovazioni formali e di contenuto e di sperimentalismi anche di sapore europeo. In proposito è universalmente noto come riconosciuti maestri cinematografici del calibro di Coppola, Scorsese e Cimino – tutti italoamericani – avessero tratto ispirazione di tecnica e di stile dai “colleghi” italiani. Echi dell’immortale “Gattopardo” di Luchino Visconti – tratto dal romanzo di Tomasi di Lampedusa – sono presenti sia nei primi due episodi della saga del “Padrino” che nel “Cacciatore”.

La normalizzazione del 1977: due fenomeni e due approcci all'”evasione”

Niente è per sempre e infatti la normalizzazione dell’industria culturale e dello spettacolo è dietro l’angolo, accompagnata dall’entrata in una nuova fase della storia americana. Il paese ha subito diversi traumi e la sua credibilità “democratica” è stata messa a dura prova. Dopo il Watergate e la fine della guerra del Vietnam, si diffonde una gran voglia di mettersi tutto il passato alle spalle, di girare pagina e di ricominciare, ma soprattutto il disincanto e la disillusione hanno soppiantato l’impegno, il desiderio di cambiare e gli aneliti di rigenerazione. I fratelli maggiori di coloro che hanno militato nei movimenti degli anni Sessanta o che hanno riepito le comuni, hanno soprattutto voglia di divertirsi, di affermarsi individualisticamente o di evadere dalla quotidianità. In fondo anche la stagione “hippie” e della diffusione delle droghe e della cultura psichedelica aveva mostrato il fiato corto già alla fine del decennio precedente: la rigenerazione e il rinnovamento spirituale cede il posto al semplice e immediato “sballo”, al puro e semplice edonismo consumistico e – per molti versi – redditizio.

Il nuovo corso è tracciato nel fatidico Anno del Signore 1977 e coinvolgerà e influenzerà profondamente l’immaginario e la cultura giovanile delle decadi successive. Ancora una volta l’industria dei “sogni” hollywoodiana assume un ruolo di primaria e decisiva importanza modellando due fenomeni di proporzioni immani e planetarie.

Innanzitutto quel 1977 segna il ritorno della fantasy più sfrenata e giocosa con quello che rimarrà nella storia del cinema come uno dei più grandi e più redditizi successi di pubblico, quel “Guerre stellari” diretto da un giovanissimo George Lucas, primo capitolo di una trilogia che contamina la fantascienza con altri generi in tripudio di inediti effetti speciali e citazioni dei grandi maestri del cinema di genere – su tutti i western di John Ford e gli epici film di samurai del grandissimo Kurosawa, oltre alle pellicole di genere “bellico” sostituendo gli odiati nazisti tedeschi con il perfido Darth Fehner – il cui design richiama e rievoca evidentemente l’armamentario iconografico e simbolico del Terzo Reich – ele truppe imperiali ai suoi ordini -. Soprattutto questa nuova fantascienza dalle tinte fortemente “fantasy” e fiabesche si sbarazza di un decennio in cui il genere si era rivolto alla rappresentazione di scenari futuri distopici della società umana occidentale nella migliore tradizione letteraria anglosassone (“1984” di Orwell e “Il mondo nuovo” di Huxley) su tutti, condensati in pellicole oggi di culto come “1975: occhi bianchi sul pianeta Terra”, “2022: i sopravvissuti”, “”Zardoz”, “Gli ultimi avventurieri del pianeta Terra” o “Rollerball”, per citare le più famose… Peraltro il pessimismo radicale che permeava quelle opere – riflesso di una mentalità che permeava gli anni convulsi dello sbriciolamento dell'”American Dream” – veniva spazzato letteralmente via da un ottimismo di sapore neanche tanto vagamente puerile e sognante. Se doveva essere sufficientemente chiaro allo spettatore che l’Impero galattico non sarebbe mai riuscito ad imporre il suo dominio, nel coevo “Incontri ravvicinati del terzo tipo” del campione del box office Steven Spielberg, gli alieni diventano improvvisamente “buoni” e dialoganti con il genere umano, portatori di un messaggio di concordia e pace universale. Su tutto trionfa il desiderio di evadere, di divertirsi e di “sognare”, come nel regno delle fiabe, e in questo la premiata ditta dei giovanissimi “Spielberg e Lucas” farà clamorosamente centro al botteghino intercettando le inclinazioni di un pubblico soprattutto giovanile in cerca di nuove emozioni dopo la sbornia “controculturale” in voga fino alla metà degli anni Settanta. I due “ragazzi prodigio” inventeranno il blockbuster postmoderno e al principio degli anni Ottanta sforneranno altri nuovi successi sulla linea precedentemente tracciata con l’avventurosa saga dei “Predatori dell’arca perduta” (sceneggiatura di George Lucas e regia di Steven Spielberg) e dell’arrembante archeologo Indiana Jones e con quell'”ET, l’extraterrestre” che altro non era se non la versione sentimentale e per ragazzi de “Incontri ravvicinati del terzo tipo”. A dire il vero se i primi esemplari della nuova ondata dei bockbuster riesce ad affascinare le folle grazie alla freschezza, una certa innegabile inventiva e fantasia e un uso sapiente e dosato degli effetti speciali – siamo ancora lontani dalla “rivoluzione digitale” – presto la ripetitività e la noia faranno capolino, nella successione di pellicole sempre più affidate a costossimi effetti speciali ricreati digitalmente e imperniate su fragili e schematiche sceneggiature. Ma la macchina pubblicitaria e del marketing è tale ormai da programmare e prefigurare il “successo”: la saga dei supereroi Marvel docet…

Quasi per straordinaria coincidenza nello stesso 1977 viene distribuita un’altra pellicola che, per certi aspetti, può essere definita di “restaurazione”, quella “Febbre del sabato sera” che lancerà anche la moda della disco music e del travoltismo, ovvero di una nuova forma di giovanilismo. In verità negli States la disco music si avviava alla sua ultima stagione, quella del tramonto e negli anni Ottanta avrebbe ceduto lo scettro alle nuove tendenze e ai nuovi gusti musicali della New Wave, tuttavia la pellicola interpretata dalla giovane “icona” italoamericana costituisce un fenomeno a parte, la cui diffusione e presa è stata analizzata e interpretata da una varietà di semiologi, antropologi e sociologi. Il ventitreene Travolta è bravissimo a donare fascino e simpatia al ragazzo di “Broccolino” Tony Manero che, a conti fatti, non può risultare così seducente agli occhi di un pubblico più maturo. Il nuovo James Dean degli anni Settanta – Ottanta è vanesio, egocentrico, ignorante, strafottente e pure un pò razzista e misogino. Se non fosse per l’età ancora acerba, il personaggio risulterebbe anche un pò osceno e repulsivo nello sviluppo narrativo… Tony Manero non ama la Little Italy di cui, pure, fa parte e, neanche troppo segretamente, detesta chi ne fa parte, familiari e amici compresi. Nella sua mediocre e grigia quotidianità Tony ha trovato il suo rifugio, il ballo, in cui eccelle durante le serate trascorse alla discoteca Odissey, nei fine settimana. Ma quando anche questo “piccolo mondo” crollerà, il buon Tony non farà altro che allontanarsi e abbandonare quell’ambiente “gretto, chiuso e meschino” della Little Italy per la più accogliente, aperta e “danarosa” Manhattan trovando ospitalità dall’amica di cui, nel frattempo, si era innamorato. Così Tony Manero/John Travolta finisce per incarnare e impersonare i sogni e i desideri di tanti ragazze e adolescenti di mezzo mondo. Non solo il piacere della danza libera, sfrenata, “acrobatica”, ma soprattutto il desiderio e il sogno di poter lasciare la periferia per il luminoso centro metropolitano ricco di opportunità e di relazioni. Insomma il personaggio più famoso della carriera di Travolta – e quello che gli ha donato fama, successo e ricchezza – rivela tutta la sua “impoliticità” e quell’individualismo che cela neanche troppo un desiderio di autoaffermazione e di successo. Probabilmente non è un caso che solo un anno prima un altro italoamericano di successo – il muscoloso Sylvester Stallone – creasse il pugile “fallito” Rocky Balboa, un altro “perdente” in cerca di affermazione e successo. Il messaggio di questo genere di opere– quello che riproporrà l’American Dream sotto altre spoglie – consiste nell’idea che gli Stati Uniti d’America sono l’unico vero paese in grado di offrire opportunità di successo a tutti, anche a minoranze storicamente discriminate come quella italoamericana. E, come da esigenza di copione per film di sicuro successo – i “talentuosi” Tony e Rocky sono destinati a tagliare i loro traguardi nello svolgimento delle loro saghe scontate. Un’altra dimostrazione del cambiamento dei tempi – e dei costumi – registrati e, contemporaneamente, veicolato dal nuovo corso hollywoodiano è fornita dalla mutazione in atto nell’iconografia e nello star sytem. Le nevrosi, le fragilità, i turbamenti e il ribellismo insito nei personaggi interpretati dai vari Nicholson, Hoffman, De Niro e Pacino cedono il passo al corpo sinuoso e agile del giovane Travolta, a quello asciutto e “virile” dell’American Gigolo Richard Gere e a quello dello stesso Stallone, una perfetta macchina organica da combattimento (Rocky) e da guerra (Rambo). Se si vuole perseguire individualisticamente il successo nella propria vita, è necessario avere estrema cura del proprio, personale “tempio”, fare esercizio, iscriversi a una palestra, dedicarsi al body building o all’aerobica. All’epoca furono forse pochissimi ad avvedersi dei profondi cambiamenti intervenuti nel costume e nella mentalità diffuse nelle società avanzate e occidentali, ma nel breve volgere di una stagione, gli anni Ottanta – superficiali, “ingenui” e distratti – entrarono nelle nostre vite con tutto quel che comportava…

Il reaganismo, la retorica e il sogno “diluito”

In qualche modo l’immagine degli States nel mondo viene rilanciata soprattutto nel corso della prima amministrazione del Presidente repubblicano Ronald Reagan, un ex mediocre attore, già informatore per conto dell’FBI in epoca di maccartismo imperante, e successivamente governatore della California. Negli anni del reaganismo e dello yuppismo cinico e rampante, Hollywood entra nella Casa Bianca dalla porta principale prestando il volto di uno dei suoi divi e, agli occhi degli osservatori più acuti questo periodo sancisce il trionfo della società dei mass media e dello spettacolo che, nel cuore dell’Impero, stava già trasformando i processi di comunicazione politica, In un certo senso il linguaggio e lo stile da consumato showman del Presidente americano verranno assimilati e imitati da Berlusconi il quel porterà nella politica tutto il suo arsenale da potente e affermato tycoon in grado di intercettare sempre le tendenze del suo pubblico affezionato. Naturalmente anche Hollywood e il mondo dello spettacolo si adeguano riproponendo il conservatorismo e quel mondo della Frontiera che tanto sono graditi al nuovo inquilino della Casa Bianca. In un certo senso il modello di riferimento è sempre il vecchio John Wayne, l’eroe integerrimo e duro dei film western. Tramontato il genere, nel corso degli anni Settanta le relative convenzioni stilistiche, formali, narrative e tematiche erano state riprese dal poliziesco metropolitano e violento spesso venato fa un vigilantismo refrattario a qualunque regola o nozione di stato di diritto. Così il rude sceriffo pronto a menar le mani e a impiombare i fuorilegge per ristabilire la legge e l’ordine nel Far West è costretto a lasciare il suo spazio agli (anti)eroi violenti e spietati delle metropoli americane come l’ispettore Callaghan/Eastwood o il “giustiziere della notte”/Bronson. Nella sostanza si tratta sempre di “pistoleros” che – forti di un codice morale desunto dalla Frontiera – si sentono investiti dalla missione di proteggere e difendere un ordine morale e uno stile di vita messi costantemente in pericolo da forze oscure e minacciose. Non solo papponi, prostitute, spacciatori, ma anche gli hippie e i giovani “alternativi”… Per quanto esecrabili sul piano ideologico – sempre che una tale lettura sia lecita e corretta – queste pellicole rappresentavano piuttosto efficacemente le ansie e le paure della “vecchia America” borghese e perbenista che si sentiva minacciata e costantemente sulla “difensiva”. Questa sindrome da “assedio” trova la sua massima espressione e rappresentazione nella prima pellicola professionale di un altro giovane prodigio, John Carpenter, un autentico maestro nella realizzazione di film fantastici a basso costo. In “Distretto 13: le brigate della morte” l’autore rovescia ironicamente lo schema presente in una miriade di film intrisi di violenza metropolitana: uno sparuto gruppo di poliziotti e di detenuti condannati a morte è costretto a difendere un distretto di polizia di Los Angeles in via di smantellamento da una feroce e misteriosa gang di giovinastri dediti ai culti voodoo. Un nichilismo senza vie d’uscita che rovescia sul malcapitato spettatore l’impressione perturbante e agghiacciante che non ci sia più un ordine morale da difendere e che le istituzioni a presidio della vita civile non siano altro che un simulacro. Forse l’intenzione neanche tanto nascosta dell’autore era quella di parodiare un genere, mostrando come i confini “interni” fra Noi (l’America delle maggioranze silenziose) e gli Altri fo
ssero letteralmente saltati e come l’unica vera guerra degna di essere veramente combattuta fosse quella avente come posta in gioco la mera sopravvivenza fisica e di “nervi”…
In ogni caso, se l’America descritta dal cinema degli anni Settanta “cessava” di mostrare il suo volto imperiale segnato dalle ansie e dalle paure, dall’inquietudine generata dai fenomeni endogeni di disgregazione morale e sociale, quella reaganiana risorge, gagliarda e forte, mostra ancora una volta la solidità dei propri principi al mondo. Ormai il pericolo non viene più dalle forze della “disgregazione” e “aliene” della società americana, ma viene incarnato dai nemici stranieri di sempre, i soliti sovietici e, sempre più spesso, gli arabi. Pure un fenomeno preoccupante come il narcotraffico e lo spaccio di cocaina ed eroina vengono ricondotti alla devastante attività di “agenti esterni” come potevano esserlo le organizzazioni criminali colombiane e i “cartelli” latinoamericani. Nell’incredibile “Alba rossa” di Milius va addirittura in scena la vittoriosa resistenza di un gruppo di giovani ribelli nei confronti di un’improbabile invasione dei sovietici e del Patto di Varsavia.

Quel che è certo è che, a differenza dei “vecchi” e moderni sceriffi Eastwood e Bronson, i più atletici e pirotecnici Stallone, Schwarzenegger, Willis, Norris, Van Damme, ecc… sono perlopiù impegnati a opporsi – quasi in solitudine – sono quasi sempre alle prese con minacce provenienti dall’esterno con la sucirezza e sicumera che, comunque, l’American Way of Life trionferà. In questo senso si distingue il solito Stallone che, senza farsi pregare, assurge al ruolo di principale propagandista dell’America dell’amministrazione Reagan. Per quanto ridicole, oggettivamente assurde e perfino scadenti, le pellicole interpretate e spesso anche dirette dal divo italoamericano riflettono indiscutibilmente lo spirito del loro tempo. Se nell’incredibile “Rambo 2: la vendetta” inscena la “rivincita” degli yankee per lo smacco subito in Vietnam mostrando per un’ora e mezza l’eroico e letale reduce intento a falciare un nutrito numero di russi e viet tutto solo, nel lungo “videoclip” “Rocky 4” il celeberrimo pugile italoamericano si fa metafora e allegoria che anticipa sui tempi la vittoria sull’orso sovietico. Quel che manca alle pellicole d’azione a sfondo “patriottico” interpretate da Stallone, Schwarzy, ecc… – recentemente riuniti nelle serie da “rimpatriata” dei “Mercenari” – è l’humus culturale autentico che si respirava nel periodo successivo alla Seconda Guerra Mondiale e, quindi, una sorta di consapevolezza o presunzione di avere difeso e diffuso la libertà nel mondo. In qualche modo il Vietnam non era del tutto passato senza traccia e, infatti, a quegli anni risalgono le prime autentiche opere dedicate al conflitto, dirette dal discusso Oliver Stone (“Platoon”, “Nato il 4 Luglio”). Al di fuori del pubblico americano più sprovveduto nessuno prende veramente sul serio quella serie di filmacci ripetitivi, monotoni e interpretati da attori inespressivi e improbabili e, con qualche eccezione, la retorica affonda nella parodia spesso involontaria. Il mito tipicamente americano dell’eroe solitario e individualista, integerrimo e violento scade nel baracconismo più becero, affidato a pupazzeschi uomini d’azione concentrati ad annientare il nemico con le armi da guerra più terrificanti e distruttive. In realtà l’American Way of Life e la celebrazione degli States come la patria della libertà e delle opportunità vengono espresse con migliore e maggiore efficacia in prodotti fimici appartenenti a generi differenti come, ad esempio, accade nel “musicale” “Flashdance”, un successo evidentemente programmato al box office.

Splendori, miserie e morte della poetica cinematografica americana delle violenza

Riavvolgiamo il nastro della storia come per un rewind e fermiamoci poco prima della tragica “avventura” a stelle e strisce in Vietnam. Una vera e propria cesura nella mentalità e nel costume americano – ma non solo – è sicuramente costituita dall’assassinio del Presidente John Fitzgerald Kennedy e dal complotto rese possibile questo gravissimo delitto politico. Tanto più che, in parte, la linea politico programmatica del giovane Presidente e rampollo di una potente famiglia cattolica di origini irlandesi si riallacciava parzialmente alle istanze contenute nel New Deal rooseveltiano. Politica economica e finanziaria inserita in un discorso di più marcata programmazione statuale, linea di pacificazione e distensione con il tradizionale avversario sovietico, riconoscimento delle istanze di integrazione “razziale” provenienti dai movimenti per i diritti civili e del nuovo protagonismo dei cittadini ci colore, ecc… Ce n’era abbastanza per farsi una nutrita e pericolosa schiera di nemici implacabili e feroci le cui “sensibilità” e interessi erano stati incotrovertibilmente intaccati. La Cia del “vecchio” Dulles, l’FBI del “dinosauro” Hoover, il Pentagono, i suoi servizi di intelligence e il complesso militare – industriale denunciato dal suo predecessore repubblicano il generale Dwight Eisenhower, i petrolieri texani, Cosa Nostra siculoamericana, i cubani anticastristi, i “residui” del Ku Klux Klan e del razzismo di stampo sudista, la destra repubblicana e, forse, pure quella democratica (il vicepresidente Lyndon Johnson), ecc… Malgrado il tentativo di insabbiamento attuato dalla Commissione Warren che accreditò l’azione del “pazzo solitario” Lee Harvey Oswald, la maggior parte dei cittadini americani si era convinta giustamente che l’assassinio del giovane Presidente fosse da ricondurre alle manovre di quel magma di forze e poteri “occulti” che, in definitiva, detenevano le chiavi del glorioso destino del popolo.

La frattura causata da uno dei più gravi delitti politici dello scorso secolo si consuma anche nell’ambito strettamente spettacolare e mediatico. Dell’efferatezza e della letale precisione del fuoco incrociato di Dallas è stata resa testimonianza da un filmino in Super8 girato da Zapruder, un sarto di origine ebraica presente al pasaggio del corteo presidenziale. La sequenza è terribile e, forse per la prima volta, mostra come sia possibile filmare in diretta un omicidio mostrandone tutti i devastanti effetti e conseguenze, con quel cranio che esplode letteralmente in pezzi. Il filmato entra indubbiamente nel novero dei “girati” più celebri e visti nel corso della storia più recente e si impone per un certo impatto documentaristico ma spettacolare svelando al pubblico come fosse fattibile la ripresa della violenza e della morte e la sua rappresentazione “filtrata” dai mezzi di comunicazione più o meno sofisticati. Il film di Zapruder mette anche a nudo un lato inquietante, voyeuristico del pubblico, che, messo di fronte alla rappresentazione – documentaristica o spettacolarizzata – della morte brutale ed efferata – si ritrae, ma al contempo è costretto a scrutare tutti i dettagli ricevendone segnali, impressioni ed emozioni contradditorie e spiazzanti. La violenza rappresentata e spettacolarizzata ci fa arretrare, ma, al contempo, ci invita oscenamente alla sua visione, facendo emergere un lato non poprio piacevole ed edificante della natura umana. Se gran parte del cinema violento dell’America degli anni Ottanta si risolve nella banalizzazione e nel parossismo fumettistico e quasi grottesco della premiata ditta di Stallone & soci, nell’esibizione di un “machismo” muscolare che deprime pure la consueta retorica patriottarda e, se negli anni a venire trionfa una violenza grafica sempre più sganciata dalla realtà, debitrice dell’estetica di videogame e videoclip, immersa nei costosi digitali che la rendono eccessiva, pirotecnica, immaginifica e cartoonesca, il miglior cinema fondato sulla “poetica della violenza” statunitense inizia proprio con il filmato di Zapruder e la riflessione dello sguardo ambiguamente calato sull'”invedibile”. Fino alla fine degli anni Sessante il codice Hays impediva ai cineasti di girare scene di violenza esplicita costringendoli ad affidare il “messaggio” filmico all’allusione e al dialogo. Da quel momento il cinema statunitense esplode mettendo in scena un iperrealismo che amplifica spettacolarmente la brutalità esplicita. Secondo uno dei cantori e migliori esponenti del cinema iperrealista e iperviolento – il grande Arthur Penn, padre del celebre attore Sean – è proprio il carattere e l’essenza violenta e brutale della storia degli Stati Uniti d’America che necessita di essere rappresentato e decodificato con il linguaggio dell’arte e dello spettacolo. Abbiamo visto come ciò è tanto più vero nel periodo in cui il Vietnam costringe molti concittadini a fare i conti con la propria storia gettando la maschera dell'”innocenza” e purezza americana, tuttavia, soprattutto a livello estetico, il cinema iperviolento della New Hollywood si presta a una riflessione più intima e psicologica. Consideriamo ancora una volta, soprattutto, buona parte della fimografia di Arthur Penn e la quasi totalità delle opere allucinate del grande Sam Peckinpah, le pellicole dei giovani Coppola, Scorsese e Cimino oppure l’imprescindibile Kubrick di “Arancia meccanica” e di “Full Metal Jacket e il “selvaggio” e discusso Milius, ma anche – in tempi recenti e recentissimi – la coppia di fratelli “terribili” Joel ed Ethan Coen (“Blood simple”, “Fargo”, “Non è un paese per vecchi”). Consideriamo il dinamismo espasperato e inevitabilmente tragico (Penn), la sarabanda orgiastica e sanguinolenta che cancella e redime (Peckinpah), la follia conturbante, insieme stabilizzante – destabilizzante (Kubrick) o le esplosioni omicide, imprevedibili e assurde (Scorsese)… La violenza è contemporaneamente grafica, realistica e spettacolare, provoca repulsione, ma, al contempo, attrae in maniera quasi morbosa. Il nocciolo della questione è metacinematografico perchè lo spettatore – americano e non – viene proiettato in universi popolati da corpi crivellati, martoriati e straziati senza risparmiare la visione dell’agonia dei personaggi che i sapienti usi del montaggio – con ralenti, accelerazioni, scatti – inseriscono in un marchingegno ambiguamente spettacolare. Il cinema della poetica della violenza è ambiguo e ambivalente, perchè ambigua e ambivalente è la violenza stessa – reale o rappresentata – così come lo spettatore. Il discorso investe, quindi, soprattutto la società americana, incarnando la forma della società dello spettacolo più compiuta e curata in tutti gli aspetti tecnici e formali. Probabilmente l’ineguagliata vetta nell’ambito di questa perturbante poetica della violenza è stata raggiunta dal citato “Apocalypse now” del duo Coppola/Milius ove, evidentemente, la guerra del Vietnam non viene realmente “storicizzata” ma si fa metafora di una riflessione quasi metafisica sulla guerra e sulla violenza in generale, sulla loro ambigua fascinazione e sulla loro essenza irrimediabilmente distruttiva. Dal punto di vista figurativo lo spettatore viene immediatamente spedito in una dimensione che non ha più nulla di “reale”, immaginifica e, insieme, assurda e infernale resa alla perfezione dalla fotografia del grandissimo Vittorio Storaro abilissimo ad abbinare il carosello di luci ed ombre. “Apocalypse now” è la lucida e inquietante cronaca dell’odissea di un sicario dei servizi segreti americani che viene incaricato di eliminare uno dei più valenti ufficiali dell’esercito americano il quale ormai, dalla sua base del Laos, sta combattendo una “guerra privata” e senza regole con i Vietcong. Il protagonista carismatico del capolavoro di Coppola – invisibile per la maggior parte della pellicola – è il colonnello Kurtz – reso alla perfezione dal mitico Marlon Brando -, una sorta di divinità molto umana della Guerra, un Marte lucidamente folle che svela al suo carnefice, il capitano Willard, l’inconfessata essenza di ogni conflitto consistente nella pulsione incontrollata verso la distruzione totale e nello sterminio di massa compiuto sia nella forma avanzata e tecnologica degli eserciti occidentali, sia in quella arcaica e barbara praticata dagli altri. L’Apocalisse è ora perchè il germe della distruzione e della fine totale risiede nel cuore dell’uomo, al di là delle maschere ideologiche e delle dichiarazioni coloniali e neocoloniali a giustificazione della missione civilizzatrice nei confronti delle popolazioni “selvagge” del Terzo Mondo – come lo si etichettava qualche tempo fa -. Sfuggendo alla facile retorica pacifista o a una più comoda speculazione sulla necessità di intervento militare in Indocina, Coppola e Milius avvertono gli spettatori che cadere dal baratro e precipitare è assai più facile di quanto si possa pensare, perchè la distruzione e la violenza esercitano un’attrazione e una fascinazione insospettabile quanto perniciosa. Nel corso dell’intero racconto il capitano Willard non può fare a meno di ammirare il colonnello così come le sue decisioni “estreme” e, trovandoselo di fronte, rimarrà come ipnotizzato per ritrarsi solo un secondo prima di lasciarsi dominare completamente dal proprio lato oscuro. Un magnetismo – quello del colonnello Kurtz – che risiede nella sua terribile maschera ambigua: folle ma estremamente lucido e razionale nella consequenzialità dei suoi discorsi, “divino” agli occhi della tribù dei “montanari” e al contempo sufficientemente umano da non sostenere fino alla fine il suo ruolo, freddo, determinato e spietato, ma dolente fino alla supplica di porre fine definitivamente alla sua c
ondizione, alla patologia che ha minato la sua anima, la sua mente e il suo fisico. Circonfuso dalle atmosfere conradiane di “Cuore di tenebra” e rimpolpato dalle dissertazione apertamente psicanalitiche e freudiane – l’intera opera può essere interpretata come l’affermazione convinta della terribile insopprimibilità di Thanatos nella psiche , quindi, nelle civiltà umane – “Apocalypse now” si distingue innanzitutto per l’evocazione degli echi nietzschani sulla “morte di Dio”, in primo luogo degli “idoli” occidentali. La realizzazione di questo singolare kolossal bellico racchiuso in un’atmosfera allucinata è lunga e laboriosa e sottrae a Coppola e all’intero cast ben quattro anni di vita non solo professionale. Quando uscità nelle sale – nel 1979 – il decennio sta volgendo al termine e la stagione della “poetica dell’iperrealismo e dell’iperviolenza” sta per entrare nella fase discendente della sua parabola. Forse l’apice estetico, formale e contenutistico di “Apocalypse now” ha chiuso definitivamentre qualsiasi ulteriore discorso sulla guerra e sulla violenza, sulle pulsioni nascoste degli individui e sulla loro insopprimibile ambiguità.
Occorre attendere più di un decennio perchè la “poetica cinematografica della violenza” – tipicamente americana – venga “assassinata” e della sua morte se ne fa carico un giovane e talentuoso cineasta dalla cultura di “celluloide” enciclopedica, il celebrato Quentin Tarantino. Sincero amante delle “perversioni” cinematografiche – ovvero di tutto l’immaginario iperviolento del cinema – Tarantino si fa interprete di un’estetica “pop” e manierista, basata sul saccheggio senza freni di un vasto repertorio e bagaglio di disparate opere di “genere”. L’autentica cifra del giovane autore italoamericano consiste soprattutto nella singolare capacità di amalgamare e mescolare le pratiche di quello che fino ad allora era considerato il “cinema d’autore” con l’unerground e il “b – z movie”, il cinema di genere e di evasione. Ancora una volta i modelli di ispirazioni sono “nobili” – indubbiamente vi rientrano i vari Scorsese, Coppola, Cimino, ecc… – ma Tarantino si diverte a contaminarli in maniera beffarda snaturandone forma e contenuti. L’arsenale tarantiniano è invidiabile e degno di un gioco di società e le citazioni si sprecano… Il noir vecchio stile, il mafia o gangster movie, il poliziesco, il western classico e lo spaghetti western, il cinema bellico, il road movie, la blaxploitation, il kung fu movie, lo yazuka movie, il thriller, l’horror, lo splatter, ecc… In qualche modo l’approccio tarantiniano era stato prefigurato da un altro celebre autore incline a citazionismo e al manierismo , quel David Lynch che si era fatto notare soprattutto per la serie TV di culto “Twin Peaks”. Ma se quest’ultimo assemblava ironicamente i disparati tasselli di complicatissimi mosaici rivestendoli di una luce onirica e sfoggiando una sensibilità pittorica, Tarantino propone un “puro cinema per il cinema”, stilisticamente virtuosistico, paradossalmente convenzionale e al grado “zero di scrittura”. La forma invade e soffoca i contenuti e se ne sbarazza con disinvoltura. Malgrado molti critici abbiano profuso le loro energie intellettuali per individuare i significati “nascosti” delle opere tarantiniane, lo stesso regista ha lasciato intendere in più di un’occasione il suo esclusivo interesse per la forma. Nulla viene chiesto allo spettatore che viene solleticato sulla pelle e nelle viscere dalla sequenza di scene di iperviolenza che spesso sconfina nello “splatter” e di dialoghi volutamente verbosi e “nonsense”. Un gioco perverso in cui i personaggi sono piuttosto archetipi senza un vero disegno psicologico e le trame seguono sviluppi contorti e farraginosi. Così lo stile, il viruosismo registico e la pura forma diventano l’unica esclusiva ragione per assistere alla proiezione di un film di Tarantino – o del meno dotato allievo Rodriguez – ove i contenuti vengono volutamente azzerati. In questo aspetto si ravvisa tutta la differenza rispetto ai maestri del passato specializzati nell realizzazione di film iperviolenti. In quest’ultimo caso dallo stile scaturiva anche il contenuto, il discorso metacinematografico sulla violenza e sulla sua ambiguità, mentre quello che veramente è assente nel cinema di Tarantino è lo sguardo, che è soprattutto lo sguardo dell’altro, dello spettatore… La violenza – e la perversione – vengono sadomasochisticamente mostrare per i piaceri del palato di un pubblico sempre più passivo. Per maggiore precisione nella stagione in cui Tarantino si impone all’attenzione di critica e pubblico – quella dei “neri” e dei film “pulp” come “Le iene”, “Pulp fiction” e “Jackie Brown” – si avverte ancora l’esigenza di sviluppare un discorso “autoriale” limitando parzialmente il gioco delle citazioni e dei rimandi, ma nel decennio successivo sembra abbastanza chiaro che l’enfant prodige abbia ceduto alle più immediate e corrive domande commerciali e di “botteghino”. “Kill Bill”, “Grindhouse – a prova di morte”, “Bastardi senza gloria” e “Django unchained” sono altrettante tappe di un percorso ormai dominato dalla costante preoccupazione di lasciare l’impronta della propria griffe, della propria firma distintiva, in una sequela di pellicole senza capo nè coda, ove tutto viene amplificato e gonfiato fino ad un’insopportabile parossismo – dal consueto saccheggiamento di citazioni a un ricorso all’effettismo violento e truculento sempre più sgradevole e fine a sè stesso, dalla durata spropositata alla proposizione di dialoghi ora pretenziosi ora grotteschi -. Ormai l’ex giovane promessa ha gettato la maschera: il formalismo ossessivo e fine a sè stesso – privo di “sguardo” e di autentico contenuto – si risolvono in una coazione a ripetere che possono soddisfare i critici aprioristicamente votati alla celebrazione del culto tarantiniano, i fans e le sprovvedute platee in cerca di emozioni vibranti ma vuote e superficiali. Tarantino ha barato, perchè si è appropriato della “poetica della violenza” per farla a pezzi e cancellare, così, l’orizzonte problematico della violenza intesa anche e soprattutto come elemento connaturato alla cultura e alla mentalità americane. Sagra del deja vu a parte, la filmografia tarantiniana affonda nella banalizzazione più gretta e inqualificabile laddove, come nelle ultime pellicole, si confronta apparentemente con la Storia e le sue tragedie di lacrime e sangue. Se “Bastardi senza gloria” (le atrocità della Seconda Guerra Mondiale) decostruisce l’ultima grande tragedia continentale per trasformarla in una grottesca sarabanda di effetti splatter (gli scotennamenti, gli sfregi, le teste che esplodono, ecc…), “Django unchained” (lo schiavismo dei neri nella profonda America sudista) trasforma una pagina terribile della storia americana in un fumettone con reminiscenze dei vecchi spaghetti western e della blaxploitation anni Settanta. Il pubblico in delirio applaude, i cinefili in costante ricerca di nuovi “guru” e maestri ringraziano e forse l’America si riconosce nelle perversioni manieriste di questo suo figlio bizzarro e baciato dalla fortuna…

C’è chi veglia su Gotham City…

Il nuovo millennio dispiega finalmente tutto il potenziale della nuova “rivoluzione” digitale e multimediale con una serie di riflessi significativi e rilevanti sulle attività e sulle relazioni sociali e umane condensate nel concetto di “interattività”. Uno degli aspetti più evidenti del novo corso che investe innanzitutto le società neocapitaliste occidentali ed informatizzate, è la crescente diffusione di notizie e informazioni di ogni genere e il loro costante e più rapido flusso. In questo modo l’Impero – che è innanzitutto “a stelle e strisce” – svela quotidianamente il suo vo
lto, rendendo necessario il ricorso scientifico a nuove categorie sociologiche e politologiche come quella di “postdemocrazia”, coniata dal britannico Colin Crouch, a significare che le liberaldemocrazie di stampo anglosassone ed europeo hanno subito profonde trasformazioni in questi ultimi anni.

Per quanto ci riguarda uno dei sintomi più preoccupanti e visibili delle trasformazioni indotte anche dai nuovi linguaggi e codici di comunicazione sociale indotti dall’evoluzione delle tecnologie informatiche e mediatiche riguarda proprio l’esercizio della violenza o, meglio, del suo monopolio associato a inedite forme di controllo sociale e dei privato dei cittadini. Dopo la stagione del “Law and Order” anni Settanta – declinati nel cinema in senso individualistico e arcaico dai pistoleri metropolitani interpretati da Eastwood e Bronson e dai loro epigoni– e quella successiva della “Zero Tolerance” di derivazione reaganiana e praticata con successo dal sindaco repubblicano Rudolph Giuliani, ex procuratore distrettuale specializzato nella lotta al crimine organizzato, la “sindrome securitaria” – che si accompagna all’egemonia ideologica neoliberista e neoconservatrice e al l’obiettivo nascosto di controllare le “voci dissonanti”, gli indesiderabili e quei soggetti espulsi dai meccanismi implacabili del Mercato – si traduce in un più radicale e penetrante controllo delle società civili. Il processo viene accentuato e acellerato da “Gound Zero” e tutte le sue implicazioni. Oltre all’estensione dei processi di controllo, le nuove tecnologie multimediali (cellulari, internet, PC, l’applicazione del “digitale”, ecc…) traducono nella realtà meccanismi di “globalizzazione” impensabili solo pochi anni fa. Il confine fra ordine interno ed internazionale si stempera fino quasi a svanire mentre il monopolio della violenza “statuale” – teorizzato dal sociologo Max Weber – diviene appannaggio degli eserciti, dei corpi speciali e delle agenzie di intelligence, a detrimento delle polizie. Concettualmente per l’Impero non esiste differenza fra ordine internazionale e sicurezza urbana, In questo senso gli scontri e la guerriglia urbana che hanno sconvolto Genova nei giorni del G8 (20 e 21 luglio 2001) si sono offerti al grande pubblico come un imponente allestimento spettacolare e, insieme, terreno di sperimentazione per la nuova concezione di ordine e sicurezza pubblica metropolitana, intimamente connessa con un sistema militar – poliziesco sempre più attrezzato tecnologicamente e invasivo. A tutt’oggi non è stata resa nota la catena gerarchica e di comando che ha reso possibile la costruzione di questo grande laboratorio di sperimentazione delle nuove concezioni “securitarie”.
L’applicazione di questa nozione di monopolio della violenza non può che essere affidata a organismi di derivazione militare – i soli attrezzati in maniera adeguata – a compiere operazioni di ordine pubblico e, al contempo, di peacekeeping in terra straniera e “calda”. Basta visionare una pletora di film e di serie televisive per avvedersi che il fututo è già qui, che l’Impero è ,virtualmente e non solo, cosa fatta… Confrontate i vecchi polizieschi degli anni Sessanta e Settanta con quelli più recenti: mentre nei primi i famosi blitz e le irruzioni venivano affidate a singoli e temerari agenti di polizia, ora intervengono unità speciali come la SWAT, dotate di un equipaggiamento che potrebbe benissimo essere utilizzato negli scenari di conflitto. D’altronde ormai quale distinzione operativa viene compiuta fra l’irruzione in un’appartamento di un quartiere popolare e quella portata a termine in un villaggio iraqueno ?

Nella serie infinita dei supereroi – spesso targati Marvel – una menzione a parte merita il trittico sul Cavaliere Oscuro di Christopher Nolan se non altro perchè mette esattamente in scena il “mondo nuovo” e sempre meno futuristico, della “sindrome securitaria”. E’ indubitabile che Gotham City – nella consueta scenografia debitrice di tante pellicole sul “futuro distopico” – non è solo la più avanzata forma di metropoli contemporanea, ma rappresenta l’Occidente stesso, sempre più eroso dalle sue contraddizioni e da insanabili conflitti. Non solo la megalopoli è costretta a fare i conti con il quotidiano dominio della corruzione e della criminalità organizzata mafiosa, ma genera pure ingiustizie e le disuguaglianze di condizione sociale, economica e civile fra i “super ricchi” e i miserabili e reietti che pullulano nella giungla cittadina. Orbene, non solo il nuovo Bruce Wayne/Batman è il paladino e tutore di quest’ordine intrinsecamente ingiusto e immorale, ma egli stesso fa parte della casta dei “super ricchi”. Grazie al suo enorme patrimonio egli può investire una buona fetta di capitale per allargare il suo arsenale che prevede anche avanzatissime diavolerie tecnologiche in materia di controllo e videosorveglianza. Al confronto di Batman i buoni vecchi ed individualistici giustizieri e vigilanti metropolitani dalla pistola facile impallidiscono e, forse, non condividono. Un’onnipotente giustizia “privata” si sostituisce impunemente a quella ufficiale, impotente di fronte alla corruzione e al crimine dilagante e finisce per acquisire i contorni inquietanti di una forza invisibile e occulta che veglia sugli ignari cittadini di Gotham City. Un ristretto numero di funzionari integerrimi – magistrati e poliziotti – osserva e ringrazia, mentre per la sopravvivenza di Gotham City e la preservazione di un certo ordine sociale, vengono giustificate le menzogne e l’occultamento della verità. Tutto è lecito perchè le forze del Male sono imprevedibili, perverse e distruttive… Nel terzo capitolo della saga – “Il Cavaliere Oscuro – il ritorno” Nolan allude piuttosto scopertamente allo “scontro di civiltà evocato più volte dai mass media. Comunque quello che importa è che i “cattivi”, gli antagonisti non perseguono l’obiettivo di conquistare il potere o arricchirsi, ma vestono invece i panni dei mostruosi e orridi pazzi nichilisti e anarcoidi che non coltivano altra ossessione se non quella di “bruciare il mondo”. In tale prospettiva la figura del Joker interpretato da Heath Ledger rimane indubbiamente impressa nella memoria dello spattatore, al di là del sostrato ideologico che regge la trilogia. Nella postdemocrazia il sistema è irreformabile, senza una solidoimpianto valoriale e di principi ma retto dalla “sindrome securitaria e del controllo” dalle inquietanti tinte totalitarie. Chi si vuole collocare fuori dalla coordinate tracciate dalle autorità – che rispondono soprattutto a chi fa parte delle caste dei “super ricchi” – è semplicemente un folle o un terrorista all’ennesima potenza. Se proprio deve essere ravvisato un messaggio di sapore “politico” nella saga dedicata al Cavaliere Oscuro, allora basta tenere presente il look, l’abbigliamento e la divisa di questo eroe postmoderno che evoca un passato tragico e sconvolgente. E se Batman incarnasse semplicemente una sorta di nuovo “nazismo dal volto umano ?”

Mille e non più mille: esce il cinema, entra la televisione

Così se nell’immediato Dopoguerra e negli anni Cinquanta il “sogno americano” s’invera nell’orgoglio di imporsi come ancora di salvezza per il mondo e di diffusione di una certa idea di democrazia e libertà grazie all’indiscutibile vittoria militare sul nazismo tedesco e sugli alleati e collaborazionisti fascisti. Se fra ka metà degli anni Sessanta e buona parte del decennio successivo eventi traumatici come l’assassinio di JFK e l’ecalation militare in Vietnam assestano un duro colpo all’American Way of Life e impongono una pausa di riflessione sulla propria storia con quanto di inconfessabile e inconfessato contiene ( la questione razziale, i conti da fare con il genocidio dei nativi indiani, la larga diffusione di una violenza esibita ed accettata, ecc..). Se gli anni del reaganismo riprongono e impongono lo stile di vita americano – le sue “libertà” individualistiche connessse all’ansia di autoaffermazione e di successo e le sue opportunità attraverso una retorica più facile, artificiosa ed edulcorata, è solo in quest’ultimo quindicennio, nel nuovo scorcio di secolo che l’Impero fa mostra di sè liberandosi delle pesanti e obsolete scorie ideologiche, siano esse di sapore “liberal” oppure conservatrici. L’Impero a stelle strisce non ha alcun bisogno di esibire una presunta superiorità civile, culturale e morale, perchè il suo dominio si fonda sia sulla capacità di tenere i fili della finanza speculativa e dell’economica delle corporations (Wall Street) sia sulla garanzia offerta dalla sinergia fra i settori industriali, scientifici, tecnologici, militari e di intelligence nello studio, progettazione e realizzazione dei sistemi più efficaci di controllo, sorveglianza e repressione.

Nelle sue diverse sfaccettature e attraverso pellicole di diversa qualità – “d’autore”, commerciali, di genere, blockbuster, ecc… – il cinema hollywoodiano e americano in genere ha registrato, spesso in anticipo sui tempo, questo cambiamenti epocali sul piano antropologico, culturale e sociale. A dire il vero, in tempi recenti, Hollywood e le major hanno ritenuto che si dovesse più proficuamente indirizzare i reinvestimenti verso le serie televisive piuttosto che verso il cinema, un media che, per certi aspetti, è invecchiato, usurato dal tempo, costretto a subire la concorrenza dei nuovi e più attraenti media. Così si assiste quotidianamente all’invasione di fiction e serie televisive d’oltreoceano popolate da “eroi” non proprio senza macchia… Il campionario è vasto: poliziotti che agiscono al di fuori delle regole, agenti speciali con licenza di uccidere e di torturare (vedi il Kiefer Sutherland della nota serie “24”), squadre investigative dirette da detectives freddamente calcolatori, procuratori e avvocati cinici e determinati, pistoleri senza scrupoli, perfino un inquilino della Casa Bianca nella serie di culto “House of cards”, ecc…). La programmazione incessante di innumerevoli telefilm basate sulle gesta di squadre speciali e investigative (“Senza traccia”, “Cold case”, “NCSI”, le varie serie di “CSI”, i numerosi spin off e derivati della storica “Law and Order”, “Persons of interest, ecc…) è anche sintomatica e indicativa rispetto alle ansie, alle paure e alla “sindrome securitaria” che affligge la superpotenza egemone del pianeta. Domina sempre un’atmosfera lugubre, cupa e pure tenebrosa, da minaccia sempre incombente, nelle storie del nuovo millennio ove la vera costante della maggior parte dei protagonisti è un pragmatismo solido e ostentato. I nuovi cinici e pragmatici eroi americani della televisione sono disposti anche a derogare sui propri principi e valori pur di perseguire i loro obiettivi.

E anche il sogno è svanito da immemore tempo e il mito si attaglia meglio agli eroi degli antichi poemi, l’America sopravvive…

A pugni serrati e chiusi…

Saluti

HS

Fonte: www.comedonchisciotte.org

6.04.2015

Filmografia essenziale e “ragionata” sulla poetica cinematografica ed americana dell’iperviolenza

“La caccia” reg. Arthur Penn (1966)

“Gangster story” reg. Arthur Penn (1967)

“Il mucchio selvaggio” reg. Sam Peckinpah (1969)

“Soldato blu” reg. Ralph Nelson (1970)

“Arancia meccanica” reg. Stanley Kubrick (1971)

“Cane di paglia” reg. Sam Peckinpah (1971)

“Un tranquillo weekend di paura” reg. John Boorman (1972)

“Il padrino” reg. Francis Ford Coppola (1972)

“Il padrino parte II” reg. Francis Ford Coppola (1974)

“Taxi driver” reg. Martin Scorsese (1976)

“Distretto 13: le brigate della morte” reg. John Carpenter (1976)

“Il cacciatore” reg. Michael Cimino (1978)

“Apocalypse now” reg. Francis Ford Coppola (1979)

“C’era una volta l’America” reg. Sergio Leone (1984)

“Velluto blu” reg. David Lynch (1986)

“Full Metal Jacket” reg. Stanley Kubrick (1987)

“Quei bravi ragazzi” reg. Martin Scorsese (1990)

“Gli spietati” reg. Clint Eastwood (1992)

“Pulp fiction” reg. Quentin Tarantino (1994)

“Non è un paese per vecchi” reg. Joel ed Ethan Coen (2007)

PS: naturalmente l’elenco dei venti film qui presentati non pretende di costituire una filmografia esaustiva e “definitiva”. Come sempre, al di là dello sforzo di mantenere un minimo di distacco critico e “scientifico” in questo tipo di selezioni, concorrono anche l’estrazione culturale, le predisposizioni e i gusti. Occorre comunque ribadire che lo scrivente ha cercato di compilare questo elenco sulla base dei criteri suesposti, infatti tutte le pellicole citate contengono una robusta dose – relativa al proprio tempo – di violenza rappresentata, figurativa e spettacolare e, al contempo, uno sguardo critico ma anche ambiguo e ambivalente, perturbante nei confronti dello spettatore. In secondo luogo ogni film – sia pure ricorrendo ad espedienti allusivi, a metafore o simboli – tratta l’essenza e la natura di quella violenza connaturata alla società americana e a chi ne fa parte. Sulla base di questi criteri di giudizio si è pensato di menzionare film emblematici e significativi riconducibili a quella gamma ristretta di generi cinematografici che meglio ha saputo ritrarre quanto sopra. I western “antiretorici” e truculenti di ultima generazione, il film bellico di ambientazione “vietnamita”, il “neonoir”, il mafia e gangster movie, il poliziesco e il genere della “violenza metropolitana” e dei “vigilante”, il “revenge movie” o il “survivalist movie”. Con qualche significativa eccezione… In particolare è noto come “Arancia meccanica” fosse stato diretto dal newyorkese Kubrick nei studi londinesi, fosse un adattamento di un celeberrimo bestseller dello scrittore inglese Anthony Burgess e fosse ambientato in un’Inghilterra del futuro. In particolare ho ritenuto di non escludere il capolavoro kubrickiano per alcuni ordini di motivi anche se è l’unica opera del lotto che, in linea di massima, potrebbe essere inserita nel sottogenere fantascientifico sul “futuro distopico”. Innanzitutto perchè “Arancia meccanica” è un manifesto e un saggio metacinematografico sulla violenza in tutti i suoi aspetti così come “Apocalypse now” è pura metafisica della guerra e del conflitto. La ludica ed edonistica carica di violenza del giovane teppista e stupratore Alex diventa misera cosa rispetto a quella delle istituzioni e della società in generale. Facendo ricorso a una vasta gamma di toni sarcastici Kubrick dimostra che l’essenza del Potere costituito risiede sempre nell’esercizio della repressione e del controllo generale. Quantomeno queste forme di violenza totale e totalizzante sono desiderate e sognate da un Potere che ambisce ad essere sempre più totalizzante. Il piccolo e brutale Alex viene sottoposto a un processo di “rieducazione” consistente in un vero e proprio esperimento di controllo mentale e lavaggio del cervello ed è significativo come, proprio in quei decenni, venissero alla luce tentativi di questo genere. La portata del discorso sotteso alla storia narrata da Kubrick e Burgess mette evidentemente in secondo piano l’ambientazione in un’Inghilterra del futuro, poichè avrebbe potuto essere ugualmente trasferita in qualsiasi contesto sociale occidentale.
Per quanto riguarda “Cane di paglia”, questa volta la terribile metamorfosi di un giovane e mite professore americano (Dustin Hoffman) che, in maniera efferata e scientifica, si sbarazza brutalmente di alcuni “bulli” indigeni di una brulla campagna inglese. La causa scatenante di un’esplosione di violenza inusitata e incontrollata è l’atteggiamento “disinvolto”della moglie del professore, nativa del posto. Coerentemente e radicalmente pessimista, il “selvaggio” Peckinpah vuole rammentare allo spettatore che la civiltà e le convenzioni morali e sociali possono cedere in qualunque momento alla matta bestialità e anche un “cane di paglia” – un uomo dimesso, timido, apparentemente “vile” – può trasformarsi in un carnefice.

Infine mi preme menzionare anche “C’era una volta l’America”, il capolavoro di un regista italiano come Sergio Leone, già universalmente noto per avere costruito il successo degli “spaghetti western”. Nonostante all’epoca il suo film migliore non fosse stato apprezzato proprio negli States – questo ritratto di giovani gangster ebraico americani infastidiva qualcuno ? -, Sergio Leone dimostra una volta di più di essere il più “americano” dei registi italiani per quel suo modo di recuperare la “classicità” di un certo cinema d’oltreoceano secondo la propria personale visione. Certo è che la storia venata di struggente nostalgia del piccolo gangster rimasto tenacemente aggrappato al personale codice morale della “strada” in un mondo in cui la corruzione, l’immoralità e il potere della criminalità organizzata la fanno da padroni incontrastati, ha proiettato il regista romano nell’Olimpo dei grandi autori. Tradito dal suo amico migliore e abbandonato dalla donna della sua vita, Noodles (Robert De Niro) si rifugerà nel sogno del passato e, forse, si prenderà una piccola rivincita…

Ancora saluti

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