SETTANTA

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DI HS
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In questi ultimi anni nell’ambito del complessivo panorama letterario italiano riconducibile soprattutto al genere “poliziesco”, “giallo” e”noir” si è assistito ad una proliferazione di romanzi ambientati nell’Italia degli anni Settanta e Ottanta. I motivi di questo rinnovato interesse letterario per quel periodo piuttosto turbolento e convulso della nostra storia sono diversi e disparati, spesso inconciliabili fra loro. C’è la semplice voglia di raccontare con altri strumenti una storia che ci appartiene e ci tormenta ancor oggi senza farsi incastrare dalle trappole “metodologiche” di un saggio rigoroso. C’è il desiderio di ripercorrere il filo di quegli anni, di ricostruire sulla distanza e a mente fredda un contesto tanto complesso. C’è la volontà di comunicare dati e fatti per un’altra strada, non propriamente “convenzionale”, chè altrimenti non sarebbe proprio possibile. C’è la semplice voglia di costruire un romanzo poliziesco avvincente partendo da dati e fatti che si prestano ad essere utilizzati e reinventati a tal guisa. Dalla parte del pubblico, e penso anche a quello più giovane, non dovrebbe mancare una certa curiosità per il contesto “storico” che avvolge queste storie poliziesche, criminali e violente. D’altronde, a ben guardare, aveva forse ragione il politologo Giorgio Galli quando qualche anno fa scrisse che per comprendere parte della storia d’Italia occorre adottare concetti e categorie tratti dalla criminologia. La nostra è in gran parte una storia di misteri, crimini e violenze che la “buona coscienza democratica” tende ad occultare come se si trattasse di un enorme tabù collettivo, per tacere degli occultamenti e degli insabbiamenti interessati. Se la saggistica e la pubblicistica con tutti i loro limiti fanno quello che possono, spesso tocca proprio alla forma “romanzesca” e alla fiction letteraria restituire la parvenza di un’anima e conferire alla storia e alla gelida cronaca pulsazioni, emozioni e tensione vibrante.

Come ci si può aspettare i risultati sono alterni e ad incursioni riuscite si avvicendano quelle facilmente dimenticabili. Personalmente ho sempre avuto qualche perplessità circa la trattazione in forma di romanzo degli anni forse più sanguinosi della Repubblica – per non dire difficile – e vi ho scorto il rischio di confondere materiali scottanti come le stragi impunite e il terrorismo reali con l’esigenza dello spettacolo tradotta sulla carta stampata. In fondo molte ferite non si sono ancora comprensibilmente rimarginate soprattutto dalla parte delle famiglie delle vittime a lungo trascurate mentre spesso si è cercato di imporre all’agenda politica il tema dell’amnistia per i reati di terrorismo e stragi. Non c’è, dunque, il pericolo di offendere le coscienze facendo spettacolo sui lutti oltre che quello di offrire al lettore l’immagine di una realtà distorta e, in definitiva, falsata di quegli anni ? Per dirla in breve, non si presenta forse l’insidia di un “virtuale” che, ancora una volta, inghiotte il “reale” ?

Ho recentemente letto l’ultima fatica letteraria da imputare a questo indefinito genere e, devo ammetterlo, le sorprese non sono mancate, perché “Settanta” del giovane Simone Sarasso costituisce un “C’eravamo tanto armati” di notevole impatto, la versione pulp di “Romanzo criminale”, il celebre romanzo – saga sulla banda della Magliana partorito dal giudice scrittore Giancarlo De Cataldo, ad oggi il miglior esempio dell’intero genere.
Molto più che nel primo romanzo della sua trilogia ambientata nella Prima Repubblica dal dopoguerra a Tangentopoli, Sarasso, che appartiene ad una generazione imbevuta di pulp, di pop e di “tarantinate” cinematografiche e non, ha avuto l’accortezza di utilizzare con perizia linguaggi e stili diversi, letterari ma anche cinematografici e fumettistici senza perdere il filo della narrazione e una certa precisione nella costruzione dei ritratti psicologici e fisiologici. Ritengo che con “Settanta” Simone Sarasso si sia consacrato come sapiente e accattivante scrittore postmoderno, indicando con tale etichetta l’abilità nel cimentarsi con una “scrittura spuria” di molto debitrice alla contemporanea cultura “delle immagini” (televisiva, cinematografica, fumettistica, telematica, ecc…). I periodi e le frasi sono brevi e si susseguono vertiginosamente e serratamente. La tensione è palpabile e la suspence impregna di sé diverse pagine senza lasciare tregua al lettore. Si vedano le sequenze della strage alla stazione di Bologna e quella della sparatoria fra carabinieri e brigatisti. Ma la lettura non soddisfa solo i “palati forti”, coloro che cercano l’evasione nelle emozioni forti, perché “Settanta”, pur orchestrato con le cadenze di un poliziesco o di un thriller, riesce ad evocare il clima plumbeo ed efferato di quegli anni. Niente viene risparmiato in questo arazzo, c’è proprio tutto: il golpismo palese e strisciante, le trame del Palazzo quasi a rimando dell’efficace metafora pasoliniana, il terrorismo coperto e quello palese, gli estremismi di vari colori, una mafia sempre più proterva e in grado di dettare legge, lo strapotere di una ben nota loggia massonica con potenti agganci argentini, una nuova criminalità comune spietata e sanguinaria partorita dai contesti metropolitani, i gruppi di potere contigui con la criminalità organizzata, la divisione ed il conflitto fra “polentoni” e “terroni”, l’efferata repressione poliziesca, gli alloggi occupati, gli scontri di piazza, la violenza di una gioventù che dietro le etichette ideologiche è sempre più sbandata e confusa, ecc… Nella prima parte, soprattutto, il giovane scrittore rivela una mano felice nella descrizione dei vari contesti locali e territoriali dell’Italia di quegli anni.

Certo chi spera di trovare nella pagine di “Settanta” l’interpretazione “definitiva” delle cause e delle responsabilità nei crimini più efferati della storia repubblicana rimarrà deluso se si ostinerà a mantenere un tale approccio di lettura. Nel volume ci sono piazza Fontana, il golpe dell’Immacolata, la rivolta di Reggio, la strage alla Questura di Milano, la morte dell’editore Feltrinelli, l’Italicus, la strage di piazza della Loggia a Brescia, il Settantasette, il caso Moro, l’irruzione dei carabinieri nel covo brigatista di via Fracchia e la strage della stazione di Bologna.
I personaggi rimandano all’onorevole Andreotti, ad Aldo Moro, al Venerabile Licio Gelli, al principe “nero” Junio Valerio Borghese, Henry Kissinger, al generale dei carabinieri Dalla Chiesa, al mafioso catanese Di Cristina, al terrorista “nero” Delle Chiaie, all’ambiguo capo brigatista Moretti, alla brigatista in “crisi” Braghetti, al bandito milanese Vallanzasca, ecc…

Il tutto viene reinventato come ribadito nella postfazione dall’autore mantenendo però l’autenticità dei Settanta italiani nel clima e nel contesto tanto che, scorrendo le pagine, si ha veramente l’impressione di venire proiettati in quell’Italia. Alla fine “Settanta” si impone soprattutto come il paradigma, la pietra di paragone della storia dello Stivale: un paese che non ha mai conosciuto l’innocenza. Nel deserto istituzionale si affermano coloro che sanno meglio giocare con il “Potere”, lo Stato o quel che ne resta cova in seno le sue serpi, nelle regioni meridionali le mafie dominano incontrastate, alla consueta violenza poliziesca e repressiva fanno da contraltare estremismi altrettanto violenti se non di più e più in generale la violenza ormai quotidiana assume tratti sempre più allucinati. Così “Settanta” gronda nichilismo e disperazione in un crescendo che, pagina dopo pagina, non risparmiano nessuno. Cinismo ed amoralità, rabbia e sadismo la fanno da padroni.
La poetica di Sarasso ben si adatta al genere noir, anzi neonoir a tinte assai fosche. Nella forma di racconti di poliziotti, gangster e criminali, i noir sono pervasi e attraversati da un senso di ineluttabilità e di sconfitta che accompagnano ogni fase della narrazione. I loro personaggi disincantati e rassegnati, destinati alla perdizione sono discendenti degli eroi delle tragedie greche.

Non fanno certo eccezione i quattro protagonisti di “Settanta”: se l’integerrimo e ambizioso giudice Domenico Incatenato, onesto servitore dello Stato, precipiterà nell’incubo rappresentato dal lato oscuro e criminale di quelle istituzioni che lui stesso è chiamato a servire; Ettore Brivido, delinquente spietato ma con un codice d’onore personale, smarrirà la sua integrità personale ponendosi al servizio di uno “stragista” al servizio del Palazzo…
Dei quattro il personaggio meno “noir” e più “pulp” – e per questo a mio modo di vedere meno in sintonia con il climax del romanzo – è proprio Andrea Sterling, già protagonista del precedente “Confine di Stato”, una sorta di Terminator, una macchina da guerra e di morte forgiata da anni di vessazioni e violenze mentre un discorso a parte merita Nando Gatti, palese e dichiarato omaggio ai film poliziotteschi italiani e alla più famosa icona del genere, il compianto Maurizio Merli. Ce ne occuperemo trattando il versante “cinematografico” dell’opera di Sarasso.

Per chiudere il discorso sui personaggi pure le figure “minori” sono tratteggiate con pennellate tipicamente noir. Ad esempio l’onesto ma spregiudicato colonnello dei carabinieri Brasco si inginocchia al cospetto di un Potere corrotto e criminale per combattere il terrorismo brigatista, mentre la brigatista Livia che pure è tormentata da sensi di colpa e rimorsi non abbandonerà mai quella scelta della lotta armata che la condurrà alla devastazione psicologica.
Ad ogni modo i colori e le valenze più caratteristiche del noir ci sono tutte: il confine sempre più sottile fra legalità ed illegalità con funzionari e rappresentanti dello Stato che, o adottano comportamenti poco ortodossi o sono criminali essi stessi; la predestinazione dei personaggi piuttosto chiara già dalle prime pagine nonostante i colpi di scena, l’inevitabilità della sconfitta a cui ciascuno andrà incontro, la carica di violenza che contagia i protagonisti, ecc…

Con accortezza l’autore conferisce alla materia noir la crudezza necessaria premendo l’acceleratore sulla visceralità dello stile e nel tratto dei personaggi. La carne riveste un’importanza primaria nei percorsi dei protagonisti dei quali vengono esaltati i tratti via via sempre più animaleschi e istintuali. Nelle loro scelte non si ravvisa l’esito della ragione o il percorso dell’ideologia e, forse anche per questo, non si tratta di scelte autentiche e sofferte. Ognuno segue la sua natura e la sua vocazione lungo una strada che non potrà fare altro che perderlo… La pelle e la carne riempiono di sé innumerevoli pagine. Sangue, sesso, sudore, odori, vomito e merda… Tutto questo rappresenta la cifra della sofferenza anche interiore degli antieroi di “Settanta”. Per tacere poi della violenza degli squartamenti, dei pestaggi e degli effetti splatter delle sparatorie, concessioni dovute ma nonostante tutto controllate e rese efficacemente da Sarasso. E sorprendentemente in questa mostra degli orrori e di sacrifici sull’altare dell’ordine e della stabilità affiora l’occhio pietoso e commosso dell’autore. Si leggano attentamente le pagine dedicate a piazza della Loggia, alla scorta di Moro e alla strage alla stazione di Bologna…

L’empatia e il punto di vista delle vittime di quegli attentati sciagurati sono state tradotte con un efficacia che ha pochi eguali. Ognuna di queste vittime è innocente perché ignara di quella assurda guerra fra bande dentro e fuori lo Stato che si stava combattendo. Guerra fra bande, quindi, mai dichiarata e combattuta con metodi da far invidia ai gangster d’alto bordo… In tal modo la pietas e la partecipazione commossa bilanciano l’ambientazione noir e gli effetti pulp. Sotto le spoglie di ragazzaccio cool, Sarasso ha un cuore che pulsa a duecento all’ora ?
Così, deposto anche solo per un attimo il nichilismo molto postmoderno e contemporaneo, cerca di indicare la strada per poter finalmente e serenamente liberarsi della zavorra di un passato che pesa assai sul presente, forte probabilmente di un’età che gli consente di guardare a quegli anni con un maggiore distacco senza rinunciare alla memoria e alla commozione.

Un altro tratto saliente dell’opera è il ricorso alle frequenti citazioni cinematografiche, oltre a quelle delle canzoni italiane dei cantautori di quel tempo. Il riferimento è – e non poteva essere altrimenti – il cinema spettacolare violento e ultraviolento degli anni Settanta con le sue pellicole più significative. Quasi naturalmente viene citato il film manifesto dell’ultraviolenza, quel “Mucchio selvaggio” dell’insuperabile maestro e poeta del genere Sam Peckinpah che in questo capolavoro, il suo più noto, realizzò il massacro cinematografico spettacolare perfetto mai più eguagliato nella storia del cinema nonostante siano trascorsi quarant’anni. Montaggio alternato con ralenti e improvvise accelerazioni in un’interminabile danza di piombo e sangue.. Azzeccato, poi, è il rimando ad “Apocalypse now” di Coppola e Milius – tratto a sua volta dal capolavoro letterario “Cuore di tenebra” del grande Conrad attraverso la figura del colonnello Kurtz che in “Settanta” è anche ispirato al comandante della X Mas Junio Valerio Borghese, che può aver avuto un ruolo tutt’altro che secondario nella formazione di GLADIO.

Come nel film di Coppola e Milius il personaggio interpretato da Marlon Brando si metta alla testa di un esercito personale per combattere i vietcong suscitando preoccupazione negli alti gradi dell’esercito americano così anche quello creato da Sarasso persegue una crociata privata contro i comunisti non del tutto condivisa da americani e politici italiani. Ci sono poi echi dai film di Scorsese: come quelli del celebre “Taxi driver” – anche nello stesso personaggio di Nando Gatti – o da “Quei bravi ragazzi” nella descrizione dell’idiozia criminale dei delinquenti complici di Ettore Brivido. In questo caso siamo anche nei dintorni dei primi film gangster di Quentin Tarantino il quale d’altronde ha ampiamente saccheggiato dalla cinematografia dell’autore italoamericano preferito da Robert De Niro. La violenza giovanile descritta non può fare a meno del contributo di “Arancia meccanica” del grandissimo Stanley Kubrick il quale tradusse in immagini un breve romanzo di Burgess molto pulp per i tempi, nella dovizia di particolari con cui immortalava le gesta del giovane teppista Alex e la sua edonistica orgia di sesso e violenza. Insomma, con gli anni Settanta la violenza diventa anche realmente cinematografica e solo a partire da quegli anni, o meglio, dalla fine degli anni Sessanta, si può realmente parlare di violenza cinematografica rappresentata in maniera ambiguamente spettacolare.

Se il western all’italiana di Leone stava ormai volgendo al tramonto, prendeva piede un certo genere poliziesco all’insegna del vigilantismo (si pensi all’ispettore Callaghan di Eastwood e al giustiziere della notte di Bronson) e lo stesso poliziottesco italiano – che Sarasso vuole omaggiare -, oltre che aggiornare il western spaghetti alla nuove angosce ed ansie contemporanee, era parecchio debitore delle pellicole che avevano Eastwood e Bronson per protagonisti.
Presso i cinema si moltiplicavano fenomeni di identificazione e di emulazione specie all’uscita dei cinema che proiettavano le pellicole di arti marziali interpretate da Bruce Lee. Per la prima volta nella storia dell’industria cinematografica il confine quasi sacro fra realtà e finzione tendeva a farsi più imprecisato e sfumato e, da allora, il virtuale si è sempre più insistentemente insinuato nel reale. Con una ironia feroce e piuttosto sottile il nostro Sarasso ha spostato l’attenzione dallo spettatore all’attore: Nando Gatti, poliziotto alla Maurizio Merli nelle pellicole poliziottesche, si identifica progressivamente con il Commissario che interpreta e scivolando nella follia. Sardonica metafora della pazzia di ieri e di oggi ? Di sicuro c’è che fra tutti i protagonisti di “Settanta” quello del giovane attore è insieme il più patetico e il più ridicolo insieme… Non so quanto consapevolmente ma Sarasso finisce per interrogarsi sul rapporto fra spettacolo e società nella nuova Italia postmoderna e metropolitana. Un discorso tutto da approfondire su certi meccanismi ambigui ed incerti… Da interviste e testimonianze sappiamo che militanti delle Br e di Prima Linea amavano film come “Il mucchio selvaggio” o come “Giù la testa” di Sergio Leone e mimavano quasi i violenti eroi ed antieroi ribelli di questi film. Sul versante dei giovani estremisti “neri” non credo che le preferenze fossero moto diverse. Magari ai western anteponevano la visione di polizieschi e film d’azione di violenza urbana. Comunque, al di là delle ideologie, i giovani erano (sono) attratti dai film e dagli spettacoli dominati dall’ultraviolenza spettacolare cercando alle volte di imitare quanto visto sullo schermo. Cinema americano – ma anche popolare ed italianissimo – di genere… La vita non è indipendente dalla finzione… Lo stesso Quentin Tarantino quasi a suggello della poetica pulp ebbe ad ammettere non senza una punta di ironia “Se non fossi diventato regista sarei stato un serial killer !”.
E’ proprio l’ironia, seppure con venature molto amare, a soccorrere anche il nostro Sarasso che, ancora una volta, ponendo all’attenzione del lettore tali tematiche riporta al centro della narrazione la carne e la pelle.

In conclusione un romanzo da non perdere per coloro che, insieme, vogliono perdersi nel brivido dell’azione e lustrare lo specchio per guardarsi e per guardare come eravamo e come, in fondo, siamo. Fra De Castaldo e la scrittura allucinata ed allucinatoria di Genna, con un occhio allo scrittore più sviscerato dal poliziottesco cinematografico, quel Scerbanenco che certo non sarebbe dispiaciuto a Tarantino, Simone Sarasso e il suo “Settanta” una promessa più che mantenuta…

Buona lettura

HS
Fonte: www.comedonchisciotte.org
13.11.2009

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