PERCHE’ LA LETTERATURA FA INCAZZARE

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DI GIANLUCA FREDA

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“Egli rappresenta un ideale che nessuno deve sforzarsi di raggiungere perché chiunque si trova già al suo livello. […] Egli dice ai suoi adoratori: voi siete Dio, restate immoti”.

(Umberto Eco, Fenomenologia di Mike Bongiorno)

Negli Istituti Tecnici, l’evento più drammatico che possa capitare ad un insegnante di italiano all’inizio di un anno scolastico è vedersi assegnato ad una terza superiore. Finché si insegna nel biennio, se si sorvola sulle esuberanze degli allievi appena graziati dalle medie, tutto fila relativamente liscio. Si rifrigge un po’ di analisi logica e del periodo, già salmodiata in tutte le tonalità alle elementari e alle medie, si assegna qualche emozionante temino sulla droga, sulla fame nel mondo o sull’emancipazione-della-donna-nella-moderna-società-occidentale e ci si ritrova in un battibaleno a maggio, con un corpo studentesco equamente suddiviso tra secchioni e citrulli senza speranza, ma serafico e pago.

Qual mormorio soave, si propaga nei cerebri studenteschi l’insana persuasione che l’italiano sia una materia “facile”: che basti analizzare il complemento di termine e la proposizione concessiva in un po’ di balbe frasette, innalzare qualche straziante melopea in puro inchiostro BIC al lavoro minorile dei miserandi negretti dell’Africa© (di quale nazione dell’Africa, esattamente, non si sa: gli allievi tendono a ridurre la specifità geografica a categoria kantiana) per vedere materializzarsi tra le dita, quale sacra Vibhuti, la sufficienza agognata. Dopo di che resta solo matematica da recuperare.

Ma quando si arriva in terza, ove la ministerial barbarie impone lo studio della storia della letteratura, la musica cambia. Luttuosamente, gli allievi realizzano che il dolce far niente è finito. Ora occorre leggere opere di autori veri, non piagnucolose storielline su miserrime femmine musulmane dagli occhi pesti, corredate di queruli arpeggi antologici. Occorre parafrasare Dante, Petrarca, Guinizzelli, Jacopone, analizzarne il lessico, soppesarne la struttura rimica, metrica e strofica, determinare la funzione delle specifiche scelte fonetiche, identificare le figure retoriche e la loro valenza nell’economia complessiva del testo, distinguere ipotassi e paratassi, ipàllagi e anastrofi, comprendere il legame storico e culturale del componimento con la sua epoca, infine collegare le scelte stilistiche e contenutistiche di ogni autore ad altre opere, tentando di ricostruire la collocazione dell’opera stessa nella catena testuale.

Qui cominciano i pianti, gli alti lai, il gemente cordoglio, il compianto de’templi acherontei. Gli alunni diligenti allibiscono, quelli somari ragliano in coro, con fragoroso strepito, la loro indignazione. Torme di genitori in tenuta da guerra o, a fasi alterne, da pellegrinaggio a Pietralcina, giungono a schiere, recando velate minacce o plorazioni accorate. I più cialtroni (o “ribelli”, come li chiamano i cialtroni loro simili) danno il via al boicottaggio delle lezioni, all’assenteismo pianificato, al sabotaggio delle verifiche. I più fessi pensano di cavarsela scopiazzando analisi precotte dall’immancabile telefonino e vengono regolarmente sgamati. E’ la fase in cui è più semplice distinguere i docenti ignoranti e calabrache, che cedono alle pressioni e tornano al piagnucolìo sui burqa e sull’infanzia rubata, dai docenti veri, che dicono: si fa così e punto.

Ma se il terrore degli allievi usi alla nullafacenza è comprensibile, più difficoltoso è capire perché, come recentemente sperimentato proprio su questo sito (qui e qui) anche nei forum telematici la letteratura e i letterati producano effetti assai simili. Finché si cazzeggia in libertà, tra un bicchierino e l’altro, di simboli fallici in Shakespeare, finché si rimestano col ramaiolo, in un’unica broda, Petronio e Catullo, spruzzandoli con fiotti robusti di Caravaggio e Velazquez, fino a ridurli a una pappetta indistinta di simboli grafici senza referente, allora la letteratura e l’arte sono tollerate. Ma nel forum come in classe, l’apparizione inopinata di un’analisi letteraria ponderata, o peggio, di un docente di letteratura non improvvisato, scatenano dapprima la pietrificazione stupefatta, poi lo sconcerto, infine l’ira più ferina tra gli astanti. Come mai accade questo? Perché la letteratura, ove non annacquata dalla blàtera sciolta, fa incazzare così tanta gente? Mi sono dato le seguenti risposte, che ho riunito, per comodità, in decalogo numerato.

1) La letteratura non è per tutti: l’ascesa del proletariato e dei ceti medi, realizzatasi a partire dalla seconda metà dell’Ottocento, aveva portato i ceti popolari a sfruttare la forza acquisita con le lotte per impadronirsi di quelli che, per secoli, erano stati gli odiati vessilli e simboli del nemico: la letteratura, l’arte, la cultura, le scuole, le università. Tutto ciò che era stato visto come segno distintivo della classe borghese, era ora in potere delle masse contadine e operaie. Le quali, tuttavia, non sapendo né maneggiare la letteratura, né innovarla, né tantomeno crearne una propria che fosse presentabile, si sono limitate a giochicchiare con il suo pregevole tessuto, a ridurlo a citazionismo becero, a ricavarne nastrini e volant da indossare sul vestitino della festa per farsi ammirare dagli amici. Ora che la carrozza fatata del proletariato è tornata ad essere una zucca, la fata borghese torna a riprendersi il suo bel vestito. L’insegnante di letteratura è il funzionario incaricato di dire ai ceti popolari che non possono più utilizzare i testi letterari come strofinaccio: o studiano e acquisiscono le alte competenze necessarie a portarli addosso con la dovuta eleganza e il dovuto rispetto, o tornano a indossare i sacconi di tela e gli zoccolacci di sambuco che hanno rimarcato per millenni la loro storia. Non deve stupire, dunque, che tali funzionari siano bersaglio di odio feroce.

2) Un vero testo letterario è un meccanismo complesso: la sua densità semantica, le sue possibilità interpretative, le informazioni in esso contenute, i diversi significati di cui esso è capace di colorarsi attraverso le epoche, la sua capacità di offrire al lettore uno scorcio su visioni della realtà profondamente differenti dalle consuete, i dati che esso ci fornisce sulla realtà storica, sociale, economica, politica, ecc. in cui è stato prodotto, non possono essere colti attraverso una lettura distratta. Si può coglierli solo attraverso un’opera attenta e faticosa di analisi, che non tutti sono in grado di compiere o disposti a compiere. L’occhio allenato dell’insegnante di letteratura distingue agevolmente gli abili all’opera dagli inabili, relegando esplicitamente o implicitamente questi ultimi in una classe intellettiva secondaria. Da ciò nasce, prorompente, la sua fama di negriero e l’odio dei meno dotati nei suoi confronti.

3) La letteratura non ammette superficialità: a causa della sua complessità, il testo letterario deve essere oggetto di un giudizio critico motivato per esteso, nel dettaglio e con estrema precisione e chiarezza. Ciò rende furente il proletariato dei social network, abituato ad esprimere con la mera dicotomia “mi piace” – “non mi piace” la propria prospettiva sull’universo (e senza nemmeno dover scrivere queste poche lettere di proprio pugno). L’esistenza di una sfera dello scibile sottratta al giudizio sommario istantaneo della comare e del pescivendolo e che richieda la trasformazione di questi ultimi in esseri raziocinanti per poter essere pronunciato, rappresenta una limitazione intollerabile di sovranità, alla quale la comare e il pescivendolo reagiscono con vano furore guerriero.

4) Il testo letterario ci pone a confronto con un’alterità spesso radicale: esso ci costringe a dialogare con culture, visioni del mondo, categorie di pensiero, strutture sistemiche, riferimenti etici, completamente diversi dagli attuali. La nostra prospettiva ne risulta profondamente relativizzata: il nostro sistema, i nostri valori, la nostra configurazione sociale, dunque, non rappresentano l’unico mondo possibile. Sono esistiti ed esistono altri mondi e altre prospettive che, per avere un proficuo rapporto col testo, dobbiamo imparare a conoscere. Ogni anno devo spiegare alle mie studentesse che il Boccaccio non dedica il Decameron alle donne perché desideri “emanciparle”; che il concetto di “emancipazione della donna” scaturisce da contingenze produttive e non etiche ed è stato elaborato per ovviare alla carenza di manodopera nelle fabbriche, dopo la rivoluzione industriale. Al contrario, Boccaccio è convinto che le donne stiano benissimo dove sono (relegate nelle loro stanzette a leggere e filare); vuole soprattutto sfruttarle come “target” ideale della nuova letteratura borghese, della quale egli è, se non l’iniziatore, almeno il codificatore. Ciò genera nelle mie allieve perplessità e differenti reazioni: comprensione nelle più intelligenti, indignazione berciante nelle oche mestruate.

5) La letteratura decentralizza: essa ci rivela che non siamo il momento più alto, luminoso e assiomatico dell’evoluzione umana, bensì un momento qualsiasi, i cui connotati etici di riferimento sono legati a contingenze politico-economiche in continuo mutamento. Se prestiamo attenzione, scopriamo che tali connotati hanno più a che fare con la configurazione economica e produttiva del periodo storico in corso che con pulsioni o ideali connaturati all’indole umana. E’ un principio banalissimo per chi ha letto e digerito Marx, ma che coglie spesso di sorpresa il fruitore sonnacchioso dell’informazione giornalistica e televisiva. Costui, se è un tipo sveglio, si rende conto ben presto che valori etici e sociali creduti immutabili vengono in realtà generati e diffusi dai sistemi d’indottrinamento propagandistico che le elite dominanti di ogni epoca storica approntano e gestiscono per i propri scopi; uno legge ad esempio “Germinal” di Zola e inizia a chiedersi perché certe “repubbliche” siano fondate sul lavoro, e perché, per che cosa e per chi si dovrebbe lavorare. Se trova la risposta, l’incazzatura è inevitabile. E’ una fortuna per l’ordine sociale che siano in pochi a porsi domande o anche soltanto a saper leggere. O forse non è una fortuna, ma solo l’ennesimo progetto ben attuato.

6) La letteratura è memento dell’impermanenza: prima che ci pensasse la stessa geopolitica, sarebbe bastato un qualsiasi testo letterario a ridicolizzare l’illusione di “fine della storia” propugnata da Francis Fukuyama. Leggendo un testo, scopriamo che non solo l’uomo e le sue strutture materiali, ma anche le configurazioni di potere, le reti di relazioni economico-sociali, tutta la complessa elaborazione della mente che siamo soliti chiamare “realtà” è soggetta ad alterazioni e mutamenti profondi. La mente umana è fluida e in continuo divenire e con essa si trasforma la realtà che da essa scaturisce. Ogni testo è prova che il mondo in cui viviamo non è fatto di sola materia, ma è un palazzo le cui mura sono composte in gran parte di idee. Di tanto in tanto, nuove idee poderose, veicolate dalla narrazione, sconvolgono il nostro modo di pensare al mondo e a noi stessi, distruggendo le vecchie strutture mentali e riconfigurandole su nuovi parametri. Lo stesso testo letterario è impermanente e assume valenze, significati, contenuti completamente cangianti col variare delle epoche e del pensiero. La letteratura è un messaggero dell’Apocalisse: annuncia nuove visioni della realtà affinché vecchi mondi scompaiano tra le fiamme e nuovi ne prendano il posto. Chi potrebbe non averne paura?

7) La letteratura costringe a crescere: nessuno può accostarsi ad un’opera strepitando, come un moccioso, la sua percezione del mondo e tentando d’imporla sulla lettera del testo. Ogni testo è un’entità che insegna il rispetto verso l’altro: esige di essere ascoltato con attenzione, in ogni sua parola, prima che l’atto ermeneutico sia possibile. Esso strappa l’uomo della strada alla sua illusione puerile di compiutezza. A differenza del Mike Bongiorno della “Fenomenologia” di Eco, ogni opera letteraria ricorda al suo interlocutore che egli non è Dio, che non è perfetto, che non è eterno, che non è al centro dell’universo e nemmeno del suo ristretto habitat sociale. Lo spinge a confrontarsi con la propria mortalità, con l’incompletezza delle proprie conoscenze, con la necessità di un percorso malagevole, doloroso e prolungato perché sia possibile, forse, pervenire un giorno ad una qualche maturità epistemologica. La letteratura ci costringe ad abbattere le strutture mentali candide e rudimentali della nostra infanzia e ad elaborarne continuamente di nuove e più complesse, abituandoci, strada facendo, alla mutevolezza incessante delle cose. Ci costringe ad imparare a parlare e ad esprimerci con proprietà per poter interloquire con lei. Essa esige lo svezzamento dell’individuo: la capacità di staccarsi per sempre dal seno dell’autorità e della propaganda e di acquisire capacità autonome di comprensione del mondo, fondate sull’attenzione all’altro, sul rispetto, sull’ascolto. In due parole, accostarsi alla letteratura impone a chiunque un salto verso la maturità.

C’è da stupirsi che in un mondo di adulti senza ormai altro desiderio che quello di restare bambini, essa sia la più detestata delle maestre?

Gianluca Freda

Fonte: www.comedonchisciotte.org

6.06.2016

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