PARLANDO DI POLITICA: NOAM CHOMSKY SUL MONDO ACCADEMICO E LA POLITICA ESTERA USA

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Chomsky


FONTE: WORLDPOLICY.ORG

Descritto come il “Padre della Linguistica moderna”, Noam Chomsky ha trascorso più di 50 anni sia come filosofo analitico, sia come un convinto (ma non per questo meno influente) critico della società e della politica. I sui lavori sull’acquisizione del linguaggio e la teoria della grammatica generativa hanno contribuito allo sviluppo della scienza cognitiva, della psicologia evolutiva, dell’informatica e della teoria musicale. Politicamente Chomsky ha trascorso la sua carriera impegnato in rigorose analisi del potere, affrontando i meccanismi che lo Stato utilizza per la persuasione popolare e l’aggiramento del diritto internazionale. È stato un critico inflessibile dell’utilizzo illegittimo del potere statale e dei metodi con cui i media sopprimono e deformano il dibattito popolare. Eppure, nonostante una tale critica negativa della politica, Chomsky rimane anche un incrollabile sostenitore della creatività umana e della libertà individuale, sperando, attraverso il suo lavoro, di poter fornire conoscenze ed aiuto che incoraggino l’impegno politico attivo in una cittadinanza atomizzata ed allontanata dalle politiche governative. Joshua St. Clair del World Policy Journal è andato a Cambridge per incontrare il professore nel suo studio al MIT (Massachusetts Institute of Technology) e discutere con lui della sua carriera, dei ripetitivi schemi della politica estera degli Stati Uniti e della situazione della cittadinanza americana.

WORLD POLICY JOURNAL: vorrei cominciare apprezzando il suo lavoro che non rientra in quello con cui i nostri lettori probabilmente hanno maggiore familiarità – i suoi scritti sulla politica estera degli Stati Uniti ed i media – e fare un accenno alla sua carriera nella linguistica. Questi due campi si comportano come fronti differenti della sua carriera accademica. Da un lato c’è la sua linguistica/filosofia della mente e d’altro ci sono i suoi scritti sulla politica. Molti commentatori desiderano stabilire una connessione tra queste due aree. Nel corso degli anni lei ha fatto notare come questi due settori abbiano solo una tenue connessione. È cambiato qualcosa?

NOAM CHOMSKY: [scuotendo la testa] C’è una connessione astratta di un certo interesse storico (ne ho scritto a proposito). Se guardi al passato, diciamo all’Illuminismo – quel periodo e gli inizi del Romanticismo – c’erano tracce di connessione. E non sono del tutto senza fondamento. C’è un concetto fondamentale che si sviluppò nel pensiero illuminista all’inizio del XVII secolo, sul fatto che la creatività sia un elemento chiave della natura umana. Il linguaggio umano è sempre stato inteso come la base, l’elemento essenziale della natura umana, la distinzione fondamentale tra gli esseri umani e gli altri. Nelle sue fondamenta c’è una sorta di capacità creativa. Il genere di cose che stiamo facendo per esempio, che sono sconosciute nel resto del mondo animale, è la creazione illimitata – prima di tutto – di pensieri e di espressioni di pensieri che sono in termini cartesiani quelli che siamo incitati e spinti, ma non costretti, a produrre, che sono adeguati alle situazioni, ma non costretti da esse, e che sono illimitati nella loro portata. Gli altri capiscono questi pensieri e quello stesso concetto – che la natura umana fondamentale abbia nel suo nucleo una dedizione alla creatività indipendente – dal quale ne consegue (da Rousseau e altri) che qualsiasi istituzione che limiti l’indipendenza umana abbia un pesante fardello di prove da sopportare. Ha ispirato il liberalismo classico sulla successiva filosofia ultraliberale. Quindi c’è un vago collegamento.

WPJ: Qualcuno è arrivato addirittura a suggerire che il suo lavoro in entrambi i campi potrebbe essere utilizzato per generare una “teoria dell’uomo” – lei forse cerca di evitare questo approccio metodico nelle sue riflessioni.

NC: Una teoria generale degli esseri umani – non so nemmeno cosa significhi. Abbiamo una teoria delle api? Gli esseri umani sono oggetti molto complessi. La loro caratteristica centrale che li ha distinti dagli altri animali è stata probabilmente l’emergere del linguaggio – fornendo uno strumento che genera pensieri senza limiti, la creatività. Se dai un’occhiata alle testimonianze archeologiche, nel periodo in cui è emerso l’Homo sapiens (forse 200.000 anni fa) ci sono prove abbastanza evidenti che insieme ad esso sia arrivato anche il linguaggio, forse un po’ più tardi, ma non di molto. E da quel momento si iniziano ad avere testimonianze di complesse attività creative, che vanno dalla fabbricazione di utensili ed oggetti rappresentativi alle decorazioni simboliche, tutte cose che non si vedono altrove nel mondo degli ominidi – certamente non nel mondo animale. Da tutto questo deriva il resto. Siamo semplicemente una specie davvero unica e questo probabilmente ne è l’elemento fondamentale.

WPJ: Lo studio della lingua allora ha una componente politica?

NC: Non direttamente. Qualsiasi cosa che riguardi gli esseri umani avrà delle conseguenze sulla vita umana. In passato si credeva (ed in molti settori lo si fa ancora) che alcune lingue siano inferiori, altre siano superiori, che l’inglese dei neri non sia un vero linguaggio e così via. Tutto questo ormai è superato, perlomeno tra le persone che sanno qualcosa di linguaggio. Gli esseri umani sono incredibilmente simili. Alcuni biologi ti faranno notare che se dai un’occhiata ad un albero all’esterno e ci vedi sopra due scoiattoli grigi che hanno vissuto sopra o vicino a quell’albero per tutta la vita (come pure i loro antenati e così via) e li studi geneticamente, scoprirai che sono più diversi di quanto lo possano essere due esseri umani qualsiasi presi in posto qualsiasi nel mondo. Geneticamente gli esseri umani sono estremamente uniformi e cognitivamente sembrano essere identici. Prendi, diciamo, la capacità linguistica – una capacità umana fondamentale. Per quanto ne sappiamo è identica tra tutti i gruppi umani. Esistono differenze individuali, ma non differenze di gruppo. Queste sono scoperte significative dell’ultimo secolo, che hanno un significato politico e sociale.

WPJ: Solo in termini astratti?

NC: Questi non sono i veri risultati della linguistica. Il linguaggio è sempre stato considerato come un fenomeno estremamente complesso, molto diversificato; le lingue differiscono l’una dall’altra [solo] in modi arbitrari. Torna indietro, diciamo, di 60 anni e leggiti delle pubblicazioni specializzate: la letteratura tecnica ti direbbe che non c’è niente di generico che puoi dire del linguaggio; che con le lingue ciascuna deve essere studiata da sola, che possono variare in maniere arbitrarie, e così via. Ormai sappiamo molto bene che il linguaggio è praticamente fuso nella stessa forma, che le differenze sono piuttosto superficiali. Sono aspetti, le proprietà essenziali del linguaggio – come costruisci ed interpreti le espressioni che articolano i tuoi pensieri – che si ritengono essere piuttosto uniformi tra tutte le lingue. E probabilmente è, di nuovo, un riflesso dell’uniformità cognitiva degli esseri umani in generale.

WPJ: Le questioni [oltre la linguistica] con cui ha combattuto nel corso della sua carriera – i temi sui rapporti del potere, la manipolazione dei media, l’impegno civico
, etc. Questi non sono gli argomenti tipici della filosofia analitica. Molti hanno accusato quella tradizione dell’emarginarsi, dell’estromettersi dal discorso politico, le analisi sociali. Pensa che il lavoro accademico sia oscuro o esoterico?

NC: Dipende. Per esempio c’è un ottimo lavoro sulla propaganda di un giovane filosofo analitico molto bravo, Jason Stanley [1], che è appena uscito un paio di mesi fa. È una concreta analisi filosofica di come funziona la propaganda e così via. Non critico i filosofi analitici che lavorano su questioni arcane di epistemologia – che è importante e significativa. Ma ci sono molti altri [campi], per esempio la filosofia politica che è fiorita soltanto nell’ultima generazione, iniziando principalmente con il lavoro di John Rawls [2] che era qui ad Harvard nel 1960. E la sua “teoria della giustizia” ha generato una quantità enorme di lavoro che ha implicazioni molto significative per l’organizzazione della società e della politica e così via. Ma è un’opera serissima di filosofia analitica.

WPJ: Quindi l’altra estremità di queste tradizioni, postmodernismo/filosofia continentale, forse è stata più impegnata [socialmente e politicamente].

NC: Questo è il punto di vista generale, ma non lo condivido. Hai letto la letteratura postmoderna?

WPJ: L’ho letta.

NC: Hai letto Derrida, Lacan? [3][4]

WPJ: Sì.

NC: [sorride] Sai di cosa stanno parlando? L’idea che questo sia legato alla vita umana penso sia molta strana.

WPJ: Prima ha detto che alcuni di questi pensatori francesi hanno avuto effetti distruttivi nelle regioni del terzo mondo.

NC: Ciò che in gran parte penso sia accaduto nel terzo mondo è che [il pensiero postmoderno] abbia attirato i movimenti popolari – e questo è molto significativo nelle società povere, i paesi del terzo mondo. Hanno davvero bisogno di intellettuali impegnati. Questa tendenza nella vita intellettuale è così disabilitante, arcana, specializzata e remota; è quasi incomprensibile se non si fa parte del culto, e ne è la dimostrazione. Ed allontana gli intellettuali dal coinvolgimento diretto nelle lotte quotidiane di cui la gente ha bisogno. L’ho visto più e più volte.

WPJ: Ha visto che dirotta gli intellettuali da cause essenziali verso scritti oscuri?

NC: Sì. Voglio dire, l’hai potuto leggere. È come entrare in un altro universo per cercare di capire che cosa stiano cercando di dire le loro affermazioni. E non è perché siano complesse come certa fisica quantistica.

WPJ: Quindi è un problema di articolazione?

NC: Penso che sia un problema di pensiero, non solo di articolazione.

WPJ: Però si ha l’impressione che molti di questi pensatori si avvicineranno ad argomenti simili ai suoi – cercare di capire come i media stiano costruendo le informazioni o come funzionino i rapporti di potere. Gli argomenti sono simili.

NC: Prendi, per esempio, il lavoro sulla decostruzione. Ti ha dato qualche comprensione del modo in cui i media trattano eventi in corso?

WPJ: Penso che aiuti a favorire lo scetticismo.

NC: Scetticismo, certo. Ma dai un’occhiata e guarda soltanto a come gli eventi del mondo siano trasformati attraverso il prisma delle istituzioni ideologiche – fammi vedere delle comprensioni su come sia fatto davvero su particolari cose. Non riesco a vedere niente di tutto ciò; è solo una specie di discorso generale. Forse non c’è niente di vero, forse ovunque si dovrebbe essere scettici del potere. Ok, bravi, ma queste cose le sapevo già a 10 anni.

WPJ: Giusto. Invece di approfondire dei casi d’esempio e dimostrare –

NC: Dimostrarli. Mostrare come funziona. Mostrare quali sono i principi, su cosa si riflette. Esiste un’analisi vastissima sui media, ma non trae dal [pensiero postmoderno]. Prendiamo, se ce l’ho ancora qui [tira fuori il cestino, fruga tra le cartacce]. È arrivata stamane. Una delle migliori riviste (“Extra!” [5]). Eccola qui. Questa è una delle migliori riviste di analisi sui media; fanno un ottimo lavoro – davvero un buon lavoro informativo ed istruttivo. Chiedimi quanto di esso tragga dal pensiero postmoderno.

WPJ: Zero.

NC: Niente. Non saprei dirti. [fa una pausa] Non la sto buttando via perché penso faccia schifo [ride], ma perché l’ho già letta, è la prima cosa che leggo.

WPJ: Lei scrive sui metodi con cui queste realtà politiche diventano distorte – come gli interessi delle multinazionali o le élite manipolino le informazioni attraverso queste varie forme dei media. E che ciò che è necessario per superare questo è una sorta di impegno critico, di “senso comune”. Ci si chiede se forse questo non presuma troppo dal pubblico: è molto semplice per loro a condizione che li guardino in modo più critico, etc.

NC: Io non la penso così, non credo che tutto questo sia così profondo. Quando mi incontro, diciamo, con degli attivisti sindacali sono le stesse discussioni che faccio quando mi incontro con i ragazzi laureati ad Harvard. Spesso ne sanno molto di più grazie alle loro esperienze personali. Voglio dire, da bambino sono cresciuto in una comunità di operai in gran parte disoccupati che erano decisamente intellettuali, ho vissuto in mezzo ad una cultura elevata, che discuteva di Freud e Stekel, di diverse varietà di teoria marxista e di analisi di ciò che stava succedendo nel mondo. Molti di loro a malapena erano andati a scuola. Si tratta di questioni facilmente accessibili al grande pubblico.

WPJ: Pensa che oggi stia accadendo con gli operai americani?

NC: Le cose sono cambiate. È una delle impressionanti differenze che ci sono tra la reazione a questa crisi e gli anni della Grande Depressione, che posso ricordare [NdT: è nato nel 1928, oggi ha 87 anni]. Ora c’è solo un generale senso di impotenza: cosa possiamo fare? Ogni sera ricevo una dozzina di lettere da giovani persone che dicono: “Mi piacerebbe fare qualcosa nel mondo, cosa posso fare?” Allora fu molto diverso, la gente sapeva cosa fare. Era organizzata, c’era attività sindacale, c’erano gruppi politici e c’era un senso di speranza. Oggettivamente la situazione era molto più depressa di quanto lo sia ora. C’era la minaccia del fascismo, che non era uno scherzo; è stata una minaccia concreta che si diffondeva nel mondo. E, tuttavia, c’era la percezione che in qualche modo ci saremmo tirati fuori insieme da tutto quello. Ora la gente è atomizzata – sola – non riesce a vedere cosa si possa fare, non ha alcuna base istituzionale.

WPJ: È una questione di alienazione o di essere distratti?

NC: Penso che sia quello che si vede nel fenomeno Trump ed – in un certo senso – anche con il fenomeno Brexit. Le persone sono state semplicemente abbandonate dalla globalizzazione neoliberista, non sanno a chi rivolgersi. Si stanno rivoltando contro persone ancora più vulnerabili di loro. Si stanno ritrovano prigioniere di passioni irrazionali e non hanno impegni costruttivi e programmi sui quali poter lavorare. Ad esempio, qui negli Stati Uniti, penso che gli elettori di Sanders e di Tru
mp non siano troppo distanti su tante cose. Su quelle fondamentali penso che siano rivolti alle stesse cose. Solo che non vedono i collegamenti perché non c’è nulla di continuativo e basato istituzionalmente che li faccia avvicinare. Se ci fosse un movimento operaio militante, come il CIO [Congress of Industrial Organizations] che venne organizzato nel 1930, quello potrebbe raggrupparli tutti insieme.

WPJ: Pensa che la somiglianza sia una sorta di anti-istituzionarianismo? [6]

NC: Beh, al momento è soltanto contro tutto. Ma per cosa sei a favore?

WPJ: Pensa che non sia semplicemente un problema di tempo? Arrivi a casa dopo una giornata al lavoro di otto o nove ore e non ti va di pensare alla complessità delle informazioni che si ricevono. Non vuoi che ti passi per la testa il pensiero che le notizie sulle quali ti sei appena sintonizzato nel migliore dei casi ti stiano distorcendo i fatti, nel peggiore te li stiano falsificando. È facilissimo guardare semplicemente una notizia e sperare che abbia la migliore intenzione.

NC: Questa, ancora una volta, è una notevole differenza. Guarda nel 1930: cose come l’istruzione dei lavoratori erano le attività principali. Facevano proprio parte della vita. E la gente non lavorava 8 ore al giorno, ma forse 10 ore al giorno (se avessero avuto un lavoro, che spesso non avevano, ma stavano lavorando per progetti o qualcos’altro della WPA [7]), eppure, ciò nonostante, c’erano – e non voglio esagerare – settori della classe operaia che erano notevolmente impegnati nella cultura elevata, nella conoscenza politica e sociale, e nell’apprendimento delle scienze.

WPJ: Che cosa si è inserito tra i lavoratori e lo stesso impegno [politico e sociale] oggi?

NC: Penso che oggi ci sia un disorientamento generale nella società, che infatti è stata studiata. È una società molto più atomizzata. La cultura del consumismo – che si è radicata molto più profondamente – separa le persone le une dalle altre, si concentra sull’aspirazione individuale piuttosto che sull’azione comunitaria. Anche cose come i social media hanno un loro modo di alienare le persone. Una cosa è lavorare veramente con la gente, un’altra è avere 50 “amici” su Facebook.

WPJ: Non pensa che la campagna di Sanders non abbia fatto nulla per realizzare una sinistra popolare [movimento]?

NC: Penso che lo abbia fatto. Ha illustrato quanto di un quasi desiderio ci sia nell’azione condivisa ed impegnata per raggiungere il genere di obiettivi che sono significativi per noi. E ne potrebbe venire fuori qualcosa a livello di movimenti sociali organizzati ed impegnati.

WPJ: Alcune delle cose che ha studiato e criticato della politica estera degli Stati Uniti fin dal 1960 sono gli schemi generali della strategia, delle intenzioni e – naturalmente – dei meccanismi di persuasione quando si tratta di intervenire a livello globale. E dietro tutto questo c’è una specie di “assioma della politica americana”: abbiamo il diritto (quasi il dovere) di estendere la potenza americana a tempo indeterminato all’estero. Ed anche l’affermazione ancor più forte che questo valore di cui stamo portatori è in qualche modo universale e deve essere applicato ovunque. Ha visto questo modello cambiare minimamente, o ha l’impressione come di essere stato soltanto testimone negli ultimi decenni, ripetizione dopo ripetizione, dell’applicazione di questo assioma?

NC: Su questo argomento negli anni ’40 ci furono dei bei commenti provenienti dal Ministero degli Esteri britannico, da persone che aveva attinto da secoli di esperienza nel dominio mondiale, nella diplomazia ed il potere. Riconobbero che i loro giorni erano finiti; gli Stati Uniti li stavano rimpiazzando, mettendoli in una posizione secondaria. (Ed a loro non piacque per niente). Ma discussero del messaggio che sentirono e percepirono dai loro – ormai – superiori americani, che era: c’è qualcosa di cui il mondo ha bisogno, vale a dire noi. E c’è qualcosa che daremo al mondo. E c’è qualcosa che il mondo riceverà, che gli piaccia o meno. Ecco come apparve dal punto di vista di chi aveva moltissima esperienza nel fare la stessa cosa.

Le cose non sono cambiate molto. La capacità degli Stati Uniti di intervenire è cambiata molto. Non siamo allo stadio degli anni ’40 o ’50 e ’60 in cui, se non ti piace un governo in America latina, è sufficiente avviare un colpo di stato militare. Ma questa è una questione di distribuzione del potere nel mondo.

WPJ: E i metodi oggi sono più insidiosi, più subdoli?

NC: Ci sono altri modi. Prendi quello che sta succedendo in Brasile, che è una sorta di colpo di stato morbido. Non è ciò che successe nel 1964 quando venne istituita una dittatura militare con il sostegno degli Stati Uniti.

WPJ: Strettamente allineata con questo assioma c’è l'”idealismo wilsoniano”: l’idea che stiamo facendo del bene, in qualche modo. Mi ricordo che, credo l’anno scorso, guardai o lessi un’intervista a Vladimir Lukin, che a Mosca è considerato, credo, una specie di “esperto americano”. Disse qualcosa a proposito degli Stati Uniti, che avessero quest’ideologia americana incorporata nei geni del paese, che hanno questa verità ricevuta da Dio che desiderano estendere. E l’analisi venne spudoratamente respinta come Oh ecco il solito russo che sta progettando l’aggressione degli Stati Uniti, etc. Rimasi sorpreso di quanto velocemente le osservazione [di Lukin] siano state completamente rifiutate. Non sembra troppo radicale pensare che gli Stati Uniti vedano il mondo attraverso occhiali a stelle e strisce, che noi si proietti desideri e valori.

NC: In questo senso è molto simile ad altre grandi potenze. Gli inglesi erano gli stessi nel loro periodo di gloria, i francesi stavano portando avanti una “missione civilizzatrice”, i giapponesi stavano portando – quello che chiamarono – un “paradiso terrestre” alla Cina e stavano difendendo la popolazione dai briganti cinesi. Ciò che viene chiamato “eccezionalismo americano” probabilmente è uniforme in tutti gli Stati, nella misura in cui hanno potere. A condizione che abbiano potere ed influenza, trovano un modo che renda sé stessi eccezionalmente “buoni” e giustifichi quello che stanno facendo. Qui è esagerato in una certa misura, perché questa sembra essere una nazione piuttosto insulare – in parte proprio per ragioni storiche e geografiche. Voglio dire, puoi viaggiare per quasi 3.000 miglia (4.800 Km) negli Stati Uniti e sei più o meno nello stesso posto. Se sei in Europa e ti sposti di un centinaio di miglia (160 Km), sei in un posto diverso, cultura diversa, lingua diversa. C’è un alto livello di insularità e questo contribuisce al senso del nostro diritto di dare alla gente ciò di cui ha bisogno – e ciò che riceverà, che gli piaccia o no.

WPJ: È questo isolamento ciò che rende così difficile ad un americano considerare la possibilità che esista un’intenzione più complessa e potenzialmente nefasta dietro l’azione del proprio governo come, diciamo, le azioni dei russi? Perché il punto è pensare sempre che l’aggressore sia dall’altra parte.

NC: Prendi Putin. Non è una brava persona, non andrei di certo a cena con lui. È brutalmente oppressivo. Ma sul confine con il Messico ci sono carri armati russi? In Canada ci sono manovre militari russe
? [fa una pausa] Gli Stati Uniti hanno porti dai quali possono raggiungere qualsiasi mare? Prendi la Cina. C’è un conflitto per il Mar Cinese Meridionale. C’è un conflitto per i Caraibi? Siamo in una posizione unica.

WPJ: Questa facciata di intenzionalità (la NATO durante la guerra in Kosovo, l’invasione degli Stati Uniti compiuta in Iraq, etc.) – quest’idea che uno Stato rivendichi intenzioni altruistiche (stiamo venendo qui per aiutarvi), quando, in realtà, stanno effettivamente cercando solo di mantenere l’interesse/la credibilità nazionale o sovranazionale.

NC: Prima di tutto l’affermazione che “stiamo venendo qui per aiutarvi” non trasmette alcuna informazione, anche in senso tecnico. È del tutto prevedibile, non importa chi sta realizzando l’azione. Dai un’occhiata alla storia: Hitler, quando si annetté i Sudeti, era solo ricolmo di sentimenti di superiorità morale – che i tedeschi avrebbero usato la loro cultura superiore per aiutare il progresso della gente, che avrebbero risolto i conflitti etnici, dato un sicuro ordine di pace, creato un mondo meraviglioso, e così via. Difficilmente riesci a trovare un’eccezione. Ma se vuoi conoscere le vere ragioni [dell’intervento], non è così difficile.

Ecco un esempio di analisi dei media: come fai a scoprire le vere ragioni dell’invasione statunitense dell’Iraq? Beh, in molti modi. Un modo semplicissimo è esaminare le formulazioni ufficiali. Dal momento che le dimensioni della sconfitta degli Stati Uniti in Iraq – ed è stata un grave sconfitta – stavano diventando evidenti, il governo finalmente è venuto fuori con dichiarazioni piuttosto esplicite. Se guardi l’Amministrazione Bush alla fine del 2007 sulle discussioni del cosiddetto “Accordo sullo Status delle Forze” (Status of Forces Agreement, SOFA) – che era in vigore quando ci siamo formalmente ritirati dall’Iraq – c’erano specificate due posizioni: Uno, gli Stati Uniti devono avere basi militari permanenti al centro delle aree mondiali di produzione energetica; Due, per le multinazionali degli Stati Uniti ci dev’essere un accesso privilegiato alle risorse irachene, il che significa essenzialmente al petrolio. Questa è una dichiarazione formale del Novembre 2007, ma adottata così seriamente che nel Gennaio 2008, quando il bilancio venne approvato e Bush appose le eccezioni di firma, una di esse diceva che il SOFA è scolpito nella pietra – non può essere modificato dalla legge. È una dichiarazione abbastanza chiara e non è affatto sorprendente, chiunque l’avrebbe potuto capire. Nel 2003 quanti indizi c’erano?

WPJ: Avrebbeun solo esempio di leaders che abbiano una buona e solida giustificazione morale, ma che purtroppo lavorano all’interno di una struttura che non permetta tali prese di coscienza?

NC: Sappiamo tutti – proprio dalle nostre esperienze personali – che è abbastanza facile dare una giustificazione a qualsiasi cosa ci capiti di fare, per qualunque ragione. Per i leaders politici non è diverso. Suppongo che la maggior parte di essi creda in ciò che dice. Così per esempio, prendi Lyndon Johnson – un vero uomo del popolo – era abbastanza onesto. Verso il 1966 fece un interessante discorso alle truppe americane oltre oceano, nel quale parlò della guerra in Vietnam. Ciò che disse fu: guardate, noi siamo solo 150 milioni mentre loro sono 3 miliardi, e se “la forza crea il diritto” ci prenderanno ciò che abbiamo; ci spazzeranno via e si prenderanno quello che abbiamo, quindi in Vietnam dobbiamo difendere noi stessi. Non vedo alcun motivo per dubitare che ci non credesse davvero. È praticamente una cosa da pazzi, ma non significa che non ci credesse.

WPJ: Quindi quale sarebbe il ruolo appropriato dell’America nel mondo?

NC: Uno Stato rispettoso della legge che usa i suoi enormi vantaggi per dare beneficio alle popolazioni, invece che cercare di imporre il proprio dominio ed il controllo su di esse.

WPJ: Pensa che gli altri Stati richiederanno questo “beneficio”?

NC: No. Voglio dire, gli altri Stati non hanno il nostro potere. Ma se guardi alla Storia generalmente il modello è questo – certo ci sono delle deviazioni, come i nazisti che erano incomparabilmente peggiori degli altri – ma ad un certo livello si tende a scoprire – hai una forte tendenza nello scoprire – che gli Stati useranno il loro potere per estendere il controllo sugli altri. Ricordati, gli Stati non sono indipendenti dalla propria società, quindi ci sono centri di potere interni agli Stati. Così il settore delle multinazionali negli Stati Uniti ha un’influenza schiacciante sulla politica dello Stato, che si dedica naturalmente ai loro interessi. Non dovrebbe sorprendere nessuno che la politica degli Stati Uniti, da quando nel 1945 divennero una sorta di egemone globale, si sia dedicata a cercare di creare nel mondo quella che viene definita una “società aperta” – “aperta” alla penetrazione economica degli Stati Uniti, al controllo politico – e si sia opposta ai cosiddetti regimi “nazionalisti” e “radicali” che cercano di destinare le risorse a beneficio delle masse invece di riconoscere il loro posto all’interno del sistema mondiale, quello in cui gli Stati Uniti devono avere accesso alle risorse, alle opportunità di investimento e così via.

WPJ: È possibile per gli Stati Uniti si ritirino [da questo ruolo] data la quantità di investimenti economici, il trinceramento?

NC: dipende da cosa intendi per “ritirarsi”. Ad esempio, non dobbiamo invadere l’Iraq; non dobbiamo bombardare la Libia; non dobbiamo per forza effettuare le operazioni in tutto il mondo del JSOC [Joint Special Operations Command, il Comando Congiunto delle Operazioni Speciali]; non dobbiamo condurre una campagna di assassinio globale. Esistono interazioni costruttive con il resto del mondo, invece di tutto questo. Non è una questione di ritirarsi.

WPJ: Il resto del mondo però è già scettico sul fatto che qualsiasi cosa gli Stati Uniti facciano, con qualsiasi genere di intento interventista, risulterà tutt’altro che dannoso.

NC: Se guardi in giro nel mondo – prima di tutto – ci sono credenze popolari sul potere americano che sono incredibili. Ogni volta che nel mondo succede qualcosa, diciamo il colpo di stato in Turchia, la reazione immediata è che dietro ci sia la CIA, che gli Stati Uniti abbiano creato l’ISIS con lo scopo di distruggere il mondo arabo, e così via. Su questo ci sono tutti i tipi di mitologia, derivanti dal fatto che il potere americano in effetti interviene energicamente. Ma non ha nemmeno lontanamente la capacità che gli viene attribuita.

WPJ: Se riavvolgessi il tempo di 30 anni – tornando alla fine degli anni ’70, durante la guerra in Vietnam – le chiederei “30 anni da ora, che cosa le piacerebbe vedere cambiato?” oppure “Come pensa che si svilupperanno le cose?”. Ed ora che siamo seduti qui e che conosce le risposte a quelle domande cambia il modo in cui guarda avanti, a 30 anni da oggi?

NC: È una storia mista. Ci sono state delle aree di progressi significativi, credo, a livello nazionale. Per fare un esempio, prendi i diritti delle donne, sono metà della popolazione. Oggi la situazione è molto più civile di quanto non fosse 30 anni fa. I diritti dei gay. L’opposizione alle aggressioni è molto più alta di quanto non fosse allora. La preoccupazione per l’ambiente, che allora esisteva a malapena, o
ggi è sostanziale. D’altra parte la fine degli anni ’70 è dove si prepara il passaggio verso la finanziarizzazione dell’economia, le politiche neoliberali – gli inizi della stagnazione o il declino per la maggioranza della popolazione, mentre la ricchezza è estremamente concentrata – tutte queste politiche cominciarono ad essere messo in atto. Il loro effetto lo stiamo vedendo oggi nel disprezzo per le istituzioni, il malcontento, i sentimenti ostili al sistema, sono il riflesso degli effettivi sviluppi che hanno danneggiato la gente. Non li avevo previsti, certamente – non mi sarebbe piaciuto vederli. Le guerre di Reagan in America centrale negli anni ’80 furono già scioccanti.

WPJ: Vuole dire che oggi è più ottimista?

NC: No. Penso che oggi stiamo affrontando i grandi interrogativi della sopravvivenza in senso letterale. Ci sono due questioni enormi. Una è il problema della guerra nucleare, che esiste da 70 anni. L’altra – che oggi è compresa, mentre non lo era stata negli anni ’70 – è il cambiamento climatico, che potrebbe essere veramente disastroso. A meno che non si intervenga abbastanza rapidamente con azioni adeguate, potremmo essere in grossi guai. È solo uno dei motivi per cui una vittoria repubblicana sarebbe così terribile. La posizione dei Repubblicani è “Corriamo verso il precipizio il più rapidamente possibile – nega che stia succedendo”. È piuttosto spaventoso.

WPJ: Qualcosa che però ho trovato essere d’ispirazione in gran parte dei suoi scritti è che, nonostante la critica, nonostante questi tipi di meccanismi che potrebbero trovarsi dietro il potere, lei mantiene un ritratto molto ottimista dei singoli esseri umani – la capacità, la creatività intellettuale.

NC: Su questo non conosco un commento migliore di quello che Gramsci rese famoso: “Dovremmo essere pessimisti dell’intelligenza ed ottimisti della volontà”. Qualunque cosa possiamo fare, dovremmo farla. È del tutto irrilevante quanto ottimista ti senta a livello personale o soggettivo. Se ci sono opzioni, dovremmo perseguirle.

WPJ: Lei rifiuta l’immagine di sé stesso dell’intellettuale solitario che si erge e sposa un sistema (fa notare, infatti, che queste discussioni sono rese possibili dalle persone che lavorano sul campo, mettendo insieme i movimenti). Eppure, allo stesso tempo, non c’è dubbio che nel mondo accademico lei sia studiato come un tale pensatore. Ci sono classi dove i professori insegnano la filosofia chomskiana, lei verrà studiato insieme a personalità come Russell [8] e Wittgenstein [9], ed occupa un posto nel canone intellettuale occidentale. Pensa mai alla sua importanza come pensatore?

NC: [scuotendo la testa] Le cose che considero più significative tra quello che faccio sono soltanto i coinvolgimenti con i gruppi popolari – in tutto il mondo a dire il vero. È questo che è emozionante ed importante.

WPJ: Non fa mai un passo indietro per considerare il suo posto all’interno della tradizione maggiore? Il fatto che lei abbia un poster di Bertrand Russell nel suo studio e che sicuramente ci siano giovani accademici con manifesti di Noam Chomsky nei loro.

NC: Non era un dio, ci sono molte cose da criticare. Ma per molti aspetti è una delle persone che considero con notevole rispetto, sia per il suo attivismo intellettuale che politico.

WPJ: Pensa che in qualche modo sia sbagliato percepire anche lei così [come un pensatore canonico]?

NC: Totalmente sbagliato. [sorridendo] Io di certo non percepisco me in quel modo.

WPJ: Eppure arrivano gruppi di ragazzi delle scuole superiori che la vogliono fotografare. [Prima dell’intervista c’era un gruppo di circa 20 studenti liceali in fila davanti alla porta del Professor Chomsky che bisbigliavano emozionati nella speranza di incontrare il “Dr. Chomsky” e vedere il suo studio.]

NC: Va benissimo. Vorrei aver avuto la possibilità di parlare con loro, è più divertente.

WPJ: È più divertente parlare con i bambini?

NC: Parlare con i bambini è molto interessante. (Questa volta non ne ho avuto la possibilità). Sono interessati, entusiasti, pensano al futuro. Un paio di loro mi stavano raccontando i loro progetti. Uno di loro voleva studiare Neuroscienze. Un altro voleva studiare qualcos’altro. È divertente parlare con loro.

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N.d.A.: questa intervista è stata modificata e condensata per chiarezza.
Foto gentilmente concessa da Wikimedia Commons.

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Scelto e tradotto per www.comedonchisciotte.org da CLEMENS

Note del Traduttore

[1] Jason Stanley (1969): è un filosofo americano, attualmente “Jacob Urowsky” Professor of Philosophy all’Università di Yale, a New Haven nel Connecticut. È meglio conosciuto per i suoi contributi alla Filosofia del Linguaggio ed Epistemologia, dalle quali spesso attinge ed hanno influenza in altri campi, tra cui la Linguistica e le Scienze cognitive.

[2] John Rawls (1921-2002): è stato un filosofo statunitense, figura di spicco della Filosofia Morale e Politica. È stato “James Bryant Conant” University Professor presso l’Università di Harvard. Il titolo di University Professor è un onore concesso ad un numero davvero esiguo dei docenti di ruolo di Harvard, le cui borse di studio e altre attività professionali hanno conseguito una particolare distinzione ed influenza.

[3] Jacques Derrida (1930-2004): è stato un filosofo francese. Professore prima all’École Normale Supérieure, fondatore del Collège International de Philosophie e poi, fino alla morte, Directeur d’études presso l’École des Hautes Études en Sciences Sociales di Parigi, il suo nome è legato al concetto di “decostruzione”, che ebbe una forte influenza sul pensiero della seconda metà del Novecento, in ambiti disciplinari molto diversi dalla Filosofia, come la Linguistica, la Critica letteraria, la Teoria politica, la Giurisprudenza, gli studi religiosi, la Teoria dei media, l’Antropologia, gli studi culturali, l’Architettura (ispirando il movimento decostruttivista), gli studi postcoloniali, gli studi di genere e la Psicoanalisi.

[4] Jacques Lacan (1901-1981): è stato uno psichiatra e filosofo francese, nonché uno dei maggiori psicoanalisti. A differenza di Freud per Lacan il trauma non è il sesso, ma il linguaggio. Il linguaggio manca di un significante. Gli esseri umani, tutti, anche quelli che non parlano, sono traumatizzati dall’incontro con il linguaggio. Egli quindi ritiene che l’inconscio sia strutturato come un linguaggio, ma senza codice.

[5] http://fair.org/extra/

[6] L’anti-establishmentarianism (anti-istituzionarianismo) è una filosofia politica che vede la struttura di potere di una nazione o di una società come corrotta, repressiva, sfruttatrice o ingiusta.

[7] WPA = Workers Progress Administration
(ribattezzata nel corso del 1939 Work Projects Administration): è stata la più grande agenzia del New Deal che diede lavoro a milioni di persone nella costruzione di opere pubbliche, come edifici, strade e nella realizzazione di grandi progetti nelle arti, teatro, media e alfabetizzazione. Sfamò bambini e distribuì alimenti, vestiti e alloggi. Quasi ogni comunità negli Stati Uniti ha un parco, un ponte o una scuola costruiti dalla WPA, soprattutto negli Stati occidentali e tra le popolazioni rurali. Per questi aiuti tra il 1936 e il 1939 spese circa 7 miliardi di dollari.

[8] Bertrand Russell (1872-1970): è stato un filosofo, logico, matematico, attivista e saggista gallese. Fu anche un autorevole esponente del movimento pacifista e un divulgatore della filosofia.

[9] Ludwig Wittgenstein (1889-1951): è stato un filosofo, ingegnere e logico austriaco, autore in particolare di contributi di capitale importanza alla fondazione della Logica e alla Filosofia del Linguaggio, ed è considerato da molti, specialmente nel mondo accademico anglosassone, il massimo pensatore del XX secolo.

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