Ne sono convinto, ma non ci credo

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DI  CARLO FRECCERO

rollingstone.it

C’è una storia/parabola (oggi diremmo storytelling) che mi raccontava sempre mio padre da piccolo. C’è un capocantiere che sa con certezza che uno dei suoi operai ruba attrezzature aziendali. Ma, nonostante i suoi sforzi, non riesce a capire come fa. Tutte le sere il personale in uscita viene controllato. Tutte le sere la carriola dell’operaio viene perquisita e risulta contenere solo effetti personali. Finché, all’improvviso, un’intuizione lo illumina: il ladro ruba carriole.

C’è una versione colta della storia, che per quanto diversa, conduce alle stesse conclusioni. Mi riferisco al racconto La lettera rubata di Edgar Allan Poe. Questa lettera, cercata da tutti, sembra introvabile. Ma Dupin, il prototipo dell’investigatore, armato di logica e intuizione, trova la soluzione. In quale posto la lettera non verrebbe cercata? Nel posto più visibile e controllato, nel centro della scrivania. La lettera sta lì, sotto gli occhi di tutti e, proprio per questo, risulta invisibile.

Da circa due anni studio la propaganda sia per interesse personale che professionale, e da due anni mi chiedo dove questa propaganda si annidi. Viviamo in un mondo trasparente e abbiamo ogni giorno una massa di notizie e informazioni. E in questa massa di informazioni, quali posso considerare vere e quali oggetto di manipolazione e propaganda? Mi sono dibattuto a lungo nel dilemma, sino a che la risposta non mi si è presentata in tutta la sua chiarezza. La propaganda non può avere un ruolo marginale. Deve essere occulta, ma, nello stesso tempo, al centro della scena. E qual è la vetrina dell’informazione? L’agenda dei media.

Non so e non posso sapere quali notizie siano vere o false, ma, scorrendo ogni giorno l’agenda dei media, posso capire quali le élites abbiano interesse a divulgare. Questa scoperta mi ha colpito nella mia identità di cittadino occidentale moderno. Tutta la modernità si edifica sul cogito cartesiano. Posso dubitare di tutto, ma non del mio pensiero. Ma se il mio pensiero si forma a partire da dati manipolati, posso avere ancora fiducia nelle mie stesse certezze? La propaganda è oggi il genio maligno che ci inganna insinuandosi nel nostro inconscio. Come europei, dopo la nascita della psicanalisi, abbiamo creduto che l’Es, l’inconscio, abbia a che vedere col sesso e l’istintualità, mentre l’Io con il nostro ruolo di cittadino. La nostra idea di politica ha sempre fatto appello alla logica e alla ricerca della verità e del bene comune. Tutto questo è stato spazzato via dalla globalizzazione e dalla conseguente americanizzazione dei costumi europei. Oggi la politica si riduce all’appoggio, da parte dell’elettorato, di due candidati alternativi, ma con programmi simili e sovrapponibili. E il voto non nasce dall’informazione, ma dalla propaganda. E allora le nostre idee più radicate si rivelano innesti provenienti dalla propaganda come le memorie sintetiche impiantate dai programmatori, nella testa dei replicanti di Blade Runner.

Noi europei associamo l’idea di propaganda ai regimi totalitari. E invece nasce in America nei primi decenni del secolo scorso a opera di Bernays, nipote di Freud e consapevole dei poteri dell’inconscio. È lui che capisce che, per guidare l’opinione pubblica a fare volontariamente e contro i suoi stessi interessi gli interessi delle élites, non bisogna raccontare la realtà, ma costruire notizie che abbiano un forte impatto emotivo. È sotto la sua guida che, durante la Seconda Guerra Mondiale, si costruisce la propaganda bellica con racconti di bambini a cui vengono amputate le mani, di violenze inaudite inflitte alle popolazioni civili e di offese all’onore della patria. Proprio perché false, ma emotivamente coinvolgenti, queste notizie occupano l’agenda dei media ribaltando il pacifismo istintivo del popolo americano in retorica bellica.

Toccare certi punti sensibili del nostro immaginario ha sempre un effetto condizionato prevedibile. Non a caso, Saddam, prima di essere rovesciato, è stato accusato di uccidere neonati scaraventandoli fuori dall’incubatrice. Così oggi, quando leggo quanto sia crudele e spietato il mondo al di fuori dei rigidi confini dell’Occidente, provo un brivido lungo la schiena.

Non è un brivido di indignazione, ma di paura. Perché potrebbe significare che la guerra è di nuovo possibile e che qualcuno vuol farcela digerire.

 

Carlo Freccero

Fonte: www.rollingstone.it

Link: http://www.rollingstone.it/cultura/news-cultura/carlo-freccero-ne-sono-convinto-ma-non-ci-credo/2016-10-02/

04.10.2016

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