MENTRE ASPETTIAMO UN MOMENTO CHE NON ARRIVERA' MAI

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DI ENRICO GIANMARCO

minimamoralia.it

“È una malattia. La gente ha smesso di pensare, di provare emozioni, di interessarsi alle cose; nessuno che si appassioni o creda in qualcosa che non sia la sua piccola, dannata, comoda mediocrità.”

Frank Wheeler è un giovane promettente e talentuoso nell’America postbellica, cui la partecipazione alla Seconda Guerra Mondiale non ha tolto o aggiunto nulla. Egli non ha alcuna idea di cosa fare nella vita, l’unica certezza è che dovrà essere qualcosa di grande. Tutte le persone attorno a lui ne sono convinte, ammaliate dalla brillantezza di spirito che questo figlio della middle class emana.

Anche nell’Italia del Novecento è esistita una classe media, quella formata dalla generazione dei babyboomer, i nativi dello Stivale repubblicano, coloro che non hanno vissuto le durezze del fascismo e della guerra, ma che sono state travolte dall’esplosione consumista degli anni Sessanta, coccolate dal benessere, instrumentate dalle regole di un sistema che a fronte di un conformista “casa-lavoro-chiesa”, garantiva appartamento e auto di proprietà, e un mese di vacanze al mare.

Frank Wheeler si professa orgogliosamente anti-conformista, a parole. Nei fatti finisce a lavorare nella stessa azienda del padre, che produce calcolatori elettronici. Frank sposa April, che rimane presto incinta. I due vanno a vivere a Revolutionary Hill, un comprensorio immerso nel verde tra i sobborghi di New York, habitat naturale per le famiglie salariate degli anni Cinquanta. Tutti i giorni Frank prende il treno e va in città a svolgere il suo lavoro stupido, quello che egli stesso definisce come “uno scherzo”. Compone messaggi per le filiali al dittafono, l’antenato delle email, è un impiegato-modello, nel senso che non prende alcuna iniziativa, lavora il meno possibile, brama la pausa pranzo, il treno del ritorno e il weekend, nella costante e sonnacchiosa attesa che venga il suo momento, quello di mostrare di essere speciale. Anche se non sa a far cosa.

La mia generazione attende da un decennio il suo momento. Siamo i figli dei babyboomer, siamo nati tra gli anni Settanta e i primi anni Ottanta, abbiamo studiato almeno fino alla laurea, vivendo gli atenei nell’epoca del continuo aumento delle iscrizioni. I nostri genitori, classe media, erano quasi tutti diplomati, e per loro era importante che noi andassimo all’università, per il nostro avvenire, che doveva essere radioso e speciale. A differenza di Frank, che convince se stesso e la moglie April di essere differente da tutti i loro vicini di casa, noi siamo i giovani che alle cene di famiglia venivano dipinti come “quello che ha studiato e farà strada” e “quello che andrà all’estero e guadagnerà un sacco di soldi”. Non abbiamo avuto bisogno di convincere nessuno, non è stato necessario illuderci di un destino che era tutt’altro che scritto.

In Revolutionary Road, Richard Yates beffa il lettore proponendogli un protagonista brillante e intelligente che getta la sua maschera nel corso dei capitoli. Chiunque si avventuri tra le prime pagine di questo romanzo dimenticato non può fare a meno di tenere le parti di Frank e considerare April un’isterica irriconoscente. Tutto cambia dopo l’illusione del trasferimento a Parigi: Frank si era nascosto per anni dietro le gravidanze della moglie, implicita imputata della loro vita così conformista. Egli finge di appassionarsi alla proposta di April, ma il velo cade definitivamente quando al lavoro gli ventilano una promozione, e quando la donna resta di nuovo incinta. Frank ha un nuovo argomento per nascondersi. È ipocrita e mediocre, ma emerge brillante. È vigliacco, ma fa la figura del ragionevole.

“Perché forse ci vuole una certa dose di coraggio per rendersi conto del vuoto, ma ne occorre un bel po’ di più per scorgere la disperazione. E secondo me, una volta che si scorge la disperazione, non resta altro da fare che tagliare la corda. Se si può. beninteso.”

Anche per noi della Generazione X la maschera è caduta da un pezzo. Abbiamo studiato, ma di strada ne abbiamo fatta meno di quanto ci si attendeva, quella sufficiente ad uscire dalla casa dei nostri genitori per andare a vivere lì vicino, magari nella palazzina accanto. All’estero siamo andati per fare l’Erasmus oppure per qualche viaggio esotico di quelli che “ti cambiano la vita” anche se non lo fanno affatto, perché poi torni alla stessa identica quotidianità che avevi messo da parte per un paio di settimane.

Frank illude se stesso e April di voler ancora cambiare vita quando è il momento, di potersi trasferire a Parigi per inseguire i sogni che non riesce a concretizzare, il talento che non riesce a definire, perché non li ha. Anche noi vagheggiamo il cambiamento, minacciamo la velleità di andarcene via da questo Paese che ci ha cresciuti tra affabulazioni e aspettative, per poi abbandonarci davanti alla vita adulta. Da ventenni abbiamo sognato il bar sulla spiaggia caraibica, ora come trentenni siamo passati più concretamente ad anelare uno degli agriturismi toscani che frequentiamo durante i fine settimana. “Sarebbe bello lasciare tutto e trasferirci qui.” Bello immaginare, Frank e April vivono i momenti migliori del loro matrimonio soltanto immaginando il loro trasferimento a Parigi. Immaginare di essere qualcun altro, la cosa che riesce meglio a Frank Wheeler.

Mentre aspettiamo un momento che non arriverà mai, mentre i nostri sogni si ridimensionano al ritmo degli anni che passano e diventano solo argomento di chiacchiere con gli amici, ci ritroviamo ad affrontare, tutti i giorni, il nostro lavoro stupido. Ne hanno già scritto vari sociologi, e anche il buon Andrea Pomella. È stupido perché non è quello per cui abbiamo studiato, è stupido perché non ci piace, è stupido perché non lo capiamo, è stupido perché non sembra avere alcuna utilità sociale a parte occupare le nostre giornate. Lo disprezziamo perché ci dà da mangiare, e un po’ ci ricatta. Vorremmo non averlo accettato, ma abbiamo paura di pensare a cosa ne sarebbe di noi senza di esso. Lo disprezziamo ancor di più perché è lo stesso lavoro dei nostri genitori, quelli che non si erano laureati e secondo i quali avevamo un grande avvenire. E non sappiamo più se odiarli oppure essere dispiaciuti per loro.

Siamo come Frank Wheeler, siamo degli ipocriti dalle grandi potenzialità, convinti di essere destinati ad essere speciali, ma che amiamo rifugiarci dietro uno stipendio assicurato ed una comoda vita mediocre.

Enrico GianMarco

Fonte: www.minimaetmoralia.it/

Link: http://www.minimaetmoralia.it/wp/richard-yates-e-il-secolo-del-lavoro-stupido/

25.04.2015

Titolo Originale: Richard Yates e il secolo del lavoro stupido

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