LIBIA. IL NAUFRAGIO DELL'EUROPA

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DI EMILIO BORELLI

Come donchisciotte

Per gentile concessione dell’autore, pubblichiamo la nota introduttiva al suo saggio “Libia. Il naufragio dell’Europa”. Il libro è acquistabile in formato Kindle su Amazon.

Perché Libia e perché naufragio dell’Europa.

Libia perché come una cattiva coscienza la vicenda di un neo colonialismo stavolta ci schiaffeggia appena al di là del mare, in regioni che – grazie anche al nuovo benessere – abbiamo cominciato a conoscere, meno aliene di decenni fa.

Libia perché con le sue risorse petrolifere accendiamo ogni giorno il motore di una società che non sa far altro che rincorrere a perdifiato quella crescita che un modello di sviluppo onnivoro ci ha imposto.

Libia perché nella primavera del 2011 – di fatto all’improvviso e ormai immersa nella pania di una crisi economica mai prima d’oggi conosciuta – l’Italia si è ritrovata ad imbarcarsi in una guerra contro il paese nordafricano che solo un anno prima gli osservatori europei avevano giudicato come uno dei più propositivi sulla scena internazionale: in marzo ed ottobre 2010 due riunioni della Lega Araba si erano svolte a Sirte. Il 13 maggio 2010 al paese nordafricano era stata assegnata la rappresentanza in seno al Consiglio dei Diritti dell’Uomo dell’ONU, il summit Europa-Africa organizzato a Tripoli in novembre aveva ricordato il ruolo centrale della Libia in questo dialogo. Il 28 dicembre 2010 Gheddafi insieme ad altre decine di capi di stato del continente nero aveva finalmente dato forma al suo più importante progetto in ambiti economico/strategici: il Fondo Monetario Africano, esponendo al mondo l’ipotesi di un modello di sviluppo alternativo all’unico noto, quello liberista ormai scardinato dalla trappola della globalizzazione forzata e dalla new-economy.

Era la versione più “matura” – ed ancor più pericolosa – di quel giovane ufficiale ribelle che all’inizio degli anni ’70 aveva saputo costringere una ancora indefinita e biliosa ed eterogenea entità quale la nazione araba ad allinearsi per riconquistare coralmente una dignità, a spese delle lobby petrolifere.

Naufragio dell’Europa dal punto di vista economico perché il modello di sviluppo di cui siamo tributari sta mostrando ormai da anni le corde, perché molte delle giovani nazioni del Terzo Mondo hanno già raggiunto una maggiore maturità delle nostre, percependo che l’economia industriale sul modello europeo non è né perseguibile né auspicabile.

Naufragio dell’Italia – ed estensivamente ancora dell’Europa – sotto il profilo etico-culturale e politico perché di fatto assalendo uno stato sovrano – la Libia – all’interno dei propri confini, sull’onda di una delegittimazione dello stesso costruita a tavolino in una sorta di giornaliero puzzle di disinformazione, per di più rinnegando patti ed accordi di mutuo soccorso, legandosi a strategie sovranazionali dagli intenti più che dubbi mascherati da interventi di peacekeeping, in primo luogo ha negato uno dei principi fondanti le stesse Costituzioni (la sovranità nazionale, per l’appunto) ed in secondo ha perduto il rispetto ed ha reciso i veri e propri legami con l’altra sponda del Mediterraneo riducendoli ad un rapporto meramente venale.

Il principio sotteso agli interventi esterni ribalta completamente la logica dei rapporti tra nazioni, quantomeno rendendo equivoche quelle relazioni che i convenzionali significati di termini come guerra e colonizzazione avevano sancito. Nella storia recente gli interventi stranieri (Seconda Guerra Mondiale) erano motivati dalla manifesta volontà “imperiale” della Germania nazista sull’intera Europa, piuttosto che del Giappone sul quadrante asiatico, quindi si trattava di aggressioni esterne, ai tempi delle guerre di liberazione coloniali i paesi confinanti davano supporto (Laos e Cambogia piuttosto che Marocco, Tunisia ed Egitto) a moudjahedin di tutte le latitudini ed etnìe: i ribelli di Bengasi per quella che nella migliore delle ipotesi appare una questione regionale o comunque unicamente interna invocano fin da subito l’intervento straniero, indirizzeranno di fatto contractors e raid aerei sugli obiettivi costituiti dalle stesse proprie città. E’ abbastanza forte come segnale, qualcuno dalla Spagna invocò, a Guernica, l’intervento della Divisione Condor? Guernica è passata alla storia come una inutile, crudele infamia..

Ovvero, no, la storia ricorda un altro episodio in cui una delle fazioni antagoniste invocò a più riprese l’intervento di una superpotenza straniera: si tratta del leader del Partito comunista afghano (PDPA) Hafizullah Amin, che tra il 1978 ed il 1979 tempestò il Politburo di Mosca di richieste di aiuto contro i suoi stessi connazionali. Quello che avvenne in seguito e che ci è derivato è ancor oggi sotto gli occhi di tutti. Gheddafi ebbe anche un’altra presunzione, un altro “torto”: quello di non voler dipendere da terzi, per le proprie questioni, non dimenticheremo l’inerzia della Russia il 17 marzo 2011 allorché le Nazioni Unite deliberarono la famigerata risoluzione sulla no fly zone. Ma il BRIC stava per divenire il BRICS, il Sudafrica era docilmente pronto a far parte dei Grandi del pianeta…

Quello dell’intervento “in aiuto di” è un disegno che è già stato collaudato in precedenza in altre regioni mediterranee, dopo che le velleità coloniali tradizionali sono state rubricate – quanto a definizione – nel libro nero del politically correct.

Il Mediterraneo. Quel mare che da sempre è stato veicolo di scambi e conoscenza, una opportunità, e che da adesso è invece tornato ad essere una barriera liquida, con la risacca che sbatte su rive lontane lo sgangherato fasciame della storia.

Un’area geopolitica da sempre poco conosciuta, paesi vissuti – per i più – come destinazione per vacanze esotiche con emozioni a buon mercato, ove il minimo livello dello standard economico europeo ha consentito agevolmente ed ingenuamente di millantare una opulenza di facciata.

Una lingua dura, dai toni violenti da uomini anche nella conversazione più tranquilla, una lingua fatta per i contrasti, refrattaria.

Una volta superata la barriera di quella lingua dalla cadenza aspra, ostile, i paesi dell’ospitalità, finanche imbarazzante, del Diff Rabbi[1].

Una economia vincente al tracollo, l’incertezza in un modello di sviluppo, all’apparenza a somma perennemente ed obbligatoriamente positiva che si è inceppato, la vanità di un modello sociale di welfare che può esistere solo nell’agiatezza e che, costruito sull’assenza di valori profondi e spesso unicamente su un più o meno motivato ma latente senso di colpa, sfuma nelle ristrettezze. La sfiducia in una dirigenza politica che – da destra a sinistra – ha pontificato di massimi sistemi, senza conoscere nemmeno la genesi – folle – di tale concetto, la sfiducia in un progetto di società, nelle rappresentatività.

La soluzione è sempre la stessa. Guerra al despota di turno.

La risposta e motivazione della guerra sempre la stessa: petrolio, ancora petrolio, gas, risorse del sottosuolo.

Niente affatto, o almeno questa volta sono piccoli premi accessori della guerra alla Libia del XXI° secolo, della gara di solidarietà dai vari nomi, prima Odissea all’alba, poi Alba dell’Odissea, poi l’odissea cambia ora e sarà al Tramonto, poi Protettore unico, Urgenza di proteggere, e chi più ne ha più ne metta, petrolio? piccole ricompense di percorso che non si rifiutano, come si dice: grasso che cola!

No, c’è ben altro, e non è forse nemmeno l’immenso indotto che i bombardamenti – per loro natura – creano: le ricostruzioni. Non è nemmeno l’ulteriore business delle centinaia di ONG che accorreranno a stormi nel paese messo sul mercato, ingranaggi ben collaudati ormai da decenni di guerre piccole e grandi in giro per i paesi più miserabili e le giungle più fetide del mondo ove meccanismi ben lubrificati di sottrazione di fondi e di malversazione delle risorse di aiuti umanitari ed oggetto d’ogni genere di ruberia costituiscono – da sempre, verrebbe da dire – l’esempio di come si possa conquistare il cuore di una popolazione.

C’è ben altro, non si può ammettere che dall’Africa, dal mondo arabo[2] venga proposto un modello di sviluppo alternativo a quello dominante. A quello uscito confermato come vincente dalla operazione di macelleria ideologica ed umana della Guerra Fredda.

Peggio ancora, che possa derivarne anche un modello sociale, dall’Africa, figurarsi! Dalla Libia, un paese in cui la casa è di fatto considerata un diritto dell’uomo e non un investimento. In Italia, ove la casa al contrario è parte dell’ingranaggio, un governo di non eletti scardinerà le certezze di milioni di risparmiatori, rendendoli all’infinito “inquilini” di uno Stato che cambia le regole durante il gioco.

Non è mera coincidenza forse se nell’ottobre 2011 una nota firma della divulgazione scientifica italiana riepiloga a nostro beneficio, finalmente e definitivamente svelate (?!) le varie tappe del percorso dell’umanità nella sua faticosa marcia dalle savane africane – via via perdendo quella eccessiva pigmentazione, evidentemente – il giovane Darwin della dinastia degli schermi al plasma ci ricorda che la memoria ancestrale è ben viva in Namibia, nel bush polveroso dove si aggirano come spettri ignudi poche migliaia di boscimani. E’ da queste contrade che possono proporre a noi, uomini della civiltà tecnologica, le soluzioni ai problemi delle nostre società (formate per lo più da pendolari che per definizione pare non abbiano saputo determinarsi a trovar lavoro vicino alla propria abitazione o viceversa spostarsi ad abitare vicino al luogo di lavoro polverizzando invece ogni giorno combustibili e le proprie risorse vitali)? è da uomini ignudi, costituenti forse la seconda o terza tappa del lungo cammino che alla fine porterà il prototipo melanoderma alla perfezione del candido prodotto finito, è da uomini che conservano un litro d’acqua nel guscio di un uovo di struzzo che può venirci la risposta?

Alla stessa stregua potremmo mai ammettere di aver da imparare qualcosa sulla democrazia ed il socialismo da un ex militare, per di più figlio di un beduino del deserto di Sirte, che oltre che rinunciare a vestirsi come una persona civile ha rifiutato di riconoscere nei modelli proposti dall’occidente la soluzione ad una socialità così litigiosa qual’è quella dei pronipoti degli uomini delle tende? Noi che ci spendiamo come i figli della retorica di uomini dello stampo di Cicerone?

O, ancora oltre, potrebbe essere accettato il rischio che l’intero blocco europeo (in termini geografici) trovi un unico interlocutore nell’intero continente africano, per una qualche alchimia coeso?

La risposta non può di certo venire da una retorica male acculturata.

Anche perché nessuno di noi, di quelli che fin dall’inizio hanno rifiutato lo schema, il paradigma di questa guerra, ha mai vagheggiato di allineare le nostre società a quella libica. E come sarebbe stato mai possibile? E non per la questione petrolio, o per aspetti marginali come la ben diversa densità di popolazione e la nostra ampia dotazione di infrastrutture a fronte di un deserto. Non sarebbe mai stato possibile per gli aspetti culturali, che anche se entrambi mediterranei risultano ben diversamente incamminati sul percorso della storia.

No, e lo ripeto a quei soggetti che ne hanno dibattuto a lungo, anche con intelligenza e senza faziosità su molti blog.

No, non era questione di allineare noi al loro modello.

La questione era di lasciare a loro la propria opportunità. Regime o non regime, i vostri eserciti (si, io non mi ci riconosco e non voglio quella responsabilità) è a loro che hanno imposto una strada diversa.

Questa mia non vuol essere un monologo, l’ennesima raccolta di assunti indiscutibili, la rilettura di fatti arcinoti ma in una interpretazione da iniziati di verità arcane: è una conversazione su dei fatti.

Tanto meno è una tardiva, apologetica difesa di un personaggio – Muammar al Gheddafi – che nel proprio percorso si è trovato ad indossare davvero abiti i più diversi, apparendo di volta in volta, ai nostri occhi, dai nostri spesso opportunisti angoli di visuale, personaggio scabroso oppure all’opposto affidabile partner politico-economico. Tra l’altro egli ha dimostrato nei fatti di saper scegliere autonomamente il proprio cammino ed il proprio destino, da sé, senza accettare quel suggerimento a farsi da parte sussurrato a suon di bombe dalla più potente coalizione militare che la storia ricordi.

E’ un lavoro che inizia con rabbia a fine primavera 2011, si sviluppa nell’estate e mi condurrà durante il mese di Ramadan in quei luoghi toccati dalle cosidette “primavere arabe”, in realtà è un percorso – come il lettore avrà modo di constatare – che è cominciato molto tempo prima di questi fatti e che la mia coscienza mi ha spinto a sviluppare, per condividere e valutare insieme, sotto altri punti di vista, quella che è la storia di noi, del nostro tempo, ed anche del nostro paese.

E’ una conversazione come altre ne ho scritte e su temi che magari mi capiterà di trattare in modo più sfumato, nelle raccolte – magari – di storie di viaggio. Parlare di questi mesi di guerra, dei perché e della Jamahiriya è alla fin fine un parlare di noi, delle nostre aspettative, inquadrandole – il più organicamente possibile – in un contesto allargato, ma un contesto che si basa sui paradigmi di una continuità storica, sui concetti di prossimità geografica e culturale, non sulle alchimie irrealistiche di una economia sempre in trend positivo nutrita da bisogni fittizi e consumi, quelli sì sempre di sicuro in crescita.

E’ un parlar di noi attraverso l’immagine che – di noi – molti fatti recenti hanno proiettato e proietteranno sulla scena di paesi di cui mai ci siamo interessati, se non per derivarcene qualche ritorno economico, qualche indulgenza per opere di carità e sospetta solidarietà, e la storia dei quali preferiamo farcela raccontare piuttosto che conoscerla direttamente.

Perché sì, da viaggiatore oltre che di guardarmi attorno ho avuto il modo di parlare e conoscere – che non sono per niente impliciti nel viaggiare – anche realtà così antitetiche alle nostre e gente all’apparenza così diversa da noi che sarebbe a molti apparso perfino impossibile porre in relazione col nostro vivere.

Ed invece è proprio così, e come dirò di frequente non perché si tratti di luoghi, di mondi anzi, in cui si è fermi ad arcaismi che fanno parte solo dell’eredità più antica del nostro passato. In molti luoghi lontani e diversi avrò modo di valutare, di scoprire, quanto ci sia di tradizione in un gesto, quanto di allegoria e quanto di folklore, e quanto – e quanto spesso – il nostro giudizio abbia sottolineato solo quest’ultimo aspetto, perdendo per davvero l’occasione di riaprire le vecchie formule di dialogo che avevano reso prossime molte realtà del Mediterraneo.

Jamahiriya, ci dicono significhi governo delle masse. Non è del tutto vero, questa è la traduzione da un angolo visuale prettamente eurocentrico (o se vogliamo occidentale, nell’accezione in voga) ed abituato a dinamiche politico-sociali che appartengono alla più recente storia del nostro continente; vuol dire ben altro, vuol dire non limitarsi al lasciar uno spazio alla tradizione, ad una etica. Sta a significare non un passivo uniformarsi, ma il tradurre queste ultime in attualità.

Ne può risultare anche – in parole povere – il non voler crescere a tutti i costi.

Jemaa è il luogo simbolo della comunità tradizionale, l’agorà, è un luogo ed al contempo un consesso carismatico di persone.

I saggi. Non il marasma di una assemblea condominiale.

I saggi che – si badi bene – non necessariamente sono i vecchi, sono i capifamiglia. Saggi per quello, perché hanno delle responsabilità e si presuppone delle competenze.

La Jemaa, all’attualità oggetto di riscoperta come formula la più versatile in molte parti del maghreb per il governo di piccole comunità, divenne per Gheddafi il modello – in scala – per la sua comunità allargata, la Jamahiriya appunto, la radice etimologica ha un significato preciso, che riconosceva le proprie referenze in una base necessariamente allargata del consesso originario, sostituito, nello schema imposto dal dittatore alla Libia, dai comitati popolari. Una forma di socialismo tradizionale, mi verrebbe da definirla.

Contro questo modello – alla cui sobrietà di fondo viene invece a richiamarci di recente, da un pulpito del tutto differente, anche Benedetto XVI° – risponderemo, anzi risponderanno, con una nemmeno troppo sofisticata campagna di disinformazione che, apparentemente per la prima volta, in una guerra non verrà veicolata unicamente contro l’antagonista a fini propagandistici e psicologici bensì verrà indirizzata scientemente verso l’opinione pubblica mondiale, di fatto rendendola compartecipe e corresponsabile dell’eliminazione della voce fuori dal coro. Ed il messaggio – i messaggi – che passeranno saranno molteplici: la dabbenaggine, la slealtà, la miopia, il cinismo.

Non sono uno storico ma – per quanto attiene alla Libia – alla fin fine la chiave di lettura più pertinente alla realtà della Jamahiriya – la Jemaa, come ispirazione e principio fondante – appare come un riferimento identitario che non può venire trascurato o dimenticato.

Tra l’altro dalla lettura della cronaca di questi ultimi anni apparirà palese una analogia imbarazzante tra le piccole comunità berbere raccolte attorno ai loro consessi sovrafamiliari e l’Islanda: sulla scena europea la più piccola e coesa, appunto l’Islanda, è l’unica nazione che si ribellerà agli automatismi del signoraggio bancario rispedendo al mittente le imposizioni del Fondo Monetario e rimandando a casa un’intera classe politica.

Come ho accennato non credo ai monologhi, i monologhi sono per i vecchi – ed io non ne rivendico ancora le caratteristiche anagrafiche né, spero, intellettuali[3] – e nei monologhi giocoforza si finisce per avere comunque e sempre l’ultima parola. Viaggiando ho avuto l’opportunità di vedere ma anche molto di parlare. E – chi viaggia lo sa bene – l’ultima parola è sempre un saluto, e prelude ad un altro incontro.

Il mio spostarmi è divenuto via via sempre più un incontrare.

Per alcuni il viaggiare si sostanzia nel guidare un veicolo per raggiungere luoghi impervi e pittoreschi – e talora lo è anche per il sottoscritto – magari con abilità e spericolatezza, oppure nel lasciarsi trasportare con altri ritmi e con minore autonomia, relazionandosi, occorrendo relazionarsi, anche con l’ambiente circostante.

Per me il viaggiare si è integrato via via sempre più nel conoscere persone e parlare insieme, scambiare opinioni (dove scambiare sta proprio a significare l’effetto di reciprocità indicato dal verbo), discutere del mondo in cui viviamo. Perché le persone, anche se abbigliate in modo che a noi sembra bizzarro, hanno tutte la capacità di pensare e concepire la sincronia dei mutamenti che stiamo vivendo.

E conoscendo le persone, ascoltando le loro storie, la loro esperienza, riesci a conoscere dall’interno anche i loro paesi, la loro cultura, la loro civiltà, apprezzandola per come essi la sentono e non per come noi la intendiamo, attraverso i mille filtri che – naturalmente – la nostra prospettiva frappone. E, credetemi, talvolta non è un vantaggio conoscere questo codice, ti accorgi di interpretare cose che difficilmente potrai rappresentare, la storia dell’Africa, quella che non ci insegnano a scuola, e delle sue tradizioni e religioni è talmente ricca e vasta che i suoi ricorsi sono più frequenti che non nella nostra.

La realtà contemporanea ha poco di romantico, pare – forse più di altre epoche precedenti – attraversata principalmente da energie negative ed i rapporti fra gli individui e fra gli stati imperniati sul cinismo e l’interesse più pratico, spietato e materiale.

Se il quadro che ci risulta, svelato dei maquillage più elaborati, è sostanzialmente venale, è pur vero anche l’opposto ossia che è cresciuta la consapevolezza di molti, esiste una parte cospicua di collettività – anche tra i giovani – che non ha accettato e non vuol subire l’ipnosi propagandata a mascherare le verità, o le pudenda del nostro modello di sviluppo, che non accetta di fingere di ignorare a tal proposito i retroscena della storia accettando per tornaconto di farne girare la ruota sulla pelle di persone, di comunità, di continenti.

L’elettrodomestico per la comunicazione, il televisore, divenuto vero e proprio soggetto e referente di una opinione comune tende a creare una omogeneità di giudizio.

Il viaggiare ha portato conoscenza, ha creato opportunità di scambi e di amicizie, in molti hanno riscoperto, avvicinandosi alle tradizioni di altri, le proprie, relegate ad una lontana memoria collettiva, quasi nascoste in una vergogna di atavismi che sono invece le radici, il passato da cui tutto ebbe inizio.

E’ un percorso a ritroso nel quale sono in buona compagnia se è vero che anche Marc Augé[4] dalla sua formazione africanista ha desunto gli spunti e gli stimoli all’interpretazione delle società “globalizzate”, tout-court occidentali.

Questo saggio non parla di passato, se non per rappresentare un quadro storico che fa da sfondo al palcoscenico dell’attualità.

L’intento è parlare di futuro, perché può valerne la pena e non solo perché – retoricamente – il futuro appartenga ai nostri figli.

Ma perché il futuro appartiene anche ai figli dell’Africa, o dell’Oriente, come a quelli delle Americhe. Perché ci possa essere un futuro.

Ma credo che le energie ci siano in questa direzione, ed anche gli animi.

La cosa più impressionante che è emersa ai miei occhi durante questo sforzo che ritenevo isolato è che all’interno di un mondo parallelo ed ai più poco noto qual’è quello – il nostro – dei frequentatori del Sahara e dell’Africa, si è andata creando una vera e propria coscienza critica collettiva molto forte.

E’ un mondo popolato anche dalle fascinazioni più elementari ma sulle quali prevale – ad ogni livello – un senso di appartenenza. E per appartenenza intendo le due opposte direzioni: appartenere e possedere. Derivandone la responsabilità e non una estetica e tardiva fascinazione di stampo esotico-orientalista.

Frequentatori non professionali, non mercenari di questa o quella estemporanea organizzazione di “spaccio” di tecnologie obsolete o di solidarismi a buon mercato.

Frequentatori e partecipi di una dimensione davvero metafisica oltre che geografica, non innamorati ma convinti di un’etica e di stili di vita legati alle tradizioni, quelle più autentiche e comunque comuni, elementari e condivise da pressoché tutte le culture e civiltà succedutesi.

Un mondo parallelo che da sempre, forse istintivamente sa relazionarsi con dignità paritetica con l’Africa e gli africani, senza falsi, ipocriti pudori, senza i sensi di colpa di una politica che umilia e rinnega per il più venale – illusorio – tornaconto proprio l’etica di base nei rapporti tra consimili.

Un mondo parallelo cui in realtà anche nei gesti – quelli più istintivi e semplici – non condizionati dalla pratica quotidianità in molti, se non proprio tutti, tendiamo.

A fronte del clamore mediatico che stordisce con la pervasività del proprio messaggio, della sua propria – giacobina – definizione della modernità, del progresso e dello Stato-nazione, si ripresenta, riscoperto in altre contrade, il brusìo delle prime aggregazioni comunitarie, quelle che paradossalmente all’alba del XXI° secolo appaiono l’unico concreto, appropriato e proprio riferimento cui quelle collettività possano rivolgersi.

Questo saggio parla di molte realtà all’apparenza lontane, nel tempo e nei luoghi, e tratteggia situazioni le più disparate, anch’esse solo in superficie scollegate. Senza disturbare il sonno dei dinosauri, che ci dicono condannati a scomparire a causa di un proprio eccesso di specializzazione, queste pagine spaziando in ambiti così differenti uno dall’altro e riannodando tanti temi e tanti fili del pensiero mediterraneo hanno la presunzione di poter rendere più chiara una analisi dei nostri giorni, giorni che sono scanditi ogni ora di più da eventi, spesso lontani, su cui difficilmente possiamo influire, ma che di ritorno possono – essi – interagire violentemente con la nostra vita. Questo saggio parla di una politica che ha fallito, di politici che ci hanno per decenni affabulato dei propri senza mai parlarci dei nostri, di sogni.

Perché capire la genesi degli errori (perché di errori ce ne sono stati nella Storia) può consentirci di uscire da un tunnel quale – questa non è purtroppo presunzione – le generazioni precedenti la nostra non hanno conosciuto.

Perché il metter su carta questi concetti non è fantascienza, non significa riconoscersi in quegli “abomini” che descriveva negli anni ’50 Damon Knight nel suo “Il lastrico dell’inferno” ovvero in una sorta di sfigatissimi superuomini, gli Immuni, appunto refrattari ai condizionamenti operati da un fantomatico “Sistema” e quindi in perenne stato di conflitto. In altri tempi li avrebbero definiti Cassandre, quei soggetti che avevano il difetto di guardare un po’ più avanti del proprio naso, sono i medesimi soggetti che avevano segnalato la crisi immane che andava strutturandosi (non è nata all’improvviso nel 2010 o nel 2011, per un qualche evento calamitoso), in Italia già da oltre otto-nove anni si stava inaridendo il gettito derivante dalle imposte alla fonte derivanti dal lavoro subordinato.

Non era solo l’evasione, purtroppo, era che stavano morendo le imprese, le casse dello Stato italiano, così spudoratamente saccheggiate nell’arco di oltre mezzo secolo da una ineffabile ed impunita classe politica, fino ad allora venivano “ricaricate” in primis proprio da quelle imposte prelevate dalle buste paga. Venendo a mancare questa rendita sarebbe stato perlomeno corretto tentare – anche soltanto dieci/quindici anni fa – di alleggerire le zavorre dello Stato, ridurre costi ed indecenze del finanziamento di quei partiti che con il loro evidente e strafottente menefreghismo nei confronti della collettività che li mantiene spronano di certo alla slealtà fiscale, un diffuso sentito, questo, scomodo e politically uncorrect che pochi hanno la coerenza di ammettere.

Un finanziamento poi che, dopo la parentesi del terremoto di mani pulite, avrebbe dovuto venire cancellato dal referendum popolare del 1993. Il problema al solito venne aggirato e risolto cambiando nome alla faccenda, nacquero i “rimborsi”, verrebbe da chiosare “…sono falliti gli sforzi per soddisfare le masse attraverso l’elezione di rappresentanti o attraverso l’organizzazione di referendum, al fine di conoscere le loro opinioni….” come aveva scritto un certo tiranno nel proprio “Libro Verde”.

Si cambiano i nomi, le guerre sono motivate da “Urgenza di proteggere[5]” oppure saranno semplicemente “Missioni umanitarie” ma anche assai più etici (…) esperimenti di “Esportazione della democrazia”.

Quindi le stalle non verranno chiuse nemmeno dopo la fuga dei buoi.

No. Né superuomo né rivoluzionario, per il sottoscritto si tratta, da individuo perfettamente integrato in questo modello di sviluppo, di riconoscerne una serie di debolezze e criticità, analizzandole nel tentativo di non perpetuare una catastrofe che, non predetta né da Maya né da Nostradamus, è già in corso, appena dietro l’angolo.

Io mi sono appena affacciato all’angolo di quella strada e descrivo ciò che ho intravisto, tra i rottami e le lamiere sventrate dalle esportazioni di democrazia.

Emilio Borelli

maggio 2014

Fonte: www.comedonchisciotte.org

NOTE

[1]Ya moul al kheimat, diff Rabbi” una formula arcaica di ospitalità che suona più o meno Oh, padrone della tenda, ecco l’ospite di Dio.

[2] Il Nordafrica è altra cosa dal mondo arabo ma tant’é, per semplicità e per evitare la spocchia di una preliminare puntualizzazione adotto questa definizione assai in voga.

[3] Prudenza e mancanza di flessibilità

[4] Marc Augé, etnologo francese, già direttore dell’Ufficio della ricerca scientifica e tecnica d’oltremare e della Scuola di alti studi di scienze sociali a Parigi, autore di saggi antropologici sulle società complesse.

[5]Urgence de protéger” fu la drammaticamente ridicola definizione dell’operazione francese di attacco alla Libia.

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