LE RAGIONI DEGLI STATI, GLI STATI SENZA RAGIONI

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DI PAOLO RAFFONE

La Russia e l’Occidente «hanno capito la necessità di cooperare nella lotta al terrorismo internazionale», ma «un accordo è impossibile» perché «ogni Paese ha la propria posizione e il proprio atteggiamento verso i diversi segmenti del problema della lotta al terrorismo». Questa è la spietata analisi di Vladimir Putin, nelle parole riportate dal suo portavoce Dmitri Peskov al margine del G-20 di Antalya. “Terrorismo”, “contro-terrorismo”, “stato d’eccezione”, “guerra globale al terrorismo”, sono concetti complessi e incerti che insistono sul nucleo duro dell’esercizio del potere in uno “spazio vuoto” metagiuridico dove il potere reale, insindacabile, si incontra e si scontra. La Francia che era già in guerra dal 2014 ha subìto degli attentati nel 2015. Dopo quelli del 13/11 il presidente Hollande ha dichiarato che La Francia è in guerra” perché “gli atti commessi sono un atto di guerra, decisi, pianificati e preparati in Siria dove il nostro nemico è lo Stato Islamico (ISIL, Daesh)”.

Intanto, secondo Stati Uniti, Arabia Saudita e Francia il presidente siriano Bashar Al Assad se ne deve andare. La Francia e il Belgio hanno adottato lo “stato di eccezione” con coprifuoco parziale. L’Unione Europea ha adottato misure da “stato di eccezione” che devono essere approvate dal Parlamento europeo. L’ONU approva all’unanimità l’ambigua risoluzione francese sulla guerra al califfo. Il rischio è di scivolare in una “guerra civile mondiale”.

Questo saggio si concentra sui delicati meccanismi dell’esercizio del potere e della sovranità in un ambito particolare, e poco noto, che è lo “spazio vuoto”, anomico e extra-legale, dove il potere è reale e dove si incontrano e si scontrano “terrorismo” e “anti-terrorismo”. Partendo da un’analisi di questi fenomeni e delle modalità con cui si comporta il potere costituto, si analizza la situazione che si è prodotta in Francia dopo il 13/11 e in Europa e le sue conseguenze.

Prima di affrontare il tema centrale, crediamo utile una breve premessa di inquadramento contestuale.

Il quadro geopolitico attuale in Medio Oriente è la risultante di oltre un secolo di rapporti tra le potenze europee, particolarmente Francia e Inghilterra, e poi gli Stati Uniti con i paesi della regione. Il dominio dei mercati mondiali era l’obiettivo degli europei, e il Mondo Arabo del Medio Oriente offriva una facile occasione una volta escluso il concorrente Ottomano. Inoltre, all’inizio del XX secolo la rilevanza assunta dalle risorse fossili, petrolio e gas, per lo sviluppo industriale ed economico occidentale fece aumentare il valore della posta in gioco tra le potenze. Mentre si consumava la Prima Guerra Mondiale in Europa, l’accordo segreto franco-inglese del 1916, l’accordo Sykes-Picot, prevedeva una spartizione tra i due paesi dei territori arabi controllati dagli Ottomani. Fu così che, con un atto di tradimento degli arabi ai quali era stata promessa la creazione di un unico stato arabo, i due paesi europei ridisegnarono la mappa politica del Medio Oriente creando stati dai confini artificiali e strutturati ad immagine di quelli europei. Non è un caso che uno dei primi atti del Daesh (Stato Islamico) è stato proprio la distruzione fisica della linea di confine tracciata dal Sykes-Picot tra Iraq e Siria[1]. Questo atto è simbolicamente molto importante per capire lo stato d’animo di coloro che sostengono e si uniscono allo Stato Islamico. “La brusca apertura alla modernizzazione occidentale è uno dei problemi più complessi nel mondo islamico, che non ha permesso che fosse elaborato il trauma del suo impatto in uno spazio simbolico-immaginario”[2]. Da un lato si sono viste forme di modernizzazione superficiale (come ad esempio l’Iran negli anni dello Scià), dall’altro il ricorso alla verità assoluta ispirata alla religione islamica contro la menzogna dell’Occidente. Evidentemente quest’ultima è una forma di fondamentalizzazione senza possibilità di mediazione. È in questo tormentato quadro che si sono sviluppati i diversi movimenti di jihad, la resistenza attiva in nome del profeta, fino ad arrivare ai movimenti radicali e violenti dei quali AlQaeda fa parte. Tutti movimenti sostanzialmente pre-moderni. Il caso dello Stato Islamico (Daesh) è diverso, esso è “fondato su un insieme di principi che superano quelli di nazione e di popolo, in un senso di cittadinanza universale”[3]. Si può apprezzare che questa concezione è profondamente moderna, come è anche la sua violenza (abilmente e simbolicamente mediatizzata). D’altra parte, l’analisi delle informazioni sulla sua organizzazione operativa, sia nella gestione amministrativa sia in quella finanziaria, mostrano che non si tratta di un gruppo di “tagliagole barbute” ma che essi usano perfettamente le più moderne tecnologie, tecniche di reclutamento, fundraising e strategie. “Ignorare questi fatti è non solo superficiale e ingannevole, ma è pericoloso. Conoscere il proprio nemico è il principio fondamentale nella lotta al terrorismo”[4].

Le ragioni degli stati.

Quel che colpisce molto è che ad ogni occorrenza di un evento definito “terroristico” si pensi che sia una novità dotata di una demiurgica eccezionalità. I “cattivi” o “nemici” sono in azione, si pensa, e fioccano interpretazioni le più disparate. Si ha l’impressione di essere perpetuamente sotto tiro e che ormai il potere costituito sia sotto scacco. “Ci invaderanno”, si rumoreggia, confondendo immigrazione e terrorismo, fede e realtà. Oppure, ci si convince che le “forze del male” stiano per lanciare l’assalto finale. Una psicosi collettiva che spesso è fomentata dall’eccesso di cattiva informazione. Ecco qui sotto un grafico dell’Economist che ci mostra tutti gli attacchi terroristici sul suolo europeo dal 2001 ad oggi che abbiano provocato almeno 1 morto:

14 years

Come si vede i paesi più esposti ad atti di terrorismo di matrice religiosa (islamista) sono 3: Regno Unito, Francia e Spagna. Il Regno Unito (come gli USA) e la Francia sono volontariamente coinvolti in operazioni di “sicurezza” in molti paesi nel mondo, particolarmente in aree molto instabili e conflittuali. Ciò spiega almeno in parte l’incidenza degli atti terroristici in questi paesi. In particolare, la Francia era già in guerra sia contro AlQaeda sia contro il califfato ben prima degli eventi del 13/11 del 2015. La Spagna subì un attacco importante 11 anni fa, principalmente a causa del suo coinvolgimento nella guerra in Iraq nel 2003 (dopo il vertice delle Azzorre) e della sua esposizione geografica sulla rotta criminale, immigratoria e terroristica dal Marocco (e quindi dall’Africa Occidentale) verso l’Europa. Fatta eccezione del caso molto nazionale norvegese, gli altri paesi hanno subito relativamente pochi o nessun attacco terroristico negli ultimi 15 anni, cioè dopo il noto attacco di AlQaeda alle torri gemelle a New York nel 2001. Ciò non significa che gli altri paesi siano immuni dal rischio terroristico ma che l’incidenza in termini di tempo, vite e periodicità è inferiore a quel che si immagina ascoltando i media.

Prima di entrare nel vivo delle questioni di attualità è necessario fare alcune precisazioni concettuali e metodologiche relative al “terrorismo, “contro-terrorismo”, e “stato d’eccezione”. Tutti fenomeni intrinseci all’esercizio del potere.

Il “terrorismo” è sempre esistito in relazione all’esercizio del potere. Episodi di “terrorismo” sono infatti avvenuti in vari periodi storici e sotto diversi regimi politici: le congiure di palazzo ai tempi dell’impero romano o dei principati rinascimentali; gli attentati dinamitardi contro i sovrani autocratici; le azioni di guerriglia di movimenti anticoloniali in periodi più recenti ne sono solo alcuni esempi. Tuttavia, la parola “terrorismo” è apparsa per la prima volta il 30 gennaio 1795 in una lingua occidentale sul quotidiano britannico The Times in riferimento ai tentativi di alcuni gruppi di rovesciare la monarchia. Tutte le lingue indoeuropee hanno adottato questa parola che mantiene la radice latina “terror”. È interessante notare che nella lingua cinese esiste una traduzione del termine “terrorismo” che associa la violenza al caos e al disordine sociale, ma ancora non esiste una definizione linguistica ufficiale e accettata. Durante l’Impero il concetto di “terrorismo” non esisteva ma si usava il termine “violenza politica” contro l’Imperatore ed era divisa in “cattiva”, se generava caos, e in “buona” se serviva a punire i governanti incapaci o corrotti (“senza virtù”) che perdevano il “mandato celestiale”. In lingua russa il termine “terrorismo” è relativamente recente (secondo alcuni dal 1880) e il significante indicherebbe che esso è una delle opzioni della lotta politica che fa uso di violenza ideologicamente motivata. Nella definizione del codice penale il “terrorismo” è un atto commesso pubblicamente e pericoloso per il pubblico con lo scopo di intimidire la popolazione o dei gruppi sociali per avere un impatto diretto o indiretto nell’adozione di decisioni favorevoli agli interessi dei terroristi[5].

Nel mondo, ad oggi ancora non esiste una definizione del “terrorismo” globalmente condivisa ed accettata. Dopo l’assassinio di Sarajevo nel 1914 e quelli negli anni ’30 a Marsiglia di un re jugoslavo e di un ministro degli esteri francese, nel 1937 la Lega delle Nazioni tentò una definizione cumulativa e condivisa ma non fu mai adottata[6]. Dal 1996, le Nazioni Unite hanno tentato senza successo di raggiungere un accordo per una Convenzione mondiale sul terrorismo. Attualmente esistono oltre 100 diverse definizioni di “terrorismo” con più di 22 diverse caratteristiche. Inoltre, sono state redatte una decina di Convenzioni settoriali ONU sul terrorismo, aperte alla ratifica degli stati, ed ogni organizzazione regionale si è dotata di simili strumenti per la lotta al “terrorismo”[7].

Nonostante ciò, prendendo a prestito alcuni concetti della scienza politica e della filosofia si possono inquadrare certe questioni importanti relative al “terrorismo”. I quattro paragrafi che seguono aiuteranno anche a leggere i fatti di attualità dei quali diremo successivamente[8].

È in qualche modo “terroristico” un tentativo destituente del potere istituzionalmente costituito, ma anche un tentativo rivoluzionario, benché costituente nelle aspirazioni. In entrambi i casi si tratta di fatti eccezionali e di tentativi tesi al cambiamento politico della direzione politica di una società. Tranne qualche caso storico di rivoluzione con successo, anche se con effetti solo nel breve periodo, è bene non dimenticare che tutti gli altri casi di organizzazioni o azioni “terroristiche” destituenti hanno fallito nel loro obiettivo politico diretto. Invece, è solo il potere costituito che può fare uso in casi eccezionali (minaccia o azioni “terroristiche”) di atti destituenti per esercitarsi senza i vincoli delle leggi. Non è un caso, infatti, che ad ogni evento che il potere costituito definisce come “terroristico” segue una dose di eccezionalità nell’esercizio del potere stesso.

Paradossalmente, la demiurgica eccezionalità “terroristica” si trasferisce osmoticamente proprio al potere istituzionalmente costituito che adotta decisioni eccezionali, cioè decreta la sospensione dell’esercizio ordinario del potere assumendo e concentrando funzioni tali da evitare il tracollo del sistema in esercizio. Non è un caso che alle azioni di “terrorismo” (il male) si contrappongano quelle legittime, perché sovrane, di “contro-terrorismo” (il bene). Negli antichi regimi di potere del Medio Evo esistevano un gran numero di trattati sugli angeli che distinguevano in modo inequivocabile e assoluto il bene dal male. Invece, nei regimi democratici le definizioni sono sfumate, ambigue, incerte. La democrazia (il bene) è qualificata prevalentemente attraverso la tecnica e tecnologia dell’amministrazione, cioè la tecnica del potere, una tra le altre. Il “terrorismo” (il male) è qualificato come un fenomeno che si manifesta attraverso l’esercizio della violenza, anche armata, in modo illegittimo e illegale, finalizzata a incutere terrore nei membri di una collettività organizzata e a destabilizzarne o restaurarne l’ordine, mediante azioni quali attentati, rapimenti, dirottamenti di aerei e simili. Quindi, si intuisce che il “terrorismo” è in relazione stretta con l’esercizio effettivo della sovranità e per questo è contrastato e opposto. L’antiteticità non è dunque tra “democrazia” o “stile di vita” e “terrorismo” – concetti metagiuridici – ma tra “esercizio effettivo e illegale del potere” (terrorismo = il male) e “esercizio effettivo della sovranità” (le istituzioni costituite = il bene). Infatti, qualsiasi regime di potere costituito – dittatoriale, totalitario, teocratico, democratico –tratta il “terrorismo” come il male da prevenire o da annientare. Al netto delle pratiche e tattiche usate nell’esercizio delle due attività, e degli effetti diretti e indiretti violenti e terrorizzanti che ne conseguono, la vera posta in gioco tra le due antitetiche pratiche del potere è “l’esercizio del potere costituito”.

Per queste ragioni, la reazione tipica del potere costituito confrontato con attacchi o minacce di tipo “terroristico” è di decretare lo “stato di eccezione” che Carl Schmitt descriveva così: “lo stato di eccezione si presenta come la forma legale di ciò che non può avere forma legale”. Definizione pregnante ma non valida in tutti i regimi. Infatti, ai nostri tempi, lo stato di eccezione subisce un trattamento diverso nelle tradizioni giuridiche dell’occidente. Vi sono ordinamenti che regolano lo stato di eccezione nella stessa costituzione o mediante una legge (come la Francia e la Germania) e ordinamenti che ne omettono la regolamentazione (quali l’Italia, la Svizzera, il Regno Unito e gli Stati Uniti)[9]. Nei primi si può legalmente sospendere la legge, nei secondi è puro atto d’imperio, extra-legale. La questione non è un formalismo perché se lo stato di eccezione non è assimilato al diritto attraverso una sua regolamentazione per legge, si difende di fatto non solo l’autonomia della sfera politica da quella giuridica, ma si legittimano tutti gli atti politici che, pur essendo evidenti violazioni dei codici, rimangono in uno stato di indeterminazione sul piano giuridico solo per il fatto che sono stati commessi nell’ambito dello stato di eccezione. L’insindacabilità degli atti metagiuridici compiuti nello spazio temporale decretato dallo stato d’eccezione crea una norma per cui la politica è superiore al diritto e all’etica pubblica di cui il diritto rappresenta la traduzione istituzionale, convalidata dalla volontà generale. Questioni delicatissime perché riguardano la violenza e il suo rapporto con il diritto, che è un problema attualissimo nel quadro dell’Unione Europea e dei suoi 28 stati membri che sono confrontati a minacce eccezionali.

Appare dunque chiaro che il potere costituito fa uso di azioni di “contro-terrorismo” per proteggersi da minacce o azioni “terroristiche”. Ciò avviene a prescindere dall’uso della decretazione dello “stato di eccezione”, in tempo di pace e dovunque nel mondo. Quando lo “stato di eccezione” è decretato tali attività subiscono un’espansione e una capillarità che altrimenti risulterebbe limitata dal quadro giuridico, sia legislativo sia costituzionale, che infatti viene in parte o in tutto sospeso. Tuttavia, le attività di “contro-terrorismo” rientrano sempre nello “spazio vuoto” che il potere crea appositamente tra la violenza e il suo rapporto con il diritto. Come il “terrorismo” anche l’”anti-terrorismo” è la massima espressione dell’esercizio del potere reale, insindacabile e metagiuridico. Ciò spiega perché non esiste una definizione di “terrorismo” comune e accettata a livello mondiale o europeo. Entrambe queste attività fanno uso di tattiche militari, tecniche e tecnologie avanzate, e strategie. L’obiettivo dell’una è intrudere l’altra con la finalità di renderla inoffensiva o neutralizzarla. Non è infrequente che la strategia di anti-terrorismo includa anche il reclutamento di terroristi, il loro finanziamento o rifornimento. Come si può apprezzare, la soglia di differenziazione tra l’una e l’altra attività può essere spesso molto labile. Il “terrorismo” per definizione agisce al di fuori di qualsiasi riferimento giuridico mentre il “contro-terrorismo” agisce secondo la regolamentazione giuridica nazionale che definisce e decreta le funzioni e attività insindacabili e quindi extra-legge o anomiche. Come Giano, in queste attività il potere ha due facce, l’una espressione della “sovranità” (il bene) e l’altra del “potere reale” (il male). Ad esempio, nel 2006 la Corte Suprema di Israele ha sentenziato che le attività di uccisione mirata con finalità anti-terroristica sono legittime forme di auto difesa[10]. In altri sistemi giuridici ciò non sarebbe possibile se non in presenza della decretazione dello “stato di eccezione”! Un altro esempio è dato dalle affermazioni del primo ministro britannico Tony Blair nel 2003 per giustificare l’invasione dell’Iraq. L’obiettivo strategico era di “cambiare il regime” e sostituire il governante dell’Iraq. Poiché non esisteva alcuna base legale per usare la forza militare con questa finalità, una vasta operazione di “contro-terrorismo” identificò l’esistenza di armi di distruzione di massa in possesso di Saddam Hussein. Il regime (e il paese) fu abbattuto manu militari, ma nel 2015 Blair ha pubblicamente riconosciuto che “si era sbagliato nel valutare le informazioni della sua intelligence” e che quell’impresa “ha favorito la nascita di ISIL”[11]. La differenziazione tra “terrorismo” e “contro-terrorismo” appare ancor più labile.

Una breve digressione storica può essere utile a capire meglio i concetti sovraesposti. Il caso più interessante è quello della plurisecolare lotta all’eresia, cioè l’antiteticità tra ortodossia (il bene = potere costituito) e la deviazione (eresia = terrorismo): iniziò a livello teologico nel V secolo con Sant’Agostino e trovò il suo apice militare nel XII e XIII secolo con gli editti e le campagne militari di Federico II. Il vero salto di qualità fu compiuto tra il XIII e il XVI secolo con la legittimazione degli inquisitori (che oggi sarebbero i “contro-terroristi”) che compievano infiltrazioni, spionaggi, schedature, assalti e uccisioni nel quadro di neocostituitesi strutture giuridiche, armate e repressive. Lo scopo era di annientare il “nemico” e quando possibile di “convertirlo” al bene. Questo fenomeno rassomigliò ad una vasta “guerra civile intra-cristiana” senza reali vincitori. Infatti, più le reti eretiche venivano colpite più l’eresia si diffondeva. Si risolse solo con un nuovo approccio strategico e con la mediazione “politica” che fu proposta al papa dalla neonata Compagnia di Gesù. Quando al tempo di oggi si tratta di “terrorismo” e di “anti-terrorismo” non va dimenticata questa lezione storica tutt’ora più che valida. A conferma di ciò, è di grande interesse la lettura di un recente libro nel quale si traggono le lezioni imparate in anni di negoziati per la liberazione di ostaggi detenuti da gruppi di guerriglia islamici in Medio Oriente: “le istituzioni non decidono chi debba essere distrutto o ucciso, se fare la pace o la guerra, ma tali decisioni rilevano esclusivamente dalla responsabilità di specifici individui. La comprensione dell’altro da parte degli antagonisti, in quanto individui con ambizioni, dolori, traumi e risentimenti è essenziale per capire le condizioni del loro pensiero che essi stessi spesso non capiscono. Riuscire a calarsi nella mentalità del nemico è spesso più efficace dell’uso della forza o delle armi”[12]. In pratica, come i gesuiti anche gli autori raccomandano azioni di intelligence basate sulla conoscenza invece che sulla forza. Su questo punto, cioè sul fattore umano (HUMINT), si registra la più grande debolezza dei sistemi di sicurezza occidentali. Affidatisi a massicce raccolte di dati e valutazioni quantitative (SIGINT), le agenzie di intelligence occidentali hanno sempre più difficoltà ad assolvere il compito di “prevenzione” e di “intrusione” nei confronti delle minacce di tipo “terroristico”. Come il caso francese ci mostra, assistiamo ad una grande efficacia ex-post, cioè nella gestione delle conseguenze che seguono un attacco di tipo “terroristico”.

Veniamo ora alla situazione attuale, al “terrorismo”, al “contro-terrorismo” e alla “guerra globale al terrorismo”.

Negli Stati Uniti la definizione di “terrorismo” è cambiata nel tempo ed è contenuta in vari atti legislativi che presentano diversità interpretative e concettuali non marginali. Il più recente è il Patriot Act del 2001[13], adottato tempestivamente dal Congresso in seguito all’attacco alle torri gemelle. Il testo originale riguarda la definizione del terrorismo che assume la qualifica di “domestic” che si svolga principalmente sul suolo Americano o altrove nel mondo: “activities that (A) involve acts dangerous to human life that are a violation of the criminal laws of the U.S. or of any state; (B) appear to be intended (i) to intimidate or coerce a civilian population; (ii) to influence the policy of a government by intimidation or coercion; or (iii to affect the conduct of a government by mass destruction, assassination, or kidnapping; and (C) occur primarily within the territorial jurisdiction of the U.S.”.Le conseguenze dell’applicazione di questa legislazione anti-terrorismo alle libertà civili, inclusa la libertà di espressione, i diritti degli immigrati, le transazioni monetarie, la ricerca e lo scambio di informazioni, i dati personali e la tutela della privacy, sono diventate note con il caso Edward Snowden. I poteri di spionaggio dei servizi segreti americani sono stati considerevolmente ampliati non solo sul territorio nazionale ma anche all’estero. In pratica, si tratta di un’ampia legislazione che ha istituzionalizzato uno “stato di eccezione” semi-permanente con estensione internazionale. Infatti, è proprio dall’entrata in vigore di questa legislazione, che ha seguito di pochi giorni la dichiarazione del presidente George W. Bush sulla “guerra globale al terrorismo”, che la percezione del “terrorismo” è diventata di “minaccia alla pace e alla sicurezza mondiale”. I lunghi 14 anni di durata dello “stato di eccezione” americano hanno portato al limite la tensione tra le forze del “contratto sociale” e quelle della “autoritas”, creando uno spazio vuoto e non giuridico nel quale le agenzie di sicurezza hanno potuto agire indisturbate e non sempre allineate con il potere politico. I casi dei centri di detenzione in Iraq o a Cuba sono esemplificatori, ma anche le attività di contro-terrorismo che hanno condotto alla creazione di eserciti paralleli all’interno di più di un paese e contro i governi legittimi. La situazione in Afghanistan, Siria e Libia sono esemplificative e in contraddizione con le legislazioni adottate dopo le catastrofiche esperienze in Vietnam, Iran e in Nicaragua (affare Contras) che prevedevano una limitazione delle “attività di interferenza” diretta negli affari interni di un paese terzo. Lo “stato di eccezione” è diventato una regola di applicazione mondiale rischiando di rompere il funzionamento della macchina che era fondata sull’equilibrio regolamentato di potestas e autoritas. La guerra globale al terrorismo non sembra aver ancora raggiunto il suo obiettivo principale: doveva distruggere ed eliminare AlQaeda ma ha creato ISIL e un intreccio di altre sigle terroristiche più o meno collegate tra loro. Invece, la macchina è diventata disfunzionale nella relazione tra apparati militari e di sicurezza da un lato e la politica dall’altro. Intanto, come avvertiva Giorgio Agamben, il mondo sta scivolando in una “guerra civile mondiale”[14].

In Francia si è fatto un uso ricorrente dello “stato di eccezione” dal dopoguerra ad oggi. Si deve notare che secondo la costituzione francese che regola l’esercizio dello “stato d’eccezione”, esistono vari livelli della sua applicazione. Essi possono essere distinti in due grandi categorie: “etat d’urgence” che è regolato dalla legge del 1955 deroga al rispetto di alcune norme costituzionali e legislative, e amplia i poteri dei prefetti governativi e delle forze di sicurezza in un tempo e spazio determinati; “etat de siege”, il solo di rango costituzionale, trasferisce ai vertici militari il potere di governo del territorio. Ecco una sinopsi della sua applicazione recente:

  • 1955: “etat d’urgence” in seguito agli attentati del novembre 1955 compiuti dal Fronte di Liberazione Nazionale Algerino; fu prorogato per 6 mesi;
  • 1958: “etat d’urgence” in seguito al colpo di stato in Algeria; fu proclamato per 3 mesi sull’insieme del territorio nazionale;
  • 1961-1963: “etat d’urgence” in seguito al colpo di stato in Algeria; fu proclamato dal generale De Gaulle su tutto il territorio nazionale;
  • 1984: l’allora primo ministro Laurent Fabius decretò l’ “etat d’urgence” in Nuova Caledonia, un territorio d’oltre mare amministrato dalla Francia;
  • 2005: il presidente Jacques Chirac decretò l’ “etat d’urgence” in seguito alle rivolte delle minoranze etniche, principalmente di religione islamica, nelle periferie parigine; il decreto autorizzava i prefetti a dichiarare il “copri fuoco”; il dibattito parlamentare che ne seguì limitò sostanzialmente molte delle previsioni del decreto e la sua durata che fu ristretta a 3 mesi eventualmente rinnovabili; il decreto restò in vigore dall’8 novembre 2005 al 4 gennaio 2006;
  • 2015: il presidente Francois Hollande e il Consiglio dei Ministri hanno adottato il 14 novembre 2015 il decreto che instaura l’ “etat d’urgence” su tutto il territorio nazionale, inclusa la Corsica, e poi esteso a tutti i DOM TOM; tra le altre previsioni, il decreto autorizza i prefetti a compiere “perquisizioni amministrative” senza l’autorizzazione della magistratura sia diurne che notturne; il presidente Hollande ha chiesto di modificare la Costituzione per ridurre le “limitazioni regolamentari” nell’esercizio dell’ “etat d’urgence”.

Subito dopo gli attentati di Parigi, il 16 Novembre 2015, il presidente Francois Hollande ha pronunciato un discorso al Parlamento francese nel quale ha annunciato che “la Francia è in guerra”[15]:

  1. “La Francia è in guerra” perché “gli atti commessi sono un atto di guerra” che hanno provocato 129 morti e “costituiscono un’aggressione contro il nostro paese, i suoi valori, la sua gioventù, e il suo modo di vivere”.
  2. “Sono stati perpetrati da un esercito djhiadista, il Daesh, che ci combatte perché la Francia è un paese di libertà” e la patria dei diritti umani.
  3. “La mia volontà è di mettere tutta la potenza dello stato al servizio di protezione dei nostri concittadini”.
  4. “Noi non siamo in una guerra tra civilizzazioni” ma “in una guerra contro il terrorismo djhadista che minaccia il mondo intero, non solo la Francia”.
  5. “Il nemico non è fuori della nostra portata”.
  6. “Gli atti di guerra sono stati decisi, pianificati e preparati in Siria; sono stati organizzati in Belgio e condotti con dei complici sul territorio francese”.
  7. “Siamo confrontati ad un esercito, il Daesh, che dispone del controllo su un territorio, di risorse finanziarie e di capacità militari”.
  8. “Ho dato ordine di intensificare i bombardamenti in Siria”.
  9. “Il terrorismo lo combatteremo ovunque vi siano degli stati che siano minacciati della loro stessa sopravvivenza” per permettere alle “autorità di questi paesi di restaurare la loro sovranità sull’insieme del territorio, e in Siria cerchiamo risolutamente una soluzione politica nella quale Bashar Al Assad non potrà essere il risultato ma il nostro nemico in Siria è il Daesh”.
  10. Dobbiamo dunque distruggere questa organizzazione, non contenerla, sia per liberare le popolazioni di Siria e Iraq sia per evitare che dei combattenti stranieri vengano sul nostro territorio per compiere atti terroristici.
  11. Ho chiesto l’attivazione dell’articolo 42.7 del Trattato di Lisbona perché “il nemico è europeo”. Per questo ho chiesto che l’Europa accolga i genuini richiedenti asilo e rinvii coloro che non rientrano in questa categoria. Per fare questo ci vuole un controllo effettivo delle frontiere, che ad oggi non esiste. Non agire in tal senso significa “il ritorno alle frontiere nazionali” che “porterà alla decostruzione dell’Unione Europea”.
  12. “Dobbiamo andare oltre l’urgenza. Credo che dobbiamo far evolvere la nostra Costituzione per permettere al potere pubblico di agire, conformemente allo stato di diritto, contro il terrorismo di guerra”.

Risalta subito che il presidente Hollande ha voluto identificare un “nemico misurabile su un territorio” che ha “commesso atti di guerra in Francia”. Si tratta di un’affermazione perentoria, insindacabile, e sovrana. D’altra parte era anche l’unica che gli avrebbe permesso di dichiarare che “la Francia è in guerra” (anche se la Francia era già in guerra contro AlQaeda dal 2001 e poi contro il califfato in Iraq dal 2014). Proprio queste caratteristiche della decisione francese sono le più preoccupanti visto che la Francia è un paese membro dell’ONU, della UE e della NATO ma con la dichiarazione di guerra del 2015 ha agito con un atto militare di autodifesa per anticipazione (pre-emptive) cercando solo dopo il sostegno dei suoi partner e alleati. Ad eccezione delle dichiarazioni di “solidarietà” dell’UE (ex articolo 42.7), un atto dovuto ma dalle conseguenze pratiche poco effettive, nessun’altra organizzazione ha condiviso la posizione francese. Le due superpotenze, Stati Uniti e Russia, si sono limitate a disporre “una forma di cooperazione di intelligence” con la Francia per sostenerla nel corso dei bombardamenti sulle postazioni del Daesh in Siria. Dell’effettività della coalizione di 40 stati a trazione americana contro il Daesh non si ha più quasi notizia. Sul piano giuridico, la decisone francese di bombardare le postazioni “terroriste” in Siria non trova conforto nelle risoluzioni del CdS dell’ONU. La sola norma internazionale alla quale può fare appello la Francia è l’autodifesa prevista dall’articolo 51 della Carta ONU. Invece, l’azione militare della Francia sembrerebbe piuttosto un’autodifesa per anticipazione (preemptive strike) che esula dall’articolo 51. Mentre la Russia è presente in Siria in base all’invito esplicito del legittimo governo siriano di Al Assad, e gli USA in Iraq in base alle risoluzioni ONU e all’invito del governo di Bagdad, la Francia è intervenuta in Siria senza alcuna solida base legale. Un atto di potere sovrano metagiuridico che rischia di avere conseguenze indirette sull’Unione Europea. Ristabilire così la sovranità nazionale, come ha fatto Hollande, significa ristabilire la sovranità della nazione anche nei confronti delle strutture sovranazionali, com’è la UE, e riaffermare il principio di autodeterminazione oltre che quello dell’auto-difesa[16].

La seconda affermazione problematica è: “Gli atti di guerra sono stati decisi, pianificati e preparati in Siria; sono stati organizzati in Belgio e condotti con dei complici sul territorio francese”. Sull’origine siriana degli attacchi la Francia non ha fornito alcuna prova credibile. Ad eccezione dello strano ritrovamento di un passaporto siriano falso sulla scena degli attacchi, null’altro. Inoltre, la voce della rivendicazione audio attribuita all’ISIS è stata identificata essere quella di Fabien Clain, un jihadista francese di Tolosa che dal 2014 si troverebbe in Siria ma era ben noto ai servizi di sicurezza francesi (DGSE) sin dal 2008 quando fu arrestato e poi nel 2012 in relazione agli attentati di Tolosa[17]. Molto strano è anche che il solitamente ben informato sito SITE non abbia pubblicato alcun video di rivendicazione da parte di esponenti di rango dell’ISIS mentre il 22 novembre è circolato in rete un video attribuito all’ISIS dal titolo “Parigi è crollata” con voci e sottotitoli in francese nel quale si rivendicano gli attentati del 13/11 e si annunciano dei nuovi in uno scenario di crollo della torre Eiffel[18]. In uno dei sottotitoli si legge “noi non vogliamo fare la guerra a voi ma alle trasgressioni dei vostri sistemi”. Il riferimento sembrerebbe chiaramente diretto alle politiche mediorientali della Francia e non al suo popolo, stile di vita o libertà. Quanto all’affermazione che gli atti “terroristici” siano stati “organizzati in Belgio”, ciò si scontra con le affermazioni delle “autorità belghe che non hanno rilevato alcuna pericolosità dei soggetti presuntamente coinvolti”[19]. Intanto, anche il Belgio ha dovuto imporre un parziale “etat d’urgence” e compiuto raids e perquisizioni extragiudiziarie in vari quartieri di Bruxelles. Questi attacchi sono stati “condotti con dei complici sul territorio francese” è un’affermazione sorprendente. Quali complici e in che settori, ruoli o ambiti? In ogni caso è una chiara ammissione dell’inefficienza delle forze di sicurezza francesi prima degli attacchi. Questa affermazione sembra riferirsi a quello “spazio vuoto” in cui sia il “terrorismo” sia in “contro-terrorismo” agiscono. Un’affermazione molto inquietante che dovrebbe provocare domande precise da parte degli organi comunitari e degli altri stati membri dell’UE. Inoltre, poiché dopo l’attentato del 7 gennaio 2015 al giornale satirico Charlie Hebdo la Francia affermò di avere le prove che “l’azione era stata preparata da AlQaeda in Yemen”, perché la Francia non ha iniziato a bombardare questa organizzazione in quest’ultimo paese?

La terza considerazione riguarda la richiesta, del tutto illegittima, di “regime change” con la sostituzione del presidente siriano Al Assad. Inoltre, la Francia si propone di fare una guerra “dovunque nel mondo” contro i terroristi ma poi dichiara di voler “liberare le popolazioni di Siria e Iraq”. E perché non tutte le altre in almeno una ventina di paesi che subiscono gli stessi effetti drammatici e violenti del Daesh e dei suoi affiliati? Sembra che il riferimento solo a Siria e Iraq sia una scelta deliberata di Hollande. Per quali insindacabili ragioni? E poi, il presidente Hollande afferma che il suo intervento militare contro il “terrorismo ovunque nel mondo” serve perché le “autorità di questi paesi possano restaurare la loro sovranità sull’insieme del territorio”. Quale migliore occasione di far questo proprio in Siria? La Francia sembra perseguire propositi piuttosto contraddittori e confusi su questo terreno.

Infine, il presidente Hollande chiede di “cambiare la Costituzione francese” per “andare oltre l’urgenza”. Non è chiaro il suo pensiero ma sembrerebbe che implichi la volontà di avere un quadro legislativo, o costituzionale, che permetta l’istituzionalizzazione dello “stato d’eccezione” sul modello del Patriot Act americano. Una tale decisione, se sarà approvata, provocherà un’ulteriore frattura in seno all’UE che vede sistemi giuridici molto diversi tra loro in questa materia. La Francia può, in esercizio della propria sovranità, compiere tale passo ma senza un’armonizzazione legislativa comune si troverebbe fuori dal quadro giuridico comunitario. In relazione alla richiesta di modifica costituzionale, il presidente Hollande introduce un nuovo concetto, il “terrorismo di guerra”, del quale non si capiscono né i contorni né gli aspetti sostanziali. Sul piano esegetico sembrerebbe suggerire che esista una guerra che produce terrorismo. Se così fosse, allora la questione principale sarebbe di fermare la guerra. Ad esempio si dovrebbe vietare di vendere armamenti ai paesi che sostengono i gruppi armati in conflitto o di rifornirli o finanziarli. Ma sembra che su questo piano ogni stato scelga il suo amico e nemico in piena autonomia. Le istituzioni europee stanno adottando con inusitata rapidità pacchetti di legislazione in materia di “anti-terrorismo”che prevedono di reintegrare i controlli alle frontiere per tutti coloro che vi transitano, ma anche una serie di altre misure restrittive delle libertà di cui finora il blocco UE si era vantato nel mondo. Misure probabilmente necessarie, ma certo avranno un effetto sulla percezione già negativa dell’opinione pubblica rispetto all’Unione Europea. Se poi, come vorrebbe la Francia, si arrivasse ad un Patriot Act europeo la reazione popolare potrebbe essere sorprendente.

In conclusione, possiamo dire che la Francia ha subito degli attacchi di tipo “terroristico” sul suo territorio che difficilmente avrebbero potuto mettere in pericolo la tenuta del sistema istituzionale, sia per la tipologia degli obiettivi scelti sia per l’estensione degli attacchi stessi. Infatti, lo stesso Hollande ha dichiarato che essi “costituiscono un’aggressione contro il nostro paese, i suoi valori, la sua gioventù, e il suo modo di vivere”. A ben vedere questa affermazione non solo è metagiuridica ma anche metasociologica. Nonostante le più di 100 definizioni di terrorismo, è comunque centrale la caratteristica del “cambiamento politico della direzione politica di una società” che da quanto avvenuto a Parigi non si evince. L’inondazione di “je suis Paris” e di “je n’ai pas peur” testimoniano di una reazione sana ed efficace della popolazione non solo francese, ma anche musulmana residente in Europa. In realtà è solo il concetto americano di terrorismo, quello del Patriot Act, che espande a dismisura la tipologia e l’intenzionalità di atti che possono essere considerati come “terrorismo”. Nella tradizione giuridica e culturale dei paesi europei una tale impostazione è difficilmente ricevibile se non imponendola con lo “stato di eccezione”. Finanche il modello di common law, quello britannico, ha creato solo dei limitati casi specifici di “eccezione” rispetto alla legge ordinaria mentre la maggior parte del lavoro si svolge nello “spazio vuoto” dell’esercizio della sovranità attraverso le attività insindacabili delle agenzie di sicurezza e dell’anti-terrorismo[20]. Inoltre, vige comunque il principio generale della proporzionalità della reazione rispetto all’attacco subito. La dichiarazione di Hollande “la Francia è in guerra” e la decisione di incrementare i bombardamenti in Siria non sembra proporzionata rispetto all’attacco subito. Ha tutte le caratteristiche della “rappresaglia” che va ricordato che è un atto vietato dal diritto internazionale. Come altro si può descrivere un’azione di estrema violenza compiuta sul territorio di un altro stato contro una specifica comunità umana ivi residente oppure l’esecuzione di raids paramilitari extragiudiziari che hanno per obiettivo solo soggetti di una specifica etnia o fede e in specifici luoghi dove essi vivono per il solo motivo di essere sospettati di essere venuti meno agli obblighi rispetto al paese che li ospita? Solo lo “stato d’eccezione” può permettere la violazione di principi fondanti come la non discriminazione e la tutela della privacy e del domicilio. L’istituzionalizzazione di situazioni “eccezionali” rischia di far scivolare i sistemi europei verso modelli di “democratura” o “totalcrazia”.

Gli stati senza ragioni.

In considerazione di tutto ciò ci si può chiedere se i fatti avvenuti in Francia siano realmente atti di “terrorismo” o invece “rappresaglie” per la decisione della Francia di smarcarsi dalle tradizionali e insindacabili relazioni con certi stati mediorientali e gruppi e movimenti con essi collegabili. Ciò chiarirebbe meglio perché “la Francia è in guerra”. Non risulta, infatti, che le altre decine di paesi che hanno subito attacchi terroristici con danni umani e alle infrastrutture ben superiori a quelli francesi abbiano dichiarato di essere in guerra. Come ricordavamo all’inizio di questo saggio, non è un caso che i paesi più esposti ad atti di “terrorismo” sono Stati Uniti, Francia e Regno Unito, tutti coinvolti in insindacabili relazioni nell’area mediorientale. Domande pesanti e alle quali nella contemporaneità è difficile dare risposte certe. Ancor meno siamo in grado di sapere cosa si agita nello “spazio vuoto” dei labili confini tra “terrorismo” e “contro-terrorismo”.

Dai fatti che si possono conoscere emergono lacune e incongruenze che fanno dubitare delle ragioni degli stati e della loro risposta a colpi di “stato d’eccezione” e di azioni di guerra militare. Sul fatto che 130 persone innocenti siano morte assassinate a Parigi non vi è dubbio. Sul movente di tale eccidio restano molte ombre. Sugli esecutori materiali poca chiarezza ma nell’insieme sembrerebbe un gruppo di una ventina di soggetti di calibro piuttosto basso, un armamento finalmente modesto e una logistica semplice. Sui mandanti c’è incertezza. Non si capisce quale sarebbe l’obiettivo strategico per l’ISIS. Farsi bombardare anche dalla Francia non è un obiettivo sensato neppure se astrusamente volesse provocare fratture tra i paesi europei e occidentali. I dati sugli esecutori rimandano allo “spazio vuoto” in cui “terrorismo” e “contro-terrorismo” entrano in contatto. Alcuni contatti sono accertati o deducibili incrociando le informazioni, ma non emerge una strategia. Mancano elementi certi per dare credito alle varie dietrologiche ricostruzioni che ritengono gli eventi del 13/11 un “diversivo” per creare le condizioni di una nuova guerra in Siria e Iraq per implementare la “Dayton mediorientale”[21]. Certo è che la reazione francese agli assassinii del 13/11, inviando finanche la portaerei Charles de Gaulle nel teatro delle operazioni, fa presagire obiettivi ben diversi da quelli enunciati dal presidente Hollande.

Intanto, sull’onda dell’emozione pubblica il consiglio europeo dei ministri dell’interno e della giustizia ha varato una serie di misure fortemente restrittive delle libertà e dei diritti dei cittadini europei. Il Parlamento europeo sarà presto chiamato a discuterne ed eventualmente approvarle. Visto quanto abbiamo sopra cercato di spiegare ci poniamo seri interrogativi sull’utilità di adottare tali misure visto che non è nemmeno chiaro se gli atti di Parigi siano “terroristici” o di “rappresaglia”, e poi il “nemico” è ben diverso da un gruppo di sediziosi alternativi che creano danni e morti. La risposta dell’UE è quella di un poliziotto che vuole sconfiggere uno stato con i controlli, gli arresti preventivi e il bavaglio alla libera espressione. Quindi è destinata a non ottenere risultati concreti, se non nelle limitazioni ai diritti dei cittadini europei.

Il CdS dell’Onu ha adottato una rara risoluzione all’unanimità che è la proposta francese invitando gli Stati membri “a raddoppiare e coordinare gli sforzi per prevenire e reprimere gli atti terroristici e adottare tutte le misure necessarie in linea con il diritto internazionale”, per sconfiggere lo Stato Islamico. Invece, tutti i paesi occidentali hanno rifiutato di prendere in considerazione la proposta di risoluzione russa in cui si vuole ottenere lo stesso obiettivo ma “con il consenso degli stati colpiti”. Quindi, sembra proprio che si voglia assolutamente distruggere la Siria con la scusa del presunto “terrorismo” comandato dal califfo[22].

Nello “spazio vuoto” a volte avvengono cose non solo insindacabili ma anche indicibili. Le ragioni degli stati si scontrano con gli stati senza ragioni.

Paolo Raffone

24.11.2015

Fonte: www.comedonchisciotte.org

NOTE:

[1]Video pubblicato il 29 giugno 2014: https://www.youtube.com/watch?v=i357G1HuFcI

[2]Slavoj Zizek, L’Islam e la modernità, Milano 2015

[3]Idee del filosofo indo-pakistano Sayyid Abul Ala Maududi, inventore dell’espressione “stato islamico”

[4] Loretta Napoleoni, The islamist phoenix, New York 2014

[5]http://www.krugosvet.ru/enc/istoriya/TERRORIZM.html

[6] La Convenzioneall’articolo 1 definisceilterrorismo come”criminal acts directed against a State and intended or calculated to create a state of terror in the minds of particular persons or a group of persons or the general public.” È interessante notare che il grande dibattito e documentazione di allora è sostanzialmente lo stesso che 50 anni più tardi è stato usato dall’ONU per lo stesso scopo. http://www.wdl.org/en/item/11579/view/1/1/

[7]Lista ufficiale dei trattati e convenzioni internazionali in materia di terrorismo: https://treaties.un.org/Pages/DB.aspx?path=DB/studies/page2_en.xml

[8]Carl Schmitt e Michel Focault sono autori fondamentali in questa materia. La bibliografia contemporanea è piuttosto vasta. Tra gli altri, il filosofo italiano Giorgio Agamben ha scritto numerosi libri recenti che indagano sul potere e le sue forme di espressione.

[9] Ad esempio, in Italia la reazione al “terrorismo” si concreta in “leggi speciali” che prendono la forma di decreti del governo soggetti a periodico rinnovo e verifica e approvazione parlamentare. Proprio perchè non esiste una regolamentazione normata in Costituzione, tale atti di legge sono puri atti politici, in qualche modo “eccezionali” rispetto alle norme costituzionali.

[10]http://elyon1.court.gov.il/Files_ENG/02/690/007/a34/02007690.a34.htm

[11]http://www.theguardian.com/uk-news/2015/oct/25/tony-blair-sorry-iraq-war-mistakes-admits-conflict-role-in-rise-of-isis

[12]Giandomenico Picco e Gabrielle Rifkind, The Fog of Peace, Londra 2014

[13] Il titoloesatto è ilseguente: “Uniting and Strengthening America by Providing Appropriate Tools Required to Intercept and Obstruct Terrorism Act of 2001”

[14] Giorgio Agamben, Stato di eccezione, Bollati Boringhieri, Torino 2003

[15]Testo ufficiale del discorso: http://www.elysee.fr/declarations/article/discours-du-president-de-la-republique-devant-le-parlement-reuni-en-congres-3/

[16] Jacques Sapir, Etat d’urgence et souveraineté, 16 novembre 2015, http://russeurope.hypotheses.org/4469

[17]http://federicodezzani.altervista.org/quel-filo-che-servizi-segreti/; http://www.askanews.it/esteri/attacchi-parigi-voce-rivendicazione-isis-e-di-jihadista-francese_711663841.htm

[18]https://youtu.be/pbfb9az2YPQ

[19]http://www.lesoir.be/1047359/article/actualite/belgique/2015-11-18/belgique-avait-interroge-deux-freres-abdeslam-avant-attentats

[20]I casi di spionaggio di massa compiuti dalle agenize britanniche per la sicurezza hanno generato una valanga di critiche e di reazioni delle popolazioni ma anche di alcuni partiti politici.

[21]Nella mappa pubblicata da Robin Wright sul New York Times nel 2013, si distingue il Sunnistan che Daesh creerà nel giugno 2014, ove proclamerà il Califfato, e il Kurdistan. http://www.nytimes.com/interactive/2013/09/29/sunday-review/how-5-countries-could-become-14.html?ref=sunday

[22]http://blogs.rediff.com/mkbhadrakumar/2015/11/21/shame-on-un-security-councils-p-5-members/

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