LE DUE ITALIE DI GIGI RIZZI FRA IL ‘68 E LA BARDOT

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DI MASSIMO FINI
Ilgiornale.it

Il flirt con B. B. del playboy scomparso pochi giorni fa è lo spartiacque fra due mondi. Da una parte l’apolitica gioia di vivere, dall’altra la politicizzazione di ogni cosa

Domenica sera rientrando a casa ho trovato sulla segreteria un messaggio di Gigi Rizzi. Mi ringraziava per un mio intervento a una puntata di La storia siamo noi a lui dedicata. Il giorno dopo l’ho richiamato. Abbiamo chiacchierato per un po’. Gli ho chiesto: «Quest’estate cosa fai?». «Mah, adesso vado per una decina di giorni, con mia moglie Dolores, a Saint-Tropez che, a conti fatti, rimane un mio luogo di elezione». Poi aveva aggiunto una frase che, a risentirla oggi, suona agghiacciante: «E lì festeggerò i miei 69 anni». E c’era una sfumatura di incredulità nella sua voce, come se fosse sorpreso di essere arrivato a quell’età, perché in fondo al cuore, nonostante le molte traversie, era rimasto un eterno ragazzo («c’è voluto del talento per riuscire a invecchiare senza diventare adulti» canta il maestro Battiato su parole di Jacques Brel).
Il giorno del compleanno ha bevuto, mangiato, cantato, ballato, come se Saint-Tropez fosse ancora la Saint-Trop degli anni Sessanta. Alla fine della serata, un po’ stanco, una tartina di caviale in mano un bicchiere di champagne nell’altra, si è appoggiato al frigorifero. Un colpo di tosse ed è stramazzato al suolo.

Non ho conosciuto Rizzi nei suoi anni ruggenti, quando un breve flirt con Brigitte Bardot aveva fatto di lui un mito, soprattutto fra noi ragazzi italiani abituati, checché ne dicessimo, ad andare regolarmente in bianco. Nel 2004 Giangiacomo Schiavi, del Corriere, che ne aveva curato l’edizione, mi chiese di fare la prefazione al libro autobiografico Io, BB e l’altro ’68 (editore Carte scoperte) testo che ripropongo qui ai lettori del Giornale sperando che li incuriosisca perché, attraverso l’avventura umana di Gigi Rizzi, percorre alcune epoche cruciali della nostra vita: il dopoguerra, i «favolosi sixties» e quel Sessantotto che segnò la fine della nostra innocenza e della nostra joie de vivre.

Gigi Rizzi ha ragione quando afferma che il 1968 non fu l’anno del Sessantotto, cioè dell’inizio di quella contestazione giovanile che, con i suoi derivati, doveva occupare quasi tutti gli anni Settanta, almeno in Italia, con conseguenze pesantissime, ma fu l’anno di Gigi Rizzi.

Il fatto che un giovane italiano si fosse presa la donna più bella, più affascinante, più attraente, più chiacchierata del tempo, il sex symbol per eccellenza, un mito, anzi il Mito, venne vissuto come una sorta di riscatto nazionale di un popolo che era da poco uscito dalla povertà, che viveva ancora in uno stato di inferiority complex nei confronti degli altri Paesi europei e in particolare degli arroganti cugini francesi allora in grande spolvero soprattutto nel mondo del cinema che, non avendo ancora la tv preso l’importanza che ha oggi, era quello che dava la grande celebrità, dove sfornavano registi (la nouvelle vague, Malle, Truffaut, Godard, Clouzot) e divi e dive a getto continuo: Alain Delon, Laurent Terzieff, Jean Paul Belmondo, Jacques Charrier, Jean Sorel, Robert Hossein, Sami Frey, Jean Claude Brialy e, fra le attrici, Brigitte Bardot, Annette Stroiberg, Milene Demongeot, Catherine Deneuve, Françoise Arnoul. Un popolo, il nostro, i cui playboy, meglio latin lover si erano dovuti fino ad allora accontentare di dragare tedesche, legnose, vestite con un infallibile cattivo gusto e prive di qualunque sex appeal, ma di coscia facile, sui litorali di Rimini e Riccione o sulle Riviere liguri oppure di fare flanella nei night di Milano e di Genova (Roma faceva, da sempre, storia a sé) con le entraineuse, cioè con delle puttane più o meno di lusso.

Ma fra questa nostra povertà allupata (che, come a voler occultare o in qualche modo sfamare, aveva partorito «maggiorate», con enormi tette ma completamente prive di talento), e il 1968 c’era stato il boom economico del 1960-1964 che aveva messo qualche soldo in tasca ai nostri ragazzi e anche Gigi Rizzi era uno dei frutti di quel boom, di quel primo benessere diffuso.
E Rizzi, invece di far la vasca a Nervi o di perdere tempo al Covo di Santa Margherita, meta dei milanesi danarosi, bramosi e imbranati, se ne era andato, con alcuni amici, a Saint-Tropez e al posto della tedesca o della svedese un po’ linfatica, aveva catturato la più prelibata, la più esclusiva, la più difficile, la più desiderata delle prede: BB, alias Brigitte Bardot, la «numero uno», il cui mito resisteva da una decina d’anni, una che aveva attirato l’attenzione dell’indiscusso e schifiltoso guru degli intellettuali europei, Jean-Paul Sartre, una di cui Simone de Beauvoir, che le aveva dedicato un saggio, aveva scritto, testualmente, nel 1960 «BB merita oggi di essere considerata un prodotto di esportazione importante come le automobili Renault», una alla quale, caso unico, era stata intitolata una canzone (mi pare da Bob Azam), una per cui tutti spasimavano e deliravano. E quest’idolo, vincendo la concorrenza di attori famosi e di miliardari attrezzati con Rolls, Ferrari e yacht, l’aveva infilzato Gigi Rizzi da Nervi, un ragazzo benestante ma non ricco, un italiano quasi qualsiasi.

Rizzi aveva piantato la bandiera tricolore nel punto più delicato e sensibile dell’orgoglio francese. Un trionfo, che equivaleva a una vittoria ai Campionati del mondo di calcio. Qualcosa di così stupefacente da oscurare, per il momento, il Sessantotto.

Gigi Rizzi sbaglia invece quando pensa di essere stato, insieme a quelli del suo giro di ragazzi-bene di Milano e di Genova, i Beppe Piroddi, i Franco Repetti, i Poppi Nanni, i Roberto Bassanini e tutti gli altri, l’iniziatore e il protagonista di una rivoluzione dei costumi e sessuale e il protagonista di una stagione tremendamente trasgressiva, dissoluta e peccaminosa.
Il breve flirt di Gigi Rizzi con la Bardot, un paio di mesi in tutto, non segnò l’inizio ma la fine di un’epoca, che proprio il Sessantotto avrebbe chiuso e che era stata aperta una decina di anni prima dai poeti e dagli scrittori della beat generation, Allen Ginsberg, Gregory Corso, Lawrence Ferlinghetti, Jack Kerouac, e dal movimento hippy, fermenti che avevano avuto il loro epicentro negli Stati Uniti e a Londra (la «swinging London» dei Beatles, di Mary Quant e della minigonna) e che si erano poi diffusi in tutta Europa, ad Amsterdam, a Berlino, a Ibiza e, da ultimo, anche in Italia. Erano stati quei movimenti a scardinare i vecchi costumi, peraltro in modo soft e incruento, e a portare anche a livello di massa una certa libertà sessuale. E quei movimenti, pur essendo principalmente esistenziali, avevano anche un sottofondo politico e antiborghese a cui Gigi Rizzi e i suoi amici rimasero sempre del tutto estranei. Di politica erano digiuni in modo quasi scandaloso, per i tempi.

Erano ragazzi di buona famiglia, benestanti, che si trovarono ad approfittare del vento nuovo, senza nemmeno capire bene che cosa fosse. Come mentalità erano ragazzi degli anni Cinquanta trapiantati nei Sessanta. Avevano infatti, di fondo, la mentalità e i gusti dei loro padri. Impazzivano per le calze «con la cucitura in rilievo alla Marlene Dietrich», per le calze a rete, per le giarrettiere, per le mutandine di pizzo, tutte cose che erano scomparse da tempo dal costume, perché le ragazze andavano in giro in modo più disinvolto, senza più l’armatura delle stecche di balena, delle spalline, del gros grain e, appunto, delle giarrettiere e delle calze a rete, vestivano in jeans e t-shirt (era stata proprio Brigitte Bardot a inaugurare questa moda), e anche se si scatenavano nel rock amavano in realtà le canzoni un po’ melense da piano bar e da night che a quell’epoca erano considerati dai giovani luoghi per adulti un po’ laidi.

In fondo è un po’ come se, con la permissività sessuale, Rizzi e i suoi amici avessero realizzato un sogno. Che non era però, nei modi, nei gusti, nelle tendenze, un sogno loro o della loro generazione, ma quello dei loro padri, castrati da costumi troppo severi e dai rigori del dopoguerra. Una rivincita postuma. Anche se giovanissimi quei ragazzi erano in un certo senso già vecchi, dei goliardi in ritardo. Non lo sapevano, anzi pensavano il contrario, ma erano fuori dal loro tempo che stava girando in tutt’altra direzione.

I Sessanta si sono creduti molto peccaminosi e trasgressivi. Furono invece anni molto solari e sostanzialmente innocenti. Un intermezzo gioioso, un tempo di sospensione, fra la durezza economica dei Cinquanta e quella ideologica dei Settanta. C’è una fotografia che, secondo me, sintetizza quegli anni. Riguarda ancora Brigitte Bardot, che dei Sessanta è stata il simbolo e che già allora – è bene ricordarlo perché non credo sia casuale – era salutista, igienista e vegetariana. L’affascinante Laurent Terzieff (Peccatori in blue jeans) in piedi, a torso nudo, con l’acqua del mare che gli arriva alle ginocchia dei jeans, porta a cavalcioni, sul collo, come una bimba, una Brigitte Bardot solare, anch’essa in jeans e t-shirt bianca. È l’emblema della grazia, della giovinezza, della bellezza degli anni Sessanta e della loro innocenza. Non c’è malizia. Non c’è peccato. È semplicemente gioia di vivere, voglia di vivere («fate l’amore e non la guerra»).

Anche se beve whisky, gioca a poker e ama la notte, come tutti i giovani bennati l’hanno sempre amata, anche Gigi Rizzi è un uomo solare e si getterà in quel miracoloso e stretto pertugio aperto fra i Cinquanta e i Settanta con voracità, con tutta la sua enorme vitalità, con la sua simpatia istintiva, col suo charme naturale, con l’eleganza del ragazzo educato bene. E anche con una gran dose di ingenuità. Gigi Rizzi, con tutta la sua esuberanza un po’ incosciente, è, e rimarrà sempre, un «bravo ragazzo», un po’ sprovveduto, nonostante tutto. C’è sempre in lui una sorta di stupore. Il suo stesso successo con le donne (e ne avrà una serie infinita di bellissime, da Silvia Casablanca alla mitica Verushka a Nathalie Delon) in fondo lo sorprende. Ed è forse questa freschezza la ragione più profonda del fascino che esercita, ed eserciterà sempre, su di loro. Le donne saranno, forse, meno innocenti con lui.

C’è sicuramente molta sventatezza in quei ragazzi golosi di vita, vogliosi di primeggiare, di farsi vedere, di esibirsi, di fare un po’ gli spacconi, di gareggiare alla pari con i Casanova internazionali, carichi di miliardi, e di batterli. E un certo rimescolamento di carte e di classi, tipico dei Sessanta, permette di sognare ogni avventura. I locali sono «esclusivi» per modo di dire. Ci entrano tutti, basta volerlo e saperci un po’ fare. La voglia di vivere conta, in qualche caso, più dei miliardi, nei «favolosi sixties».

C’è molta sventatezza in quei ragazzi. Ma non c’è cinismo. Quello che alberga già, invece, in un’altra categoria di giovani borghesi che sta per venire alla ribalta, i ragazzi del Sessantotto, più scaltri, più avveduti, molto meno innocenti. E infatti mentre i leader del Sessantotto monetizzeranno quella loro stagione diventando direttori di quotidiani e settimanali, anchorman televisivi, uomini politici, Rizzi e i suoi amici, passato il momento di euforia, si ritroveranno, quasi tutti, sul pavé.

Ho la stessa età di Gigi Rizzi. Siamo nati entrambi nel 1944. E sono anch’io di estrazione borghese. Conosco bene l’humus in cui si sono formati, per così dire, sia i contestatori che i Gigi Rizzi o aspiranti tali. Alcuni di quelli che Rizzi nomina nel suo libro li ho incontrati più volte. Non però al night o dietro le sottane, ma al tavolo del poker (perché a me il poker – e il gioco in genere – è sempre interessato più delle donne). In quegli anni mi divertivo a spennare i ragazzi della Milano-bene, che, anche se se la davano da duri, erano troppo sventati e sprovveduti per essere dei buoni giocatori. Erano dei bambinoni, degli eterni fanciulloni che si rifiutavano cocciutamente di crescere cercando di tirarla per le lunghe il più possibile. Qualcuno di loro lo si può ritrovare ancora, nei soliti luoghi, a fare le stesse cose, lo sguardo infantile di sempre in occhi che sono però sperduti, smarriti in corpi inesorabilmente avvizziti. Se Gigi Rizzi non ha fatto la fine del playboy invecchiato male è perché in lui c’era, oltre a tutto il resto, anche un’inquietudine autentica. «Ventiquattro ore al giorno dedicate alle donne, al gioco, all’alcol e al divertimento. Un professionista del nulla per essere chiari» scrive il Gigi Rizzi negli anni Novanta. Ma il sospetto che quella vita rutilante fosse, in definitiva, senza senso lo ha già anche il Gigi Rizzi degli anni Sessanta, nel momento dei suoi massimi furori. Capisce che il giro donne-whisky-gioco-divertimento-notte, ripetuto fino all’estenuazione, diventa un’abitudine ossessiva, una coazione, un timbrar il cartellino come un altro. Anche se non è in grado di sfuggire al meccanismo Gigi Rizzi sa, già allora, che la vita vera non è quella, che la vita sta altrove. In Gigi Rizzi, come lui stesso scrive, sonnecchia sempre un altro Rizzi, Luigi, il ragazzo di buona famiglia, educato secondo i più sani principi, che il padre voleva dirigente d’azienda, con una vita normale. Gigi non farà il dirigente d’azienda e non avrà una vita normale – perché questa non era la sua storia – ma, attraverso un duro apprendistato, pagato a prezzo carissimo sulla sua pelle, riuscirà, a differenza di tanti suoi compagni di avventure giovanili, a diventare un uomo. E di questo suo padre sarebbe stato sicuramente contento, se avesse avuto il tempo di vederlo.

Il 1968 fu l’anno del massimo trionfo di Gigi Rizzi, ma fu anche l’anno dell’inizio della fine della sua straordinaria carriera di playboy. C’è anche una demotivazione oggettiva. Dopo Brigitte Bardot, che altro? Ogni zenit contiene già in sé, inesorabilmente, un crepuscolo. Ma le ragioni più profonde sono altrove. I «favolosi sixties» erano finiti e il colpo di grazia glielo aveva dato proprio il Sessantotto. Il clima si è fatto cupo, plumbeo. Arrivano anni difficili e i protagonisti sono altri. La figura del playboy diventa decisamente démodé. Inoltre il Sessantotto stava affossando definitivamente gli anni Cinquanta che i Sessanta avevano scalfito solo in superficie, esclusivamente sul piano del consumo. Ora i giovani contestano il lavoro, la trasmissione del sapere, la gerarchia fra generazioni, cioè il nucleo più profondo dei valori della borghesia. Non sono più i teneri ribelli degli anni Sessanta, che disubbidivano ai genitori ma ne temevano il giudizio, che li contestavano continuando però a rispettarli, chiamandoli, con affettuosa ironia, «i matusa», adesso pretendono di essere dei rivoluzionari.

Anche il sesso e le sue vicende non passavano più per la cronaca mondana ma per quella politica. Mauro Rostagno, uno dei capi di Lotta continua che sarà assassinato in circostanze misteriose in Sicilia, uno dei pochi di estrazione proletaria in un movimento di borghesi, confesserà in seguito di aver fatto il leader soprattutto per scoparsi le ragazze. Le più belle erano passate a sinistra, area con la quale Gigi Rizzi e i suoi compagni, antropologicamente, anche se non sempre politicamente, di destra, non avevano nulla a che fare. Si sussurrava che Mario Capanna, il «líder máximo» del Movimento studentesco, avesse una relazione segreta con Giulia Maria Crespi, «la zarina», la padrona del Corriere della Sera. Non era vero, ma era un segno dei tempi.
Gigi Rizzi lascia Milano, sconvolta da piazza Fontana, dalla morte di Annarumma, dall’autunno caldo, dai cortei studenteschi, dai moti di piazza, per tentare un inserimento a Roma. La scelta, fatta d’istinto, non è in sé sbagliata. Sessantotto o non Sessantotto Roma resta sempre la stessa, è eterna nei suoi vizi. Ma Roma è una realtà infinitamente più difficile di Milano o di Saint-Tropez, che erano stati luoghi di pastura di Gigi Rizzi. Roma attrae, ingloba e illude. È una Fata Morgana. Gigi ci lascerà le ultime penne inseguendo la sirena del cinema.

Da questo momento – siamo nei primi anni Settanta – quella di Gigi Rizzi cessa di essere una storia generazionale, sia pur di spicchio, di una generazione, e diventa una vicenda del tutto personale. Rizzi non era mai stato un rivoluzionario, seppur finto, come i «sessantottini», ma non era mai stato nemmeno un vero ribelle. Era solo un ragazzo assetato di vita che nel clima dei Sessanta aveva trovato il terreno più favorevole per la sua esuberanza. Ora, a trent’anni, è un giovane che si è molto dissipato e che è alla ricerca di se stesso. Prova a ritrovarsi recuperando proprio i valori dei padri, il lavoro e la sua dura disciplina, laddove i «sessantottini» cercheranno e troveranno tutte le scorciatoie per arrivare, facendo di una rivoluzione fallita il loro trampolino di lancio.

Gigi Rizzi lascia l’Italia, dov’è ormai un pesce fuor d’acqua, non solo come playboy, e parte per l’Argentina. Con i soldi di famiglia che gli sono rimasti, dopo i molti scialacquii, compra in una landa abbastanza desolata un terreno incolto, tutto da dissodare e da lavorare. Vuole ritrovare il giorno, una vita sana, serena, un po’ di solitudine dopo tanti anni di caciara, il lavoro, il rigore. Lo aiuterà, come sempre, una donna. Si chiama Stella, naturalmente è bella, ma non è Brigitte Bardot. È una donna vera e non un’icona dell’immaginario collettivo. Gigi se ne innamora sul serio e lei pure. Fanno tre figli. Questa vita quieta, regolare, felice, all’aria aperta va avanti per una decina di anni, senza intoppi. Fino a quando non si pone il problema degli studi dei figli e la coppia si trasferisce a Buenos Aires.

Buenos Aires non è la campagna argentina, è una grande città piena di tentazioni. La fama di playboy di Gigi Rizzi è arrivata fin là. I giovani dandy del luogo lo stuzzicano, lo provocano, lo sfidano. Lui sente il richiamo della foresta e torna agli antichi vizi di cui uno solo, per la verità, era tale: la cocaina. Non che «sniffare» fosse una prerogativa degli anni Sessanta, era, da sempre, un modo di vita dei grandi ricchi. Rizzi, nella sua ascesa di playboy, era arrivato a frequentare anche quei giri e, sia pur con un’iniziale titubanza, aveva inglobato anche la cocaina, insieme alle donne, al whisky, al poker e alla notte, convinto, come tutti sempre lo sono, di potersene liberare quando avesse voluto.

E in effetti, nei dieci anni in cui era stato felice con Stella, in campagna, anche la cocaina era scomparsa dalla sua vita insieme a tutto il resto. Ma le ricadute, si sa, sono devastanti. Luigi Rizzi, tornato Gigi, si infogna con la droga e finisce in un centro di recupero per tossicodipendenti.

Gigi Rizzi ce la farà a tirarsi fuori e ancora una volta sarà una donna, Dolores, che poi diventerà sua moglie, a metterci uno zampino. Troverà un lavoro, non esaltante, ma che gli consente però di mantenersi decorosamente e tornerà in Italia, a Nervi, nel guscio protettivo da cui era uscito una quarantina di anni prima carico di grandi speranze.

Avendo saputo che scrivevo questa prefazione Gigi Rizzi mi ha telefonato. «Adesso apprezzo altre cose. Avevo vissuto quattro anni a Roma e non ero mai entrato a San Pietro. Ci sono stato poco tempo fa, con Dolores. Oggi sono in grado di godere di un concerto, di una mostra, della lettura di un libro. Tutte le cose hanno le loro stagioni. È inutile e patetico ruggire fuori tempo».

«Che cosa è rimasto dell’antico Gigi Rizzi?» gli ho chiesto. «Beh, forse il fatto che mi domando ancora: cosa farò da grande?».

Massimo Fini
Fonte: www.ilgiornale.it
Link: http://www.ilgiornale.it/news/interni/due-italie-gigi-rizzi-68-e-bardot-930891.html
27.06.2013

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