L'ATTENTATO CONTRO CHARLIE HEBDO. L'OCCULTAMENTO POLITICO E MEDIATICO DELLA CAUSE, DELLE CONSEGUENZE E DELLA POSTA IN GIOCO

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SAID BOUAMAMA

bouamamas.wordpress.com

«È ancora fecondo il ventre dal quale è uscita la bestia immonda» – Bertold Brecht

L’attentato contro il settimanale satirico Charlie Hebdo è destinato a segnare la nostra storia attuale. Resta solo da capire in che senso e con quali conseguenze. Nell’attuale contesto della «guerra al terrorismo» (beninteso, guerra esterna), oltre che di razzismo e di islamofobia di Stato, gli autori di questa azione hanno accelerato – coscientemente o meno – un processo di stigmatizzazione e isolamento della componente mussulmana, reale o presunta tale, delle classi popolari.

Sono già di per sé disastrose le conseguenze politiche dell’attentato per le classi popolari, ma peggioreranno ancora se non verrà proposta un’alternativa politica alla famosa «Unione Nazionale».

In effetti il modo in cui reagiscono i media francesi e una schiacciante maggioranza della classe politica è a dir poco criminale. Sono queste reazioni ad essere pericolose per il futuro, sono gravide di numerosi «effetti collaterali» e di futuri 7 e 9 gennaio, ancora più letali. Comprendere e analizzare per agire è oggi l’unico atteggiamento che possa permettere di evitare strumentalizzazioni e usi di un’emozione, di una collera e di una rivolta legittima.

L’occultamento totale delle cause

Non prendere in considerazione le cause profonde e immediate, isolare le conseguenze dal contesto che le ha prodotte, e non inserire un fatto così violento all’interno della genealogia dei fattori che lo hanno reso possibile, condanna nella migliore delle ipotesi alla paralisi e – nella peggiore delle ipotesi – ad una logica da guerra civile. Oggi nessuno fra i media fa cenno alle cause reali e potenziali. Come è possibile che oggi un simile attentato si sia prodotto a Parigi? Come sottolinea Sophie Wahnich, è in atto “un uso fascista delle emozioni politiche della folla” il cui unico antidoto è “l’intreccio fra le emozioni e la ragione”. Quello che stiamo vivendo oggi è una polarizzazione dei discorsi mediatici e politici attorno alla sola emozione, nascondendo del tutto l’analisi reale e concreta. Ogni tentativo di analisi reale della situazione «così com’è», o qualunque analisi che cerchi di proporre un’altra spiegazione rispetto a quella fornita dai media e dalla classe politica, diventa automaticamente apologia dell’attentato.

Uno sguardo sul ventre fecondo della bestia immonda

Diamo allora uno sguardo alle cause, e prima di tutto a quelle di lunga durata e attinenti alla dimensione internazionale. La Francia è una delle potenze più in guerra di tutto il mondo. Dall’Iraq alla Siria, passando dalla Libia all’Afghanistan per il petrolio, e dal Mali al Congo per i minerali strategici, i soldati francesi contribuiscono a seminare morte e distruzione ai quattro angoli del pianeta. La dissoluzione degli equilibri mondiali usciti dalla seconda guerra mondiale, dopo il crollo dell’URSS, associata ad una globalizzazione capitalista centrata sul ribasso dei costi per massimizzare i profitti e alla nuova concorrenza dei paesi emergenti, fanno del controllo delle materie prime la principale causa delle ingerenze, degli interventi e delle guerre contemporanee. Ecco come il sociologo Thierry Brugvin riassume il posto delle guerre nel mondo contemporaneo:

“La fine della guerra fredda ha fatto precipitare la fine di una regolazione dei conflitti a livello mondiale. Fra 1990 e 2001 il numero dei conflitti interstatali è esploso: 57 conflitti maggiori su 45 territori distinti […]. Ufficialmente, entrare in guerra contro una nazione nemica è sempre legittimato da nobili intenzioni: la difesa della libertà, della democrazia, della giustizia… Nei fatti, le guerre permettono di controllare economicamente un paese, ma anche di fare in modo che le imprese private di una nazione possano accaparrarsi le materie prime (petrolio, uranio, minerali, ecc…) o le risorse umane di un dato paese”.

Dopo l’11 settembre 2001 la retorica legittimatoria delle guerre si è fondata essenzialmente sul «pericolo islamista», contribuendo a sviluppare in seno alle principali potenze occidentali un’islamofobia a grande scala, al punto che gli stessi rapporti ufficiali sono costretti a riconoscerlo. Allo stesso tempo, queste guerre producono un solido «odio per l’Occidente» fra i popoli vittime delle aggressioni militari. Le guerre condotte dall’Occidente sono uno dei terreni fertili dai quali nasce la bestia immonda.

Nel tentativo di controllare le ricchezze petrolifere e gasifere, il Medio Oriente è una delle poste in gioco più strategiche. Le strategie delle potenze occidentali in generale, e francesi in particolare, si sviluppano su due assi: il rafforzamento di Israele come base e perno per il controllo della regione, e il sostegno alle petrol-monarchie reazionarie del Golfo.
Il sostegno inossidabile allo Stato di Israele è una costante della politica francese che non conosce alternanza, da Sarkozy a Hollande. Lo Stato sionista può assassinare impunemente a grande scala. Quale che sia l’ampiezza e i mezzi dei massacri, il gestore locale degli interessi occidentali non è mai realmente né stabilmente preoccupato. Nel corso del viaggio ufficiale in Israele del 2013, François Hollande rilasciava questa dichiarazione: “Sarò sempre un amico di Israele”.
E anche in quel caso il discorso mediatico e politico per legittimare un simile sostegno si fonda sulla presentazione di Hamas – ma ugualmente (e con ricorrenti imprecisioni verbali) della resistenza palestinese nel suo insieme, della popolazione palestinese nel suo insieme, e dei suoi sostegni politici internazionali – come fautori di un pericolo «islamista». La logica dei «due pesi, due misure» si impone ancora una volta a partire da un approccio islamofobo patrocinato dai più alti vertici dello Stato e diffuso dalla stragrande maggioranza dei media e degli attori politici. Questo è il secondo profilo del ventre della bestia immonda.

Tali elementi internazionali si coniugano con elementi interni alla società francese. Abbiamo già sottolineato l’islamofobia di Stato, propugnata nel 2004 con la legge sullo chador e da allora proseguita senza interruzione (discorsi sulle rivolte delle banlieues nel 2005; legge sul niqab; «dibattito» sull’identità nazionale; circolare Chatel ed esclusione delle madri con velo all’uscita dalle scuole; persecuzione delle liceali con le lunghe vesti; divieto di manifestazioni di sostegno al popolo palestinese; ecc…).

Bisogna poi considerare che questo clima islamofobo non ha suscitato la minima reazione da parte delle forze politiche che si autoproclamano rappresentanti delle classi popolari. Quel che è più grave è il fatto che si è creato un consenso sempre più largo, e a più riprese, con il pretesto di difendere la «laicità» o di non aprire a «quelli che difendono Hamas». Dall’estrema destra a una parte importante dell’estrema sinistra, sono stati avanzati gli stessi argomenti, sono state costruite le stesse distinzioni, e sono state prodotte le stesse conseguenze.

Il risultato non è stato altro che il radicamento ancor più profondo fra i vari «islamalgames» [etichetta giornalistica per definire i molti stereotipi sugli islamici francesi, N.d.T.], l’ampliamento delle differenze in seno alle classi popolari, l’indebolimento delle già deboli dighe antirazziste, e delle violenze concrete o simboliche perpetrate contro mussulmani e mussulmane. Questi risultati si possono riassumere, come proposto da Raphäel Liogier, con il «mito dell’islamizzazione» così diffuso in una parte importante della società, che sfocia nella tendenza a costituire un’«ossessione collettiva».
La tendenza a produrre un’ossessione collettiva si è ulteriormente approfondita con il recente uso mediatico dei casi Zemmour et Houllebecq. Dopo avergli offerto numerose tribune, Eric Zemmour è stato cacciato da I-telé per aver proposto la “deportazione dei mussulmani francesi”. Nel contesto di ossessione collettiva che abbiamo evocato, tutto ciò gli da adito di presentarsi nei panni di vittima. Quanto ad Houllebecq, lo scrittore è difeso da numerosi giornalisti con il pretesto che non si deve confondere la fiction con la realtà. Tuttavia in entrambi i casi rimane da una parte un incremento dell’ossessione collettiva e dall’altra il sentimento di essere ancora una volta continuamente insultati. Questo è il terzo profilo della bestia immonda.

Questo aspetto interno, di un’islamofobia banalizzata, ha conseguenze esponenziali nel contesto attuale di generale debolezza economica, sociale e politica delle classi popolari. La pauperizzazione e la precarizzazione massiva sono divenute insostenibili nei quartieri popolari. Ne conseguono rapporti sociali segnati da una violenza crescente, contro sé stessi e contro i propri conoscenti. A tutto ciò si somma il declassamento di una parte rilevante del ceto medio, oltre alla paura di un declassamento per tutti coloro per i quali le cose vanno ancora bene, ma che non sono «benestanti». Sentendosi in pericolo, questi ultimi dispongono di un bersaglio condiviso e mediaticamente e politicamente considerato legittimo: il mussulmano o la mussulmana.

Il deterioramento tocca più duramente quella componente della società venuta su dall’immigrazione delle classi popolari, che si trova confrontata a sistematiche discriminazioni razziste (prospettiva del tutto inesistente nei discorsi delle organizzazioni politiche che si autoproclamano «popolari»), discriminazioni che producono traiettorie di marginalizzazione (nella formazione, nel lavoro, nella ricerca di una casa, nei rapporti con la polizia e nei controlli fatti in base al colore della pelle, ecc…).

L’allargamento del solco che separa due componenti delle classi popolari, secondo una logica del «dividere chi dovrebbe restare unito (cioè le diverse componenti delle classi popolari) e unire cho dovrebbe rimanere diviso (classi sociali con interessi divergenti)» è il quarto profilo del ventre della bestia immonda.

Che cosa può partorire un ventre simile?

È evidente che queste basi sono propizie all’emergenza di traiettorie nichiliste, capaci di tradursi nella mattanza a Charlie Hebdo. Estremamente minoritarie, queste traiettorie sono un prodotto del nostro sistema sociale, prodotto delle inuguaglianze e discriminazioni massive che le caratterizzano.

Tuttavia quello che ci dicono le reazioni all’attentato è altrettanto importante e, quantitativamente, ben più diffuso delle posture (per il momento?) nichiliste. Senza ambizioni di esaustività, riprendiamo alcuni aspetti di questi ultimi giorni. Sul fronte dei discorsi, abbiamo avuto una Marine Le Pen che esigeva un dibattito nazionale contro il «fondamentalismo islamico»; un blocco identitario che proclamava la necessità di “rimettere in discussione l’immigrazione massiccia e l’islamizzazione” per lottare contro lo jihadismo; il giornalista Yvan Rioufol de Le Figaro che su RTL imponeva a Rokhaya Diallo di dissociarsi; una Jeannette Bougrab accusare “tutti coloro che hanno tacciato Charlie Hebdo di islamofobia”. A questo punto c’è chi in questi giorni è passato ai fatti: una Femen che si filma mentre da fuoco e calpesta il Corano; colpi d’arma da fuoco contro la moschea di Albi; scritte razziste sui muri delle moschee di Bayonne e Poitiers; bombe carta lanciate contro un’altra a Le Mans; spari contro una sala di preghiere a Port La Nouvelle; un’altra sala di preghiere incendiata a Aix-les-Bains; una testa di cinghiale e delle viscere appese alla porta di una sala di preghiere a Corte, in Corsica; un’esplosione in un kebab di Villefranche sur Saône; un’automobile fatta oggetto di colpi d’arma da fuoco nel Vaucluse; un liceale diciassettenne di origine maghrebina molestato nel corso del minuto di silenzio a Bourgoin-Jallieu nell’Isère; ecc… questi propositi e atti mostrano l’ampiezza dei danni prodotti da decenni di banalizzazione islamofoba. Anche loro fanno parte della bestia immonda.

La bestia immonda si trova ugualmente nell’assordante assenza di indignazione di fronte alle innumerevoli vittime delle guerre imperialiste di questi ultimi decenni. In risposta all’11 settembre, la filosofa Judith Butler si interrogava sulla disparità di indignazione. Faceva notare che l’indignazione legittima per le vittime dell’11 settembre era accompagnata dall’indifferenza per le vittime delle guerre condotte dagli USA: “com’è possibile che non ci diano i nomi dei morti di questa guerra, compresi quelli che gli USA hanno ucciso, coloro dei quali non avremo mai un’immagine, un nome, una storia, mai il minimo frammento di testimonianze sulle loro vite, qualcosa da vedere, toccare, sapere?”.

Questa indignazione asimmetrica è alla base del processo che scava una profonda crepa in seno alle classi popolari. Ed è questa crepa a produrre tutti i pericoli, specialmente in un periodo di costruzione dell’«unità nazionale» come quello attuale. L’unità nazionale che sognano di realizzare è il «tutti insieme contro coloro che non sono dei nostri, contro coloro che non mostrano bandiera bianca».

Una formidabile strumentalizzazione politica

Ma lo scandalo che viviamo oggi non si ferma qua. È con consumato cinismo che, nel corso di questi giorni, ci vengono distribuite strumentalizzazioni della situazione e panico controllato.

• Rafforzamento della sicurezza e attacco alle libertà democratiche

Taluni, come Dupont Aignan, reclamano “maggior acquiescenza alle forze dell’ordine” mentre già l’autunno scorso era stata votata una nuova «legge antiterrorismo». Gli ha fatto eco Thierry Mariani, che ha fatto riferimento al Patriot Act statunitense (le cui conseguenze sono stati gravi attacchi alle libertà individuali, sotto pretesto della lotta al terrorismo): “Gli Stati Uniti hanno saputo reagire dopo l’11 settembre. Abbiamo denunciato il Patriot Act, eppure da allora non hanno più avuto attentati, a parte Boston”.

Strumentalizzare la paura e l’emozione per rinforzare le leggi e le misure liberticide: questa è la prima manipolazione che oggi si vuole testare per misurare sul campo le possibilità di una regressione democratica. Fin d’ora alcune legittime e urgenti rivendicazioni sono rese inaccettabili a causa di un surplus di sicurezza che cerca di approfittare della situazione: sarà ad esempio molto più difficile combattere contro i controlli fatti «in base al colore della pelle», e le quotidiane umiliazioni che ne derivano continueranno a perpetrarsi nell’indifferenza generale.

• L’unità nazionale

La costruzione attiva e determinata dell’unità nazionale è la seconda maggiore strumentalizzazione in corso. Permette di mettere in sordina l’insieme delle rivendicazioni che mettono in crisi il processo di deregulation generalizzato. I sotterfugi usati possono anche essere palesi, ma sono comunque efficaci nel clima di paura generalizzato che l’insieme dei media producono quotidianamente. In alcune città l’unità nazionale si è già estesa al Front Nazional, che ha partecipato alle manifestazioni in sostegno a Charlie Hebdo. Rachida Dati e François Fillon si indignano già per l’«esclusione» di Marine Le Pen dall’unità nazionale. È questa «unità nazionale» a fare politicamente più danni, perché distrugge quei pochi e rari limiti positivi che precedentemente potevano sussistere in merito alle possibili alleanze e identità politiche.

• L’obbligazione a giustificarsi

Un’altra strumentalizzazione consiste nell’obbligazione permanente dei mussulmani (veri o presunti tali) a doversi giustificare per atti che non hanno commesso, e/o a doversi dissociare dagli autori dell’attentato.
Questo accusare permanente è umiliante. A nessuno è venuto in mente di esigere da tutti i cristiani (veri o presunti tali) di emettere una condanna quando il norvegese Anders Behring Breivik ha ucciso 77 persone nel luglio del 2011, rivendicando la sua islamofobia e il suo nazionalismo bianco.

Dietro a questa obbligazione c’è una logica che considera l’Islam come una presenza di fatto incompatibile con la République. Da questa logica deriva l’idea che i mussulmani (veri o presunti tali) debbano essere messi sotto controllo non solo poliziesco, ma anche da parte dei media, degli insegnanti, dei vicini, ecc…

• Essere Charlie? Chi può essere Charlie? Chi vuol essere Charlie?

Lo slogan «siamo tutti Charlie» è l’ultima strumentalizzazione che si sta mettendo in opera in questi giorni. Se l’attentato contro Charlie Hebdo va condannato, è impensabile dimenticare il ruolo che questo settimanale ha avuto nel creare l’attuale clima islamofobo. È ugualmente impensabile dimenticare le lodi a Bush ospitate nelle sue pagine, quando il presidente USA dava inizio alla famosa «guerra contro il terrorismo» in Afghanistan e poi in Iraq. Queste prese di posizione, scritte o disegnate, non sono dettagli o semplici scherzi senza conseguenze: sono all’origine delle molteplici aggressioni contro donne velate e dei numerosi atti contro i luoghi di culto mussulmani. Questo giornale ha contribuito poi soprattutto a dividere le classi popolari, allorché avevano più che mai bisogno di unità e solidarietà. Non eravamo «Charlie» ieri e non lo saremo certo oggi.

Si profilano tempi difficili e rovinosi. Per fermare l’escalation, dobbiamo mettere fine alla violenza dei dominanti: dobbiamo batterci per fermare le guerre imperialiste in corso e abrogare le lggi razziste. Per fermare l’escalation, dobbiamo favorire tutti i contesti e gli eventi di solidarietà capaci di gettare acqua sul fuoco di tutti gli atti razzisti, e in particolare islamofobi. Per fermare l’escalation, dobbiamo costruire nei nostri quartieri popolari tutti gli spazi possibili di solidarietà economica e sociale, in maniera del tutto autonoma rispetto a coloro che propugnano l’unità nazionale come obiettivo.

Ora più che mai abbiamo bisogno di organizzarci, di serrare le fila, di rifiutare la logica che «divide chi dovrebbe restare unito e unisce chi dovrebbe essere diviso». Ora più che mai dobbiamo individuare il nemico comune per costruire la nostra unità: il nemico è tutto ciò che ci divide.

Saïd Bouamama

Fonte: https://bouamamas.wordpress.com/

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11.01.2015

Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di MARTINO LAURENTI

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