LA PROSSIMA GUERRA DI GAZA

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DI MAX BLUMENTHAL

TomDispatch

Introduzione di Tom Engelhardt

E’ appena trascorso il primo “anniversario”, -se si può usare questa parola per parlare di una simile catastrofe- dell’operazione ‘Bordo Protettivo’, la terza invasione israeliana della Striscia di Gaza degli ultimi tempi. Un anno fa, il piccolo territorio ha sofferto più devastazione di qualsiasi altro luogo sulla terra. Come conseguenza della terza guerra dal 2008, oltre 100.000 abitanti di Gaza restano senza casa o si stringono ammassati tra i parenti. Interi quartieri che sono stati distrutti nel conflitto attendono ancora la ricostruzione. Un anno dopo, l’energia elettrica nei domicili è quasi inesistente, dal momento che l’unica centrale di Gaza è stata attaccata dalle forze aeree israeliane; la situazione di approvvigionamento idrico e delle fogne è disastrosa. Bloccato e devastato da guerre ricorrenti, il settore manifatturiero di Gaza è quasi scomparso, mentre l’economia è “vicina al collasso”, secondo la Banca Mondiale.

Per farla breve, ovunque si guardi, Gaza è un luogo nel quale è impossibile vivere; nonostante ciò, 1,8 milioni di persone (più della metà di loro sotto i 18 anni e il 43% sotto i 15 anni) vi si rifugiano al loro interno perché senza un posto dove andare e, nella maggior parte dei casi, senza avere nulla da fare. Questo è il motivo del perché la striscia di Gaza ha il tasso di disoccupazione più alto del mondo: il 44% e la disoccupazione giovanile raggiunge il 60%.

La grande giornalista israeliana Amira Hass, autore del classico libro ‘Drinking the Sea at Gaza: Days and Nights in a Land Under Siege’ , ha descritto la situazione in questo modo: “In pratica, Gaza è diventata un enorme -lasciatemi essere franca- campo di concentramento … Non è una novità … Questo non ha inizio, come molti pensano, con l’ascesa di Hamas al potere … Questa politica di sigillare la Striscia di Gaza, di rendere gli abitanti di Gaza prigionieri di fatto, è iniziata nel 1991 … Quindi, riassumendo la realtà di Gaza: è una grande prigione … Si tratta di un piano israeliano premeditato per separare Gaza dalla Cisgiordania. “

Il nuovo libro di Max Blumenthal, ‘The 51 Day War: Ruin and Resistance in Gaza’ (La guerra dei 51 giorni: Rovina e resistenza a Gaza) riflette in modo davvero convincente l’incubo della terza guerra degli ultimi sei anni e mezzo in questo piccolo pezzo di terra. Nelle sue pagine, il lettore accompagna l’autore durante la sua visita della devastazione causata dall’invasione israeliana (egli entrò a Gaza durante la prima tregua prolungata della guerra). Dubito che potrei avere un resoconto più vivido di ciò che viene sentito da un civile palestinese che è stato costretto a subire le settimane di orrore, distruzione diffusa e uccisioni indiscriminate. Oggi, in questo numero di TomDispatch, l’autore ricorda quest’esperienza e prospetta quella che senza dubbio sarà la quarta guerra del suo genere. Se Blumenthal avrà ragione, purtroppo, qualche giornalista scriverà nei prossimi anni un nuovo libro sulla guerra di Gaza.

* * *

La prossima volta il fuoco

Un’altra guerra in gestazione, ancor prima di aver ricostruito le case in rovina nella Striscia di Gaza

“Una quarta operazione a Gaza è inevitabile, inevitabile come una terza guerra in Libano”, ha detto a febbraio il ministro degli Esteri di Israele, Avigdor Lieberman. Le sue parole minacciose sono state pronunciate pochi giorni dopo che un missile anticarro sparato da Hezbollah, il gruppo di guerriglia con sede in Libano, aveva ucciso due soldati israeliani in un convoglio armato. Questo attacco era a sua volta una risposta ad un altro attacco da parte dell’aviazione israeliana che aveva ucciso alcuni membri di alto rango di Hezbollah.

Lieberman ha fatto questa previsione solo quattro mesi dopo che il suo governo aveva messo fine all’operazione ‘Bordo Protettivo’, la terza guerra tra Israele e le fazioni armate nella Striscia di Gaza, che è riuscita a ridurre il 20 per cento della striscia di Gaza in un apocalittico paesaggio lunare. Addirittura prima che l’attacco israeliano venisse lanciato, Gaza era già un eccessivo deposito di umanità: un ghetto di 360 chilometri quadrati dove vi si ammassavano rifugiati palestinesi che erano stati espulsi o esclusi dall’autoproclamato Stato ebraico. Per questa popolazione, i cui membri sono in gran percentuale sotto i 18 anni, la violenza è diventata un rituale della vita che si ripete ogni anno o due. Mentre passa il primo anniversario del ‘Bordo Protettivo’, il presagio inquietante di Lieberman sembra sempre più vicino ad essere vero. Certo, le probabilità sono che i mesi di relativa “pace” che hanno seguito le dichiarazioni di Lieberman siano solo un interregno di un’ escalation militare israeliana ancora più devastante.

Tre anni fa, le Nazioni Unite hanno pubblicato un rapporto che avvertiva che nel 2020 la Striscia di Gaza sarebbe diventata inabitabile. Grazie agli israeliani, sembra che questo avviso si sia materializzato prima del previsto. Solo alcune delle 18.000 case distrutte dalle forze armate israeliane a Gaza sono state ricostruite. Solo alcuni dei 400 negozi e laboratori danneggiati o rasi al suolo durante la guerra sono stati riparati. Migliaia di dipendenti pubblici lavorano da più di un anno a titolo gratuito o con lavoro volontario. L’elettricità continua ad essere disastrosamente limitata, a volte solo quattro ore al giorno. La costa, essendo il confine occidentale della Striscia, viene sistematicamente chiusa. Le persone sono intrappolate, traumatizzata e cedono alla disperazione ogni giorno di più; il tasso dei suicidi è aumentato vertiginosamente.

Uno dei pochi posti in cui i giovani di Gaza possono ancora trovare qualche struttura sono “i campi di liberazione” creati da Hamas, organizzazione islamica politica che controlla Gaza. Lì, devono fare addestramento militare, ricevere l’indottrinamento ideologico e, infine, partecipare alla lotta armata palestinese. Come potei constatare mentre coprivo la guerra della scorsa estate, non mancano giovani orfani determinati a prendere una pistola, dopo aver visto i propri genitori e fratelli lacerati dalle bombe a grappolo di 1.000 chilogrammi o proiettili di artiglieria israeliani, aerei e altri mezzi di distruzione. Ad esempio, Shamaly Waseem, 15 anni, mi ha detto che l’ambizione della sua vita è di unirsi alle brigate Al-Qassam, l’ala militare di Hamas. Mi aveva appena raccontato fra le lacrime che per lui era stato come guardare un video di YouTube: suo fratello Salem veniva ucciso da un cecchino israeliano durante la ricerca dei loro parenti tra le macerie del suo quartiere lo scorso luglio.

C’è una rabbia palpabile tra la popolazione civile di Gaza ed il braccio politico di Hamas per aver accettato un cessate il fuoco con Israele alla fine di agosto 2014 nel quale l’unica offerta era un ritorno alla lenta morte del luogo e la prigionia a cielo aperto. Ciò risulta particolarmente evidente nelle zone di confine distrutte dagli israeliani la scorsa estate. Tuttavia, il supporto per brigate Al-Qassam, l’ala militare di Hamas, che regge la bandiera della lotta armata dei palestinesi, resta quasi unanime.

Ai palestinesi della Striscia di Gaza basta solo guardare ad est; a 80 chilometri di distanza ci sono i Bantustan dorati dell’Autorità nazionale palestinese (Anp). Questo è quello che avrebbero ottenuto se avessero accettato il disarmo. Dopo anni di negoziati infruttuosi, Israele ha premiato i palestinesi che vivono sotto il governo del presidente Mahmoud Abbas dell’Autorità palestinese, con una crescita record di insediamenti ebraici e nuove annessioni di territorio, raid notturni sulle case, l’umiliazione costante e i pericoli della convivenza quotidiana con i soldati israeliani e i fanatici coloni ebrei. Invece di resistere all’occupazione, le forze di sicurezza di Abbas addestrate dalla polizia occidentale si coordinano con l’esercito di occupazione israeliana, aiutano nelle detenzioni e addirittura a torturare i loro connazionali palestinesi, tra loro i membri della rivale leadership politica.

Per quanto possa essere dura la vita nella Striscia di Gaza, il modello Cisgiordania non rappresenta un’alternativa molto attraente. Tuttavia, è esattamente il tipo di “soluzione” che il governo israeliano cerca di imporre agli abitanti di Gaza. Come ha dichiarato l’ex ministro degli Interni, Yuval Steinitz lo scorso anno: “Vogliamo più di un semplice cessate il fuoco; vogliamo che la smilitarizzazione della Striscia di Gaza … sia esattamente come [la città cisgiordana di] Ramallah”.

Mantenere Gaza in rovina

Dopo la distruzione quasi apocalittica inflitta agli abitanti di Gaza da parte delle forze armate israeliane durante l’operazione di ‘Bordo Protettivo’ vi è una strategia sadica volta a punire gli abitanti dell’assediata enclave costiera fino alla completa sottomissione. La “dottrina Dahiya”, dal nome di un sobborgo a sud di Beirut decimato dalla forza aerea israeliana nel 2006, si concentra sulla punizione della popolazione civile della Striscia di Gaza e nel sud del Libano per il sostegno delle organizzazioni di resistenza armata come Hamas ed Hezbollah. Sproporzionati nella forza, un articolo pubblicato nel 2008 dall’Istituto per lo Studio della Sicurezza Nazionale, un gruppo di studio strettamente legato alla potenza militare israeliana, il colonnello Gabi Siboni esprime chiaramente la sua logica punitiva orientata sui civili: “Insieme alla rottura delle ostilità, [l’esercito israeliano] deve agire subito e con decisione, e con una forza sproporzionata in relazione alle azioni dei nemici ed alle minacce che essi possono rappresentare. Questa risposta ha lo scopo di causare danni e di imporre un castigo in misura tale da rendere necessari lunghi e costosi processi di ricostruzione.”

Nel periodo che seguì l’enorme distruzione delle infrastrutture civili di Gaza durante ‘Bordo Protettivo’, il governo israeliano ha fatto di tutto per impedire qualsiasi lavoro di ricostruzione e prolungare le sofferenze dei civili di Gaza. Quando diplomatici, tra cui il Segretario di Stato John Kerry, si sono incontrati al Cairo lo scorso ottobre per discutere la riparazione e la ricostruzione di almeno una parte di ciò che è stato distrutto e danneggiato durante ‘Bordo Protettivo’ (secondo una stima, il costo totale dei danni sarebbe di circa 7.000 milioni di dollari), l’allora Ministro dei Trasporti di Israele, Yisrael Katz ha detto che, in definitiva tutto ciò che avrebbero fatto sarebbe stato vano. “Gli abitanti di Gaza dovrebbero decidere che cosa vogliono: se vivere a Singapore o in Darfur”, ha detto Katz, sinistramente evocando la minaccia di genocidio sudanese. “Se viene sparato un razzo, tutto andrà in malora.” La natura di questo avviso non è passata inosservata alla riunione diplomatica al Cairo, dove uno di loro si è lamentato per la “considerevole fatica del donatore”.

“Nessuno può aspettarsi che noi torniamo per la terza volta dai nostri contribuenti per chiedere fondi per la ricostruzione e poi semplicemente torniamo indietro dove eravamo prima che tutto cominciasse”, ha detto un diplomatico ad un giornalista. Un altro ha riconosciuto: “Non c’è molto impegno politico né speranza.”

Alla fine, solo una piccola parte dei 5.000 milioni di euro richiesti alla conferenza è andata alla popolazione devastata di Gaza. Invece, la maggior parte di quel denaro è andato alle casse dell’Autorità Palestinese in Cisgiordania, che spende circa il 30% del suo budget in “sicurezza” per mantenere l’ordine dei loro compatrioti palestinesi, a vantaggio dell’occupante.

All’inizio di quest’anno, quando si è completamente esaurito il fondo di ricostruzione, Robert Serry, coordinatore speciale dell’ONU per il Medio Oriente, ha cercato di costringere i palestinesi di Gaza ad accettare un piano di ricostruzione organizzato tra le forze armate di Israele, la giunta militare egiziana comandata da Abdel Fattah el-Sisi e l’Anp. Viene descritto dal corrispondente militare israeliano come un modello di “approccio alla gestione dei conflitti”, l’obiettivo del piano è l’internazionalizzazione dell’ assedio della Striscia di Gaza e la perpetuazione della detenzione dei palestinesi che vivono lì. Inutile dire che la proposta è destinata al fallimento tra coloro le cui vite sarebbero controllate dal piano.

Anche se Hamas ha rigorosamente mantenuto il cessate il fuoco firmato lo scorso agosto, quando le ostilità sono cessate, Israele ha ripetutamente attaccato i pescatori di Gaza e gli agricoltori che lavorano nei pressi della recinzione del confine con Israele. Man mano che si estende la disperazione, gli estremisti salafiti -che prima erano composti da gruppi minuscoli- sono sempre più numerosi e giurano fedeltà allo Stato Islamico (IS, Islamic State), la fazione teocratica brutale che ha creato un “califfato” in alcune parti della Siria e Iraq e i cui sostenitori di Gaza hanno dichiarato guerra ad Hamas.

I gruppi alleati dell’ IS che operano nella Striscia di Gaza hanno adottato una formula semplice per indebolire Hamas; consiste nel lanciare un razzo rudimentale o colpi di mortaio verso una zona solitamente disabitata del sud di Israele. Questi scatti producono poco o nessun danno, poco importa; i militanti di IS sanno che Israele risponderà con un attacco aereo su una posizione di Hamas. Attraverso queste provocazioni, lo Stato islamico con sede a Gaza ha creato un’alleanza di convenienza con l’esercito israeliano, gli uni si affidano agli altri per mettere in difficoltà Hamas. Anche se l’IS al momento non ha alcuna possibilità di disarcionare Hamas, la sua compresenza e l’apparente disponibilità di Israele a fare il gioco dell’IS ha introdotto un elemento nuovo e imprevedibile nel panorama già di per sé instabile del dopoguerra.

La qualità si testa sul terreno

L’estate scorsa, Hamas e gruppi affini, come la Jihad islamica palestinese, erano entrati in guerra con una serie di condizioni tutte di carattere umanitario. Tali condizioni includevano il diritto di costruire un porto marittimo a Gaza, la ricostruzione dell’aeroporto distrutto da Israele, la libertà di importazione ed esportazione di merci, così come la possibilità dei residenti apolidi di Gaza di ottenere il permesso di viaggiare. In cambio, Hamas offriva a Israele una tregua di 10 anni. Invece di accettare una di queste condizioni, il che avrebbe promosso una drastica riduzione delle tensioni, Israele e i suoi alleati al Cairo e Washington hanno optato per una guerra brutale che è durata 51 giorni, sapendo che i civili di Gaza avrebbe pagato un prezzo molto alto e il settore elitario della società israeliana avrebbe raccolto splendide ricompense.

A differenza di chi governa a Gaza, l’alto ceto di Israele vive di guerra. Gli attacchi contro Gaza effettuati dal 2005 hanno rafforzato una delle principali industrie del paese ed è stato un grande aiuto per le 150.000 famiglie israeliane che si guadagnano da vivere da essa. In gran parte grazie alle guerre a Gaza e l’occupazione della Palestina, l’industria degli armamenti israeliana ha triplicato il suo utile in più di 7.000 milioni di dollari all’anno in relazione al decennio precedente, e convertito un paese delle dimensioni del New Jersey nel quarto esportatore mondiale di armi.

“Un venditore delle IAI [Israel Aerospace Industries] mi ha detto che gli omicidi e le operazioni a Gaza hanno portato un aumento di decine di punti percentuali nelle vendite della società”, ha detto Yotam Feldman, il giornalista israeliano il cui film documentario -THE LAB- fornisce uno sguardo inquietante sull’industria delle armi in questo paese e di come ha trasformato la società israeliana. Secondo Feldman, “la guerra di Gaza è diventata caratteristica del sistema politico di Israele, e forse una parte del nostro sistema di governo.”

I membri delle elites israeliane hanno beneficiato direttamente partecipando alle guerre a Gaza, organizzando gli attacchi in qualità di generali e politici, per poi ottenere posti di lavoro come lobbisti o vendendo a militari stranieri il materiale militare di ultima generazione e le ultime tattiche di combattimento collaudate contro la popolazione civile della Striscia di Gaza. Ehud Barak, per esempio, è stato ministro della Difesa nel 2008-2009 e nel 2012, ha condotto gli sproporzionati attacchi su Gaza. Egli è stato anche uno dei soci più prossimi di Michael Federman, ex membro del commando Sayeret Matkal e consulente politico che risulta anche essere il proprietario di una delle più grandi aziende di armi israeliane, Elbit system. Forse quindi non dovrebbe sorprendere il fatto che dopo essere stato a capo del Ministero della Difesa, in coincidenza con tante guerre, utilizzando e incoraggiando l’uso delle più recenti armi Elbit, il nome di Barak ha fatto un salto nel 2012 nella lista Forbes dei politici israeliani più ricchi.

E’ possibile che uno sguardo rapido alle pagine della Israel Defense News, la più grande rivista specializzata in lingua inglese del settore armi israeliane, sia il modo migliore per vedere come si sono vendute le ultime tattiche e armi. Nella sua ultima edizione, dedicata alla “guerra della nuova era” tenutasi a Gaza, assicura ai suoi lettori che “il 2015 sarà un anno positivo per l’industria della difesa israeliana.” Uri Vered, direttore generale di Elbit Systems, promette che i “sistemi terrestri” -i carri armati e i veicoli blindati usati nell’ultimo conflitto registreranno una crescita record.

Tra i sistemi di armi disponibili sulla rivista c’è un drone “può accerchiare il bersaglio e attaccarlo.” Questo è un riferimento a Harop, un “drone suicida” delle Industrie Aerospaziali Israeliane, testato per la prima volta nel sud del Libano, che resta immobile sul bersaglio prima di cadere su di lui con il suo carico esplosivo di 10 chili alloggiati nel suo naso. Con le forze armate di tutto il mondo che comprano centinaia di Harop, l’industria di armamenti israeliana brama il lancio di una nuova generazione di questo veicolo che comprende una propria piattaforma di lancio. Per etichettare il loro moderno drone con la magica iscrizione “testato su campo” tutto ciò che serve alle Industrie Aerospaziali Israeliane è una nuova guerra.

Il punto di non ritorno

A dire il vero, ci sono alcune personalità di spicco all’interno dell’apparato di intelligence militare israeliana che sono riluttanti a un’altra guerra contro le fazioni armate di Gaza, almeno nel breve termine. Queste persone riconoscono che nella Striscia Hamas è diventato un fattore di stabilità, che è in grado di mantenere in buona fede un cessate il fuoco. Come ha fatto negli anni settanta e ottanta con l’Organizzazione di Liberazione della Palestina controllata da Fatah, l’establishment militare israeliano ha cercato di domare Hamas mediante l’assassinio degli “irriducibili” come l’ex comandante di Al-Qassam Ahmed Jaabari, consentendo nel frattempo la crescita di persone politicamente più concilianti e ambiziose come il primo ministro Ismail Haniyeh a Gaza. Questa strategia mira a coltivare all’interno di Hamas quel tipo di leadership docile che oggi caratterizza l’Autorità palestinese in Cisgiordania, e trasformare in tal modo un’altra auto-proclamata organizzazione di resistenza palestinese in una subappaltatrice dell’occupazione.

Eppure, mentre Israele (basandosi su mediatori internazionali) si impegna in un dialogo con Hamas su una serie di questioni, tra cui il rilascio di un cittadino israeliano catturato, non si ha l’impressione che la strategia di addomesticamento stia funzionando. Qualunque siano i compromessi accomodanti che hanno in mente i guardiani dell’intelligence militare israeliana, è probabile che il caos innescato dall’operazione ‘Bordo Protettivo’ abbia spinto la società israeliana ad un punto di non ritorno. In effetti, l’atmosfera bellica si è rivelata una manna dal cielo nell’aver mobilitato l’estrema destra, che elettrizza sia il governo religioso-nazionalista che i teppisti fascisti nelle strade di Tel Aviv. Nel gennaio di quest’anno, il 45% degli ebrei israeliani che si lamentava del fatto che a Gaza il suo esercito non aveva usato una forza sufficiente ha votato per il governo più di destra della storia di Israele.

Tra i leader del sempre più dominante movimento religioso-nazionalista, c’è Naftali Bennett, 43 anni, capo del partito della Casa Giudaica, che sostiene i coloni degli insediamenti. Bennett ha trascorso gran parte della scorsa estate di guerra scagliandosi contro il primo ministro Benjamin Netanyahu per aver rifiutato di dare l’ordine di rioccupare tutta la Striscia di Gaza reprimendo violentemente Hamas, un’azione potenzialmente catastrofica alla quale sia Netanyahu che gli alti vertici militari israeliani si opposero con veemenza. Mentre Bennett accusa i palestinesi di “genocidio contro il suo popolo” * Ayelet Shaked una sua giovane deputata ha dichiarato che i civili palestinesi “Sono tutti dei combattenti nemici, e tutto il sangue versato deve ricadere sulla loro testa.” Secondo Shaked, “le madri dei martiri” devono essere sterminate, “così come dovrebbero essere [demolite] anche le case dove vengono allevati i serpenti. In caso contrario, altri serpenti più piccoli vi cresceranno”.

Nell’attuale governo di coalizione israeliano Bennett ricopre la carica di Ministro della Pubblica Istruzione e supervisiona l’educazione di milioni di bambini e giovani israeliani. Data la sua influenza diretta sul sistema giudiziario, Shaked è stata promossa a ministro della Giustizia. Netanyahu, che una volta era uno dei “Giovani Turchi” del destrista Likud, si trova ora nel vuoto centrale della politica di Israele, mediando tra i sostenitori della linea dura etno-nazionalisti ed i fascisti dichiarati.

Per quanto riguarda Gaza, la leale opposizione di Israele non differisce molto da quella di alcuni governanti di destra. Nei giorni che precedevano le elezioni nazionali nel gennaio scorso, Tzipi Livni, leader di centro-sinistra dell’Unione Sionista, ha dichiarato: “Hamas è un’organizzazione terroristica e da essa non ci si può aspettare la pace … l’unica cosa adatta per Hamas è l’uso della forza; contro il terrorismo si deve usare la forza militare … contrariamente alla politica del [primo ministro Benjamin] Netanyahu di raggiungere un accordo con Hamas “. L’alleato di Livni, leader del partito laburista Isaac Herzog, ha ribadito la posizione militaristica di Livni quando diceva: “Non ci può essere nessun compromesso con il terrore”.

Pochi mesi dopo la cessazione delle ostilità, anche se i corrispondenti stranieri erano sorpresi della “calma” lungo i confini della Striscia di Gaza, la leadership israeliana sta alzando i toni delle sue sanguinose imprecazioni. In una conferenza a maggio sponsorizzata da Shurat HaDin, un’organizzazione di avvocati dediti alla difesa di Israele contro le accuse di crimini di guerra, il ministro della Difesa Moshe Yaalon ha avvertito che era inevitabile un altro schiacciante attacco, o contro Gaza o nel Libano meridionale, o contro entrambi. Dopo aver minacciato di lanciare un’arma nucleare contro l’Iran, Yaalon ha promesso che “faremo del male a civili libanesi, comprendendo i bambini della famiglia. Ne abbiamo discusso a lungo e duramente … lo abbiamo fatto allora, lo abbiamo fatto nella Striscia di Gaza; lo faremo in futuro, lo faremo ogni volta che ci saranno ostilità.”

Yaalon ha continuato a vantarsi di fronte al suo pubblico dicendo che un anno prima dell’operazione ‘Bordo Protettivo’ aveva dato ai suoi comandanti le mappe di “alcuni quartieri di Gaza” che dovevano essere attaccati. Tra di loro c’era Shijaiya, una zona ad est di Gaza City dove 120 civili sono stati uccisi in poche ore e che ancora oggi è in rovina. La Striscia di Gaza non si è ancora ripresa dall’ultimo attacco della scorsa estate; in ogni caso, non vi è alcun motivo di dubitare che l’esercito israeliano non mantenga le promesse terrificanti di Yaalon, forse anche prima di quanto ci si aspetti.

Per Israele, la guerra non è più una scelta. Si tratta di un modo di vivere.

Max Blumenthal, collaboratore regolare di TomDispatch, è autore del bestseller Repubblican Gomorrah (La Gomorra repubblicana) e di Goliath (Golia), vincitore del premio Lannan Foundational Cultural Freedom Notable Book. È redattore anziano di AlterNet. Il suo libro più recente è La guerra dei 51 giorni: Rovina e resistenza a Gaza (Nation Books).

Fonte: www.rebelion.org

Link: http://www.rebelion.org/noticia.php?id=201292

21.08.2015

Traduzione dallo spagnolo per www.comedonchisciotte.org a cura di TORITO

* Auto-genocidio, nell’originale inglese. (N. di T.)

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