LA FINE DEL CAPITALISMO E’ INIZIATA

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DI PAUL MASON

theguardian.com

Le bandiere rosse e gli inni di Syriza nelle manifestazioni durante la crisi greca, insieme alle aspettative di nazionalizzazione delle banche greche, hanno fatto brevemente rivivere un mito del 20° secolo: la distruzione forzata del mercato dall’alto. Per la gran parte del 20° secolo, fu così che la sinistra concepì la prima fase di un’ economia che andasse oltre il capitalismo. La classe operaia doveva agire con la forza sia nelle urne elettorali sia sulle barricate. La leva era lo Stato. L’occasione sarebbe venuta con i ripetuti episodi di collasso economico.

Invece, nel corso degli ultimi 25 anni, a crollare è stato il progetto della sinistra. Il mercato ha distrutto il piano; l’individualismo ha preso il posto della solidarietà e del collettivismo. La forza lavoro, ingigantitasi nel mondo, si presenta come un ‘proletariato’ che però non pensa e non agisce come una volta.

Se si è vissuto tutto questo e si disprezza il capitalismo, è stato davvero traumatico. Ma durante questo processo la tecnologia ha creato una nuova via d’uscita, che quel che resta della vecchia sinistra – e di tutte le altre forze interessate – hanno dovuto accettare, oppure morire. Si scopre che il capitalismo non sarà abolito con tecniche di protesta forzate. Sarà abolito con la nascita di qualcosa di più dinamico che già esiste, anche se quasi invisibile, all’interno del vecchio sistema, e che irromperà e rimodellerà l’economia attorno a nuovi valori e comportamenti: io lo chiamo post-capitalismo.

Come per la fine del feudalesimo 500 anni fa, la sostituzione del capitalismo con il post-capitalismo sarà accelerata da shock esterni e plasmata dalla comparsa di un nuovo tipo di essere umano. Questo processo è già iniziato.

Il post-capitalismo è stato reso possibile da tre importanti cambiamenti che l’informatica ha portato negli ultimi 25 anni. In primo luogo, si è ridotta la necessità di lavoro, si è reso indistinto il confine tra lavoro e tempo libero e si è risolto il rapporto tra lavoro e salario. La prossima ondata di automazione, attualmente in fase di stallo (perché la nostra infrastruttura sociale non è in grado di supportarne le conseguenze) diminuirà ulteriormente la quantità di lavoro necessario, e non solo per una questione di sopravvivenza, ma per dare a tutti una vita più dignitosa.

Secondo, l’informazione ha corroso nel tempo la capacità del mercato di formare il prezzo in modo corretto. Questo perché i mercati si basano sulla scarsità, mentre l’informazione sull’abbondanza. Il meccanismo di difesa del sistema è quello di formare dei monopoli – es.: i giganti dell’high-tech – su una scala mai vista prima d’ora negli ultimi 200 anni, monopoli che però non possono durare. Costruendo modelli di business e condividendo valutazioni basate sul sequestro e la privatizzazione di tutte le informazioni socialmente prodotte, le società di ricerca stanno costruendo un modello aziendale fragile, in contrasto con la più elementare tra le esigenze dell’umanità: quella di poter utilizzare la conoscenza e le idee liberamente.

In terzo luogo, stiamo assistendo alla nascita spontanea di produzioni collaborative: si stanno manifestando beni, servizi e organizzazioni che non rispondono ai dettami del mercato e alla gerarchia manageriale. Il prodotto dell’informazione più grande al mondo – Wikipedia – è reso gratis da volontari, abolendo così il business enciclopedico e privando l’industria editoriale di qualcosa come 3 miliardi di dollari di entrate l’anno.

Quasi inosservate, tra le nicchie e gli anfratti del sistema di mercato, intere porzioni di vita economica stanno iniziando a muoversi a un ritmo diverso. Valute parallele, banche del tempo, cooperative e spazi autogestiti si sono moltiplicati nel tempo e in modo quasi invisibile agli occhi dell’economia dominante, e spesso come diretto risultato della frantumazione delle vecchie strutture economiche del post-crisi 2008.

Questa nuova forma di economia la si può trovare solo se la si cerca attentamente. In Grecia, quando una ONG indipendente ha tracciato la mappa delle cooperative alimentari, dei produttori alternativi, delle valute parallele e dei sistemi di valuta locale del paese, ha scoperto oltre 70 progetti importanti e centinaia di iniziative minori relative a occupazione di spazi inutilizzati, car-sharing e asili nido indipendenti. Per l’economia tradizionale, queste cose possono a malapena considerasi attività economiche – ma è proprio questo il punto. Esistono perché già commerciano – pur se in modo irregolare e poco efficiente – nella valuta dell’era post-capitalistica: il tempo libero, le attività in rete e altre cose gratuite. Possono apparire come insufficienti, misere o inadatte a sostituire l’attuale sistema economico globale; ma è quello che sembrava il denaro e il credito al tempo di Edoardo III.

Nuove forme di proprietà e di prestiti, nuovi contratti giuridici: nel corso degli ultimi dieci anni è emersa una nuova sottocultura, che i media hanno definito “economia della condivisione”. Tormentoni come “beni condivisi” e “produzione peer-to peer” sono ormai familiari quasi a tutti, ma pochi si sono preoccupati di domandarsi cosa rappresentino realmente per il capitalismo.

Io credo che siano una via di salvezza – ma solo se questi micro-progetti saranno coltivati, promossi e protetti da un sostanziale cambiamento a livello governativo. E questo è possibile con un cambiamento nel nostro modo di pensare – riguardo alla tecnologia, alla proprietà e al lavoro. In modo tale che, quando creeremo gli elementi del nuovo sistema, potremo dire a noi stessi e agli altri: “Questo non è più semplicemente il mio meccanismo di sopravvivenza o la mia via di fuga dal mondo neoliberalista: questo è un nuovo modo di vivere in via di formazione”.

Il crollo del 2008 ha spazzato via il 13% della produzione mondiale e il 20% del commercio globale. La crescita globale è diventata di segno negativo – su una scala in cui qualsiasi cosa al di sotto del 3% è considerata in recessione. Si è prodotta in Occidente una fase di depressione più lunga di quella del 1929-33, e ancora oggi, pur di fronte a un timido recupero, gli economisti sono terrorizzati dalla prospettiva di una stagnazione a lungo termine. Le scosse di assestamento in Europa stanno facendo a pezzi il continente.

Le soluzioni adottate sono state l’austerità e allentamento monetario. Ma non funzionano. Nei paesi più colpiti è stato distrutto il sistema pensionistico, l’età pensionabile è salita fino a 70 anni e l’educazione privatizzata costringe i laureati ad una vita di debiti. I servizi pubblici sono smantellati ad uno ad uno e i progetti infrastrutturali posti in standby.

Anche oggi molte persone ancora non conoscono il vero significato della parola “austerità”. Austerità non significa otto anni di tagli alla spesa pubblica, come nel Regno Unito, oppure la catastrofe sociale inflitta alla Grecia. Austerità dovrebbe significare condurre gli stipendi, i salari e gli standard di vita nei paesi occidentali progressivamente verso livelli più bassi, nello spazio di decenni, fino a che non incontrano quelli della classe media in Cina e in India, e insieme poi riprendere il cammino verso l’alto.

Nel frattempo, in assenza di un modello alternativo, si sono create le condizioni per una nuova crisi. In Giappone, nei paesi meridionali dell’Eurozona, negli Stati Uniti e nel Regno Unito i salari reali sono fermi o in discesa. Il sistema bancario parallelo è stato ristabilito e oggi è anche più esteso di quello del 2008. Le nuove regole che impongono alle banche di costituire maggiori riserve sono minimizzate o addirittura ignorate. Nel frattempo, l’1% della popolazione mondiale ricco è diventato ancora più ricco.

Il neoliberismo, inoltre, si è trasformato in un sistema programmato che produce danni catastrofici ricorrenti. E, peggio ancora, ha distrutto il modello di capitalismo industriale di 200 anni, dove una crisi economica solitamente generava nuove forme di innovazione tecnologica, a beneficio e per la ripresa di tutti.

Ecco perché il neoliberismo è stato il primo modello economico in 200 anni di storia, basato sulla riduzione dei salari e sulla distruzione del potere sociale e della forza della classe operaia. Se passiamo in rassegna al modo in cui hanno preso il via i periodi studiati dai teorici dei lunghi cicli – 1850 in Europa, 1900 e 1950 in tutto il mondo – vedremo che è stata la forza del lavoro organizzato a costringere aziende e imprenditori a smettere di cercare di far rivivere datati modelli di business – come i tagli salariali – e a elaborare una nuova forma di capitalismo.

Il risultato è che, ad ogni ripresa, troviamo un’automazione ancora più sintetizzata, dei salari aumentati e consumi di maggior valore. Oggi la forza lavoro non esercita alcuna pressione, e la tecnologia al centro di quest’ ondata di innovazione non richiede una maggiore spesa di consumo o l’impiego di vecchia forza lavoro nei nuovi posti di lavoro. La tecnologia dell’informazione è una macchina che riduce al minimo il prezzo delle cose e taglia i tempi di lavoro necessari per sostenere la vita sul pianeta.

Di conseguenza, gran parte della classe imprenditoriale è diventata neo-luddista (luddisti=operai di inizio ‘800 che si opposero all’introduzione delle macchine nella produzione industriale, considerata causa del crollo dell’occupazione – ndt). Di fronte alla possibilità di creare laboratori di sequenze genetiche, hanno invece aperto dei coffee-shop, centri estetici e imprese di pulizie: il sistema bancario e di programmazione economica e l’ultima tendenza neoliberista tendono a premiare soprattutto chi crea nuove occupazioni di basso valore di lungo orario lavorativo.

L’innovazione arriva, ma fino a oggi non ha ancora innescato la quinta lunga ripresa del capitalismo prevista dalla teoria del lungo ciclo. Le ragioni risiedono nella specifica natura della tecnologia dell’informazione.

Siamo circondati non solo da macchine intelligenti, ma da un nuova realtà basata sull’informazione. Consideriamo un aereo di linea: è un computer che lo fa volare. Viene progettato, testato e “virtualmente fabbricato” milioni di volte; e continuamente rimanda ai suoi fornitori in tempo reale un flusso continuo d’informazioni. A bordo ci sono passeggeri che guardano uno schermo e, nei paesi più fortunati, anche a internet.

Visto da sotto, è sempre lo stesso uccello di metallo bianco dell’era di James Bond, ma oggi è anche una macchina intelligente e un nodo di comunicazione. Per il mondo ha un contenuto informativo e aggiunge “valore informativo” – oltre a quello materiale. Nella business class di un volo strapieno, quando tutti sono lì con gli occhi puntati su un documento Excel o PowerPoint, la cabina passeggeri diventa concretamente una fabbrica di informazioni.

Ma che valore hanno tutte queste informazioni? Non troverete la risposta a questa domanda nei libri contabili. La proprietà Intellettuale viene conteggiata in modo esclusivamente congetturale. Uno studio del 2013 per l’Istituto SAS ha rilevato che, per dare un valore ai dati, era impossibile calcolare con precisione i costi della loro raccolta, il loro valore di mercato e la ricchezza che avrebbero prodotto nel futuro. Solo attraverso una forma di contabilità che comprendesse benefici e rischi non economici, le aziende sarebbero state in grado di poter spiegare ai propri azionisti il valore delle informazioni. C’e’ qualcosa che non torna nella logica che usiamo per dare un valore alla cosa più importante del mondo moderno.

Il grande progresso tecnologico dei primi anni del 21° secolo non è fatto solo di nuovi oggetti e processi, ma di oggetti e processi vecchi resi intelligenti. Il contenuto intellettuale dei prodotti sta diventando sempre più prezioso di quello materiale necessario per la loro produzione. Ma è un valore che si misura in termini di utilità e non di scambio o di patrimonio. Nel 1990, gli economisti e i tecnici hanno iniziato a condividere un pensiero: cioè che il nuovo ruolo dell’informazione stava creando un ‘terzo’ tipo di capitalismo – diverso dal capitalismo industriale come il capitalismo industriale lo era dal capitalismo fondato sulla schiavitù del 17° e 18° secolo. Hanno però avuto difficoltà a descrivere le dinamiche di questo nuovo capitalismo cognitivo, e per un motivo preciso: le sue dinamiche sono profondamente non-capitalistiche.

Durante e subito dopo la seconda guerra mondiale, gli economisti consideravano l’informazione solo come un “bene pubblico”. Il governo degli Stati Uniti decretò anche che il profitto doveva provenire solo dai processi produttivi e non dai brevetti. Poi si iniziò a capire qualcosa di più sulla proprietà intellettuale. Nel 1962, Kenneth Arrow, il guru delle teorie economiche dominanti, disse che in un’economia di libero mercato lo scopo di inventare le cose era quello di creare diritti di proprietà intellettuale. Egli osservò che: “Proprio nella misura in cui un prodotto è di successo c’è una sottoutilizzazione delle informazioni”.

Tale verità la si può riscontrare in tutti i modelli di e-business finora concepiti: monopolizzare e proteggere i dati, raccogliere i dati disponibili generati dalle interazioni sociali dell’utente, spingere le forze commerciali verso aree di produzione di dati che prima non erano commerciali, cercare nei dati esistenti nuovi dati di valore predittivo – garantendo sempre e comunque l’utilizzo esclusivo di questi risultati per l’azienda.

Se riaffermiamo al contrario il principio di Arrow, diventano evidenti le sue implicazioni rivoluzionarie: se l’economia del mercato libero unita alla proprietà intellettuale conducono alla ‘sottoutilizzazione delle informazioni”, allora un’economia basata sulla piena utilizzazione dell’informazione non può tollerare il libero mercato o il diritto assoluto della proprietà Intellettuale. I modelli di business di tutti i nostri attuali giganti digitali sono progettati per impedire la sovrabbondanza delle informazioni.

Tuttavia le informazioni restano abbondanti. Il bene ‘informazione’ resta liberamente riproducibile. Una volta che il bene è creato, esso può essere copiato/incollato/riprodotto all’infinito. Un brano musicale o il gigantesco database utilizzato per costruire un aereo di linea ha un suo costo di produzione; ma il suo costo di riproduzione è prossimo allo zero. Pertanto, se il normale meccanismo del prezzo nel sistema capitalista attuale dovesse continuare nel tempo, anche quel prezzo diverrebbe zero.

Negli ultimi 25 anni l’economia ha dovuto fare i conti con questo problema: tutta l’economia dominante si muove da una condizione di scarsità; tuttavia, la forza più dinamica del nostro mondo attuale è abbondante, e come disse una volta il geniale ‘hippy’ Stewart Brand: “Vuole essere libera”.

Accanto al mondo dell’informazione controllata e monopolizzata da aziende e governi, esiste anche una dinamica diversa: l’informazione come bene sociale, libera nel suo utilizzo, impossibile da possedere o sfruttare in modo esclusivo o da attribuirne un prezzo. Ho seguito i tentativi di economisti e guru imprenditoriali di costruire un quadro di riferimento per le dinamiche di un’economia basata su informazioni abbondanti e di pubblico dominio. In realtà, chi lo aveva immaginato già nell’era del telegrafo e del motore a vapore fu un economista del 19° secolo. Il suo nome? Karl Marx.

Scena: Kentish Town, Londra, Febbraio 1858, circa le 4 del mattino. Marx è un uomo ricercato in Germania ed è al lavoro su esperimenti mentali e appunti per se stesso. Quando finalmente sono riusciti a mettere le mani su quello che Marx stava scrivendo quella notte, gli intellettuali di sinistra degli anni ’60, hanno dovuto ammettere che ‘era una sfida ad ogni seria interpretazione del pensiero di Marx concepita fino ad allora’. Era il “Frammento sulle Macchine”.

Nel “Frammento” Marx immaginava un’economia in cui il ruolo principale delle macchine era quello di produrre, e quello dell’uomo di controllarle. Fu chiaro sul fatto che in una tale economia la forza produttiva più importante sarebbe stata l’informazione. La capacità produttiva di macchine come il telaio automatizzato, il telegrafo e la locomotiva a vapore non dipendeva dalla quantità di lavoro per produrre, ma dallo Stato delle conoscenze sociali. Organizzazione e conoscenza, in altre parole, davano un maggiore contributo al potere produttivo del lavoro materiale di costruzione e gestione delle macchine.

Considerando quello che il Marxismo sarebbe diventato – una ‘teoria dello sfruttamento basato sul furto del tempo di lavoro’ – quella era un’affermazione decisamente rivoluzionaria. Essa suggeriva che, una volta che la conoscenza fosse diventata una forza produttiva a sé stante, più importante del lavoro effettivo per la creazione della macchina, la grande questione non era il “salario contro il profitto”, ma chi controllava quello che Marx definiva il “potere della conoscenza“.

In un’economia in cui le macchine fanno la gran parte del lavoro, la natura della conoscenza insita nelle macchine doveva – egli scrisse – essere “sociale”. In un esercizio mentale a tarda notte, Marx immaginò il punto di arrivo finale di questo percorso: la creazione di una “macchina ideale”, che dura per sempre e non costa nulla. Una macchina che poteva essere costruita con niente – scrisse Marx – non avrebbe aggiunto alcun valore al processo produttivo, e in poco tempo, nel giro di qualche anno contabile, avrebbe abbattuto prezzi, profitto e costi del lavoro.

Dal momento che realizziamo che l’informazione è fisica, che il software è una macchina e che i costi relativi a stoccaggio, ampiezza di banda ed elaborazione dati stanno crollando a ritmo esponenziale, il valore del pensiero di Marx diventa chiaro. Siamo circondati da macchine che non costano niente e che potrebbero, se lo volessimo, durare per sempre.

In queste riflessioni, pubblicate solo verso la metà del 20° secolo, Marx immaginava un flusso di informazioni da memorizzare e condividere in qualcosa chiamato “intelletto generale” – una conoscenza disponibile a tutti gli abitanti della Terra socialmente collegati, dove ogni sviluppo beneficia tutti. In breve, aveva immaginato qualcosa di simile all’economia dell’informazione che oggi viviamo. E scrisse anche che “la sua esistenza avrebbe mandato all’aria il capitalismo”.

Il quadro è cambiato e il vecchio percorso oltre il capitalismo immaginato dalla sinistra del 20° secolo è perso.

Ma si è aperto un nuovo percorso. La produzione collaborativa, che utilizza la tecnologia in rete per produrre beni e servizi che funzionano solo se gratuiti o condivisi, stabilisce questo percorso al di là del sistema di mercato. Sarà necessario che lo Stato crei un quadro – proprio come quando creò nei primi anni del 19° secolo il quadro necessario per il lavoro nelle fabbriche, per la valuta e per il libero scambio. E’ probabile che il post-capitalismo coesisterà con il mercato ancora per decenni, tuttavia è in corso un grande cambiamento.

Le reti ripristineranno la “granularità” del progetto post-capitalista. Ovvero, possono essere la base di un sistema di non-mercato auto-replicante, che non ha bisogno di essere ricreato ogni mattina sullo schermo del pc di un commissario.

La transizione richiederà uno tato, un mercato e una produzione collaborativa che vadano al di là del mercato. Ma per far sì che accada, l’intero progetto della sinistra, dai gruppi di protesta ai partiti socialdemocratici e liberali tradizionali, dovrà essere riconfigurato. In realtà, una volta che la gente avrà compreso la logica della transizione post-capitalista, queste idee non saranno più di proprietà della sinistra, ma di un movimento molto più ampio, per il quale saranno necessarie nuove definizioni.

Chi può far accadere tutto questo? Nel vecchio progetto della sinistra era la classe operaia industriale. Più di 200 anni fa, il giornalista radicale Giovanni Thelwall avvertì quelli che avevano costruito le fabbriche inglesi avevano creato una nuova e pericolosa forma di democrazia: “Ogni grande fabbrica è una specie di società politica, che nessun Parlamento può mettere a tacere e che nessun magistrato può far sciogliere”.

Oggi la società intera è una fabbrica. Tutti noi partecipiamo alla creazione e alla ricreazione dei marchi, delle norme e delle istituzioni che ci circondano. Nello stesso momento, le reti di comunicazioni vitali per il lavoro quotidiano e per il profitto sono zeppe di conoscenza e di malcontento condiviso. Oggi è la rete – come la fabbrica di 200 anni fa – quella che “nessuno può far tacere o sciogliere”.

È vero, in tempi di crisi gli stati possono oscurare Facebook, Twitter, l’Internet e le reti mobili, paralizzando l’economia. Ed è possibile archiviare e controllare ogni kilobyte di informazione che produciamo. Ma non è più possibile riproporre il sistema gerarchico, propagandistico e ignorante di 50 anni fa, tranne alcune eccezioni – vedi Cina, Corea del Nord o Iran – in cui si escludono alcune parti fondamentali della vita moderna. Sarebbe, come dice il sociologo Manuel Castells, come cercare di de-elettrificare un paese.

Con la creazione di una rete che connette milioni di persone, sfruttata commercialmente, sì, ma con tutto lo scibile umano possibile a portata di un click, l’info-capitalismo ha creato una nuova figura in grado di cambiare la storia: l’essere umano civile, informato e connesso.

Sarà molto più che una semplice transizione economica. Ci sono, naturalmente, compiti paralleli e urgenti come la decarbonizzazione del pianeta, l’esplosione demografica e i crolli finanziari. Ma qui mi sto concentrando sulla transizione economica innescata dall’informazione. Perché questa finora è stata messa da parte. Il peer-to-peer è diventato globale, un’ossessione di nicchia per i visionari, mentre i pezzi grossi della sinistra continuano a criticare le misure di austerità.

In realtà, in paesi come la Grecia, la resistenza all’austerità e la creazione di reti “irrinunciabili” vanno di pari passo, secondo quanto riportano gli attivisti. Ma, soprattutto, il post-capitalismo come concetto è fatto di nuove forme comportamentali che l’economia convenzionale non considererebbe rilevanti.

Quindi, in che consisterà questa transizione che ci attende? L’unico parallelo storico che abbiamo a disposizione è la sostituzione del feudalesimo con il capitalismo, e grazie al lavoro di epidemiologi, genetisti e analisti di dati, oggi sappiamo molto di più su questa transizione di 50 anni fa, quando tutta questa materia era di esclusivo dominio delle Scienze Sociali. La prima cosa che dobbiamo riconoscere è che i nuovi modelli produttivi saranno strutturati intorno a cose diverse. Il Feudalesimo era un sistema economico strutturato intorno ad usi e costumi relativi all’ “obbligo”. Il capitalismo invece si è strutturato intorno a qualcosa di puramente economico: il mercato. Da ciò possiamo prevedere che il post-capitalismo – la cui condizione necessaria è l’abbondanza – non sarà soltanto una forma modificata di una complessa società di mercato. Possiamo però già cogliere qualche aspetto positivo di questo cambiamento.

Non voglio dire che questo sia un modo per evitare il problema: possiamo sicuramente delineare i parametri economici generali di una società post-capitalista nell’anno 2075, ad esempio. Ma se questa società sarà strutturata intorno alla liberazione dell’uomo e non all’economia, potrà essere plasmata da cambiamenti imprevedibili.

Ad esempio, la cosa più ovvia per Shakespeare, che scriveva nel 1600, era che il mercato di quel tempo stava producendo nuove forme di comportamento e di moralità. Per analogia, la cosa più ovvia per lo Shakespeare del 2075 sarà la totale rivoluzione nei rapporti tra i generi, o nella sessualità o nel campo della salute. Forse non esisteranno neanche più degli scrittori teatrali: forse cambierà totalmente la natura dei mezzi di comunicazione che useremo per raccontare storie e eventi – così come cambiò ai tempi della Regina Elisabetta I, quando s’iniziò a costruire i primi teatri.

Pensate ad esempio alle differenze tra personaggi come Orazio in Amleto e Daniel Doyce della Piccola Dorrit di Dickens. Entrambi avevano una tipica ossessione della loro età: Orazio è ossessionato dalla filosofia umanista; Doyce dal voler brevettare una sua invenzione. Non potrà mai esserci un personaggio come Doyce in un lavoro di Shakespeare; al massimo avrebbe avuto una parte comica in una figura marginale della classe operaia. Tuttavia, quando Dickens descrisse il suo personaggio Doyce, la maggior parte dei suoi lettori conosceva qualcuno come lui. Così come Shakespeare non avrebbe potuto immaginare un Doyce, così anche noi non riusciamo a immaginare il tipo di esseri umani che produrrà la società quando l’economia non sarà più al centro di tutto. Possiamo tuttavia averne un’idea ricordando il modo in cui i giorni del 20° secolo abbatterono le barriere della sessualità, del lavoro, della creatività e della propria individualità.

Il modello feudale di agricoltura si scontrò in primo luogo con limiti ambientali e poi con un grande shock esterno: la Morte Nera (peste). Dopo, seguì un shock demografico: troppe poche braccia per la terra, cosa che fece aumentare i salari e reso impossibile il vecchio sistema feudale incentrato sul rispetto dell’obbligo. La carenza di manodopera rese necessaria l’Innovazione Tecnologica. Furono proprio le nuove tecnologie che caratterizzarono l’ascesa del capitalismo mercantile a stimolare il commercio (la stampa e la contabilità), la creazione di beni commerciabili (estrazione mineraria, bussola e navi veloci) e la produttività (la matematica e il metodo scientifico).

Durante tutto l’intero processo era presente qualcosa che sembrava accessorio per il vecchio sistema – la moneta e il credito – che in realtà era destinata a diventare la base del nuovo sistema. Nel periodo feudale, molte leggi, usi e costumi furono modellati ignorando il denaro; il credito, poi, nell’alto medioevo, era addirittura considerato peccaminoso. Così, quando il denaro e il credito irruppero attraverso i confini per creare un sistema di mercato, ciò fu avvertito come una rivoluzione. In seguito, quello che diede energia al nuovo sistema fu la scoperta di una fonte praticamente illimitata di ricchezze nelle Americhe.

Una combinazione di tutti questi fattori fece sì che persone che durante il feudalesimo erano state emarginate – umanisti, scienziati, artigiani, avvocati, predicatori e drammaturghi radicali bohemien, come Shakespeare – fossero posti a capo della trasformazione sociale. Nei momenti cruciali, anche se inizialmente in modo timido, lo Stato oscillò tra il voler ostacolare il cambiamento ed il promuoverlo.

Oggi, quello che sta corrodendo il capitalismo,a malapena razionalizzato dall’economia tradizionale, è l’ informazione. La maggior parte delle leggi che riguardano le informazioni stabiliscono il diritto delle società di detenerle e archiviarle e il diritto dello Stato di avervi accesso, indipendentemente dai diritti umani dei cittadini. L’equivalente storico della stampa e del metodo scientifico sono le tecnologie dell’informazione e le loro ricadute in tutte le altre tecnologie, dalla genetica alla sanità, dall’agricoltura al cinema, dove continua a ridurne rapidamente i costi.

L’equivalente moderno della lunga stagnazione del tardo feudalesimo è il lento decollo della terza rivoluzione industriale, dove invece di automatizzare rapidamente il lavoro esistente, siamo costretti a inventarci quelli che David Graeber chiama “lavori stupidi” con salari bassi. E molte economie sono stagnanti.

L’equivalente della nuova fonte gratuita di ricchezza? Non è proprio ricchezza: è l’indotto, tutte quelle cose gratuite generate dalle interazioni in rete. E’ l’ascesa della produzione di non-mercato, di informazioni non possedibili, di reti peer-to-peer e di imprese senza management. L’Internet, dice l’economista Francese Yann Moulier-Boutang, è allo stesso tempo “il mare e la nave”, nell’equivalente moderno della scoperta del nuovo mondo. Anzi, è mare, nave, bussola e oro.

Gli shock esterni del nostro tempo sono ormai chiari: esaurimento di energia, cambiamento climatico, invecchiamento della popolazione e migrazione. Stanno alterando le dinamiche del capitalismo rendendolo impraticabile nel lungo termine. Non hanno ancora avuto lo stesso impatto della Morte Nera, ma, come abbiamo visto nel 2005 a New Orleans, non serve una peste bubbonica per distruggere l’ordine sociale e le infrastrutture di base di una società complessa e finanziariamente impoverita.

Una volta compresa questa dinamica di transizione, non c’è bisogno di un Piano Quinquennale super calcolato al centesimo, ma di un progetto, il cui scopo dovrebbe essere quello di ampliare quelle tecnologie, modelli di business e comportamenti che stanno erodendo le forze di mercato, rendere la conoscenza sociale, sradicare la disoccupazione e spingere l’economia verso l’abbondanza. Lo chiamo ‘Progetto Zero’, perché i suoi obiettivi sono un sistema energetico a zero emissioni di carbonio; una produzione di macchine, prodotti e servizi a zero costi marginali e una riduzione dei tempi di lavoro necessari sempre più vicini allo zero.

La maggior parte della sinistra del 20° secolo ritenne di non potersi permettere una transizione gestita: per loro era un dogma che niente del nuovo sistema poteva già esistere all’interno del vecchio – anche se la classe operaia ha sempre tentato di creare una vita alternativa all’interno e “nonostante” il capitalismo. Di conseguenza, una volta svanita la possibilità di una transizione in stile sovietico, la sinistra moderna si è preoccupata solo delle cose opposte: privatizzazione della sanità, leggi anti-sindacali, fracking – ecc. ecc.

Se ho ragione, per la logica, i sostenitori del post-capitalismo dovrebbero concentrarsi sulla costruzione di alternative all’interno del sistema; sull’uso radicale e dirompente del potere del governo e sull’indirizzare tutte le azioni verso la transizione – e non sulla difesa di elementi casuali del vecchio sistema. Dobbiamo capire cosa è urgente e cosa è importante, a volte le due cose non coincidono.

Il potere dell’immaginazione diventerà cruciale. In una società dell’informazione, nessun pensiero o dibattito o sogno è sprecato – se concepito in una tendopoli, o in una cella di prigione o durante una partita di calcio balilla nell’ora di pausa di una startup.

Per quanto riguarda la produzione virtuale, nella transizione verso il post-capitalismo il lavoro svolto a livello di progettazione può ridurre significativamente gli errori nella fase di attuazione. E la progettazione nel mondo post-capitalista, come per un software, può essere modulare. Persone diverse possono lavorare su di essa da luoghi diversi e a diverse velocità, in relativa autonomia gli uni dagli altri. Se possiamo immaginare una cosa e crearla gratis, sarebbe come se un’istituzione globale modellasse correttamente il capitalismo: un modello open source dell’intera economia; ufficiale, in grigio e nero. Ogni esperimento eseguito attraverso di essa andrebbe ad arricchirla; sarebbe open source e con tutti i possibili database disponibili, come nei più complessi modelli climatici.

La contraddizione principale oggi è tra la possibilità di prodotti e informazioni gratuiti e abbondanti e un sistema di monopoli, banche e governi che cercano a tutti i costi di mantenere le cose privatizzate, scarse e commerciabili. Tutto si riduce alla lotta tra la rete e le gerarchie, tra le vecchie forme di società modellate intorno al capitalismo e le nuove forme di società che immaginano già cosa sarà il futuro.

È forse utopistico credere che siamo sull’orlo di un’ evoluzione che superi i capitalismo? Viviamo in un mondo in cui gli uomini e le donne omosessuali possono sposarsi e in cui la contraccezione ha reso nel giro di 50 anni la donna media della classe operaia molto più libera della più scatenata tra le libertine dell’era di Bloomsbury. Perché dunque, troviamo così difficile immaginare la libertà economica?

E’ invece il progetto delle élite – chiuse nelle loro limousine nere – ad apparire oggi datato quanto lo erano le sette del Millennio del 19° secolo. La democrazie delle squadre antisommossa, i politici corrotti, i giornali controllati dai magnati e la sorveglianza globale sembrano a un tratto falsi e fragili quanto lo era la Germania Orientale trent’anni fa.

Ogni lettura della storia umana deve consentire la possibilità di un esito negativo. Siamo ossessionati e perseguitati nel cinema da zombie, day-after e deserti post-apocalittici (es.: The Road, Elysium, Oblivion, ecc.). Ma perché mai non dovremmo, invece, immaginare un quadro di vita ideale fatto di informazioni abbondanti, lavoro non gerarchico e dissociazione tra lavoro e salario?

Milioni di persone stanno iniziando a rendersi conto del contrasto tra i sogni che gli erano stati promessi e quello che la realtà ha invece. La loro risposta è – ovviamente – la rabbia, e rifugio in forme di capitalismo nazionalistico che possono solo finire di distruggere il mondo. Guardando le tesi emergenti – dalle fazioni di sinistra di Syriza pro-Grexit al Fronte Nazionale e all’isolazionismo della destra americana, è stato come vedere realizzati tutti gli incubi che abbiamo avuto durante la crisi di Lehman Brothers.

Abbiamo bisogno di molto di più di una manciata di sogni utopistici e piccoli progetti orizzontali. Abbiamo bisogno di un piano basato sulla ragione, su prove concrete e progetti verificabili che taglino netto con il passato e siano sostenibili per il pianeta. E dobbiamo portarli avanti.


Paul Mason e’ redattore di economia per Channel 4 News. Seguitelo su @paulmasonnews.

Fonte: www.theguardian.com

Link: http://www.theguardian.com/books/2015/jul/17/postcapitalism-end-of-capitalism-begun

17.07.2015

Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di SKONCERTTATA63

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