JOS MUJICA, SCHIZZO PER UN RITRATTO (INTERVISTA)

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MujicaMÓNICA BARÓ SÁNCHEZ
Rebelión

Nel dicembre del 2013 la rivista britannica The Economist, di tendenza liberista, ha sorpreso i propri lettori con una pubblicazione insolita. Per la prima volta nella sua storia ha deciso di concedere il titolo di “paese dell’anno” non basandosi sui dati economici convenzionali, ma sull’impatto delle misure che hanno inciso sulla felicità. Il vincitore è stato l’Uruguay, un frammento di terra incastonato nella costa atlantica del Sudamerica, che sulle mappe sembra una parentesi tra il Brasile e l’Argentina. Una repubblica che si proclama orientale, abitata da 3,4 milioni di abitanti e che alleva quasi il quadruplo di bovini e il triplo di ovini. Un punto di riferimento internazionale, che per non pochi internauti rappresenta un’allegoria dell’Utopia descritta da Tommaso Moro, tanto più che, lo scorso anno, la Commissione Economica dell’America Latina e del Caribe (CEPAL) ha riportato che il paese registra la migliore distribuzione dei redditi nella regione e ha il secondo più basso indice di povertà, e le Nazioni Unite lo hanno collocato al 51mo posto nel ranking mondiale dello sviluppo umano tra 187 paesi scrutinati.

Se ora i media hanno catapultato l’Uruguay al vertice della loro agenda, mentre solo un decennio fa non sapevano neanche dove si trovasse questo frammento geografico del pianeta, non si deve a queste statistiche, e né all’attuazione di uno Star system autoctono, e neppure alla recente notizia che conferma la nazionalità uruguagia di Carlos Gardel. L’interesse è dovuto, specificatamente, al suo “governante”.

Josè Mujica, un ex guerrigliero tupamaro con i 79 anni che bussano alla porta, è colui che è a capo dell’Uruguay da quasi quattro anni. Lo “scherzo del presidente” – come usualmente chiama il suo lavoro per sminuire le risonanze della carica, vinse le elezioni del 2009 in rappresentanza del Frente Amplio, un’alleanza politica con diverse tonalità di sinistra che governano il paese dal 2005.

Perché Josè Mujica ha continuato a essere Pepe anche dopo la nomina.

Non ha cambiato residenza alla vita che divide con la senatrice Lucìa Topolansky, non ha sostituito la sua cagna Manuela con un’altra con pedigree, non ha comprato un’auto fastosa, non ha tolto le sue mani contadine dalla terra e neppure ha nascosto le parole che lo rendono uguale alla gente del popolo.

Mujica ha continuato a vivere sotto il tetto dei suoi 45 metri quadri in una zona rurale chiamata Rincòn del Cerro a tredici chilometri da Montevideo. Ha conservato il suo vecchio Volkswagen due porte, quel modello “scarafaggio” tanto amato dagli hippies. Ha continuato a coltivare verdure, facendo fiorire il suo pezzo di terra e ad allevare animali. Ha preservato la naturalezza del suo carattere dalla plasticità dei protocolli, sostenendo che lui sbaglia “come qualsiasi figlio dei vicini”. E poi ha commesso un delitto contro la morale contemporanea ancora più sconcertante: ha rinunciato al 90% dello stipendio percepito con lo “scherzo” per destinarlo a opere sociali.

Stravaganza? Dipende. In un’epoca dove la felicità è concepita solo come accumulo di capitale da destinare al consumo continuo di oggetti pubblicizzati, qualsiasi tentativo di ottenere felicità in modo opposto potrebbe essere considerato come una stravaganza. Comunque questa non sarebbe una stravaganza innocua, perché esprime una visione del mondo che configge con la ragione che palpita all’interno dell’ordine capitalista e che si legittima nella realtà. Se Mujica è rispettato da molti giovani del mondo non è per il predicare la filosofia del vivere con l’indispensabile, ma per metterla in atto quotidianamente. È la coerenza tra il discorso e la pratica che evoca rispetto nel suo paese e oltre i confini uruguagi. Contro l’apoteosi di frivolezze fabbricate dall’industria culturale, è sicuramente una fortuna avere oggi una figura pubblica che non è ammirata per i denti bianchi o le forme iperbolizzate dal silicone, e che questa figura pubblica sia un presidente che cita la poesia di Antonio Machado per definire il suo stile come “povero di bagagli”, o lo stoicismo di Seneca per spiegare che non è povero perché “poveri sono quelli che vogliono tanto”.

Ma alcune volte la sua amministrazione è stata oggetto di scabrose polemiche nello scenario politico. Con grande successo il giornalista Ricardo Scagliola, introducendo l’intervista al presidente a Tevè Ciudad, ricorre a una metafora elaborata da un amico antropologo di Pepe Mujica, che lo inquadra come “un Chisciotte vestito da Sancho”, sottolineando così il dualismo contrastante, ma non incompatibile, che è essenziale per comprendere questo personaggio. Così, quando il leader vede giganti e quando vede mulini a vento, non sono problemi che si possono completamente decifrare. Scagliola ritiene che Sancho sia il capo del Governo, per il pragmatismo tipico delle decisioni del leader. Ma, in virtù del leggendario romanzo spagnolo, converrebbe chiedersi come le due identità s’intreccino nelle sue peripezie.

È con questo uomo multidimensionale, che sa essere individuo, partito, Stato e nazione, che si è svolto questo dialogo nel contesto della seconda Cumbre de la Comunidad de Estados Latinoamericanos e Caribenos (Celac), svoltasi all’Avana alla fine di gennaio. Nonostante ciò, non è stato possibile delineare con esattezza sia Sancho che Don Chisciotte per ragioni di tempo, o a causa di un’intervista troppo ambiziosa, o utopica, che non ha tenuto in considerazione il basso profilo e neppure la parsimonia con cui è solito parlare Mujica, come se la sua voce provenisse dall’interno di una grotta.

Presidente, come le è sembrata questa visita a Cuba? L’ho vista partecipare alla Marcia delle Antorchas. Che emozioni ha avuto da questa marcia?

Naturalmente, questa marcia è una tradizione in onore di Cuba e, per buona parte della sua popolazione più giovane, un pezzo della genesi di un uomo, Martì, tanto singolare per Cuba e per tutti i latinoamericani. Mi è sembrato un ricordo molto carico di calore e di contenuti, e quindi una festa dell’affermazione della nazionalità, nel senso più ampio. Mi sono sentito felice di averla conosciuta e di parteciparvi.

Lei era già stato a Cuba quand’era giovane, molto prima di essere presidente.

Sì, ovvio.

Quanti anni aveva quando è venuto per la prima volta?

Oh, figlia mia, ci voleva ancora molto perché tu nascessi. La prima volta fu nel 1960. Sono passati alcuni annetti.

E aveva trionfato la Rivoluzione Cubana. Che impatto ha avuto su di lei il trionfo?

Quello fu uno shock per la politica generale dell’America Latina, nel contesto di un mondo molto diverso, una scossa per la formazione politica dei giovani, che venivano allo scoperto, che lottavano, che sognavano di vedere relazioni più giuste nel mondo in cui ci toccava vivere. Da questo punto di vista fu una specie di sollecitazione intellettuale che scosse il continente e altre parti del mondo. È impossibile da trasmettere alle nuove generazioni l’impatto emotivo, psicopolitico, ideologico determinato dalla Rivoluzione Cubana.

E lei non faceva ancora parte del Movimento di Liberazione Nazionale Tupamaros. Fu il vivere qui o la stessa Rivoluzione Cubana a influire nella sua decisione di entrare nel movimento?

Diciamo che era già nei miei pensieri. Però… sì. Tutte i fenomeni interagiscono. Non voglio dire che sia stata determinante, ma di sicuro la Rivoluzione ha influito molto.

Fu in quegli anni che conobbe la sua compagna, la senatrice Lucìa Topolansky. Come vi siete conosciuti e innamorati?

Ci conoscemmo quando tutti e due eravamo militanti clandestini e eravamo perseguitati. In Uruguay erano sopravvenute le condizioni per una dittatura militare. Ci conoscemmo a quel tempo. E non deve sembrare strano che chi vive nel pericolo cerchi l’amore.

Poi è stato quindici anni in prigione, la maggior parte in isolamento. Nel documentario sulla sua vita – della serie “Presidenti del Latinoamerica” – lei racconta che apprese che le formiche urlano e che i topi si addomesticano. Com’è stato questo rapporto? Contribuirono le formiche e i topi ad alleviare la sua solitudine?

Non saprei. Il tempo sembra non passare mai. Le ore si dilatano. La solitudine e la notte si fanno maggiori. Non si deve dimenticare che gli antichi, dopo la pena di morte, consideravano l’allontanamento dalla società come uno dei castighi più duri da infliggere a un essere umano. Il carcere, nelle condizioni che noi subimmo, lontani da tutti, soli, rappresentava una condizione molto pericolosa per la stabilità emotiva e psichica. E per resistere, a volte, ci si rifugia nelle piccole cose.

Personalmente ho sempre avuto una grande passione per la biologia, in tutti i suoi aspetti. Non deve sorprendere che in queste condizioni abbia fatto esperimenti con le formiche. Torno a ripetere che le formiche urlano, per chi è capace di ascoltarle. Basta prenderle con le dita, mettersele qua – lo dice, mettendo le dita vicino all’orecchio – e si sentirà la formichina gridare.

Grida di dolore perché è tra le sue dita?

Non so se gridi di dolore, di paura o di che altro. Però posso garantire che grida. E sia chiaro, per queste cose si deve avere molto tempo.

Come trascorreva il tempo? In cosa si è trasformato per lei il trascorrere del tempo in quegli anni?

Qualche volta in tormento. Però ora la notte è passata.

Oggi in America Latina si parla molto della necessità di costruire la pace. Ora all’Avana si stanno sviluppando le negoziazioni tra il governo colombiano e i rappresentanti delle Forze Armate Rivoluzionarie di Colombia – Esercito del Popolo (FARC-EP) per giungere a una soluzione politica del conflitto armato, e in questo secondo vertice della Celac il America Latina e il Caribe sono state dichiarate zone di pace. Cosa intende lei per pace e da cosa crede dipenda in America Latina e Caraibi la costruzione della pace?

La pace è l’esistenza di un equilibrio ragionevole, di reciproco rispetto tra gli uomini che hanno le loro differenze, e la presenza di garanzie minime, che non facciano perdere la propria speranza che il mondo e la realtà possano avere un’evoluzione verso quello che si pensa, si sogna o si spera.

La pace implica sempre la possibilità di convivenza. E convivere con le proprie differenze. Perché alla fine quelli che si sono messi d’accordo, che non hanno contrasti, difficilmente mettono a repentaglio la pace. La pace è sempre messa in pericolo da chi dissente. Pertanto è molto saggio organizzare una società che dia spazio, in una maniera o l’altra, a forme di pensiero che possano essere differenti. Ma non è facile, perché in questi casi intervengono, in un paese, forze interne e, a volte, anche esterne.

Disgraziatamente l’umanità non ha ancora imparato che non è cosa buona entrare in casa altrui per creare problemi, pretendendo che gli altri facciano a modo nostro. Non viviamo in un mondo che ha questa capacità di rispetto per le differenze. Per questo le diversità e gli antagonismi diventano esplosivi. Portano conflitti, a volte anche armati.

Alcuni anni fa potevamo speculare sull’esistenza di guerre giuste o ingiuste. In questi giorni, non ieri o l’altro ieri, tutto sembra indicare che tutte le guerre finiscono per essere ingiuste, perché chi ne paga maggiormente le conseguenze sono sempre i più deboli. In qualsiasi società. E così la guerra si trasforma tacitamente in una condanna per i più deboli. A volte sono esentati dagli orrori della guerra coloro che ne sono maggiormente responsabili. Per questo si diventa pacifisti. O pacifisti tra virgolette, contemplando i risultati che provengono da realtà differenti.

Speriamo che la Colombia trovi il suo percorso di trattativa politica. È molto meglio una brutta trattativa che una guerra continua che alla fine condanna al sacrificio moltissime persone, senza prospettive di una via d’uscita. Una volta dicevamo che sì, la guerra si fa per una pace migliore. Ma negli ultimi venti, venticinque anni abbiamo visto molte guerre e poi una pace ancor peggiore. Per questo diventiamo pacifisti.

I media hanno riferito che lei, durante la sua visita, si sarebbe incontrato con i rappresentanti delle FARC e col presidente Juan Manuel Santos. C’è qualcosa che può dirci al riguardo?

Con Santos ho scambiato parole di saluto, comuni e usuali. Non mi sembrava opportuno parlare con lui, quanto ascoltarlo. Santos ha fatto un lungo discorso e ha avuto molte parole di rispetto per le intenzioni politiche e le speranze rivolte in questa trattativa, e per me sono state sufficienti. Poi ho parlato con molte persone che rappresentano le FARC, scambiando opinioni sulle loro difficoltà e le loro speranze, riconoscendo che non si tratta di un problema di facile risoluzione.

Non spetta a me intromettermi nei problemi della Colombia. Ma onestamente non si può fare a meno di manifestare tutto il nostro appoggio verso gli sforzi di pace che stanno facendo i colombiani. Perché, tra le altre cose, la guerra in Colombia è la porta d’ingresso verso un conflitto in tutto il continente, e per i latinoamericani la guerra è l’ultima cosa di cui hanno bisogno. O, al limite, la guerra da intraprendere è contro la povertà e la miseria che c’è nei nostri paesi.

Non ha niente a che vedere con la guerra militare. È un’altra cosa. Pertanto, siamo e sempre in attesa. Se un giorno saremo chiamati in aiuto faremo di tutto per aiutare, sapendo però che le decisioni fondamentali le devono prendere i colombiani.

Ci sono anche molte persone che pensano che sia un problema esclusivamente della Colombia; tuttavia, come diceva lei, il conflitto è diventato uno snodo di tensione. Come crede si possa trasformare il processo di pace in Colombia, in una costruzione di pace a livello locale?

Credo che sia una responsabilità della Colombia, ma non dobbiamo essere neutrali di fronte alla richiesta di armonia e di accordo di cui hanno bisogno i colombiani. È un processo molto lungo e doloroso e i colombiani fanno parte di questa America, della parte centrale. In definitiva i problemi dei colombiani sono anche i nostri. Una cosa è l’autonomia e l’indipendenza di un popolo, tutt’altra cosa è il non aver chiaro il dovere di solidarizzare con i problemi di questo popolo.

Credo che una cosa non elimini l’altra. Il rispetto e la sovranità all’indipendenza non tolgono il forte desiderio e l’appoggio militante che si può offrire a un processo di pace. Non dobbiamo alimentare i focolai, il contrario. Però la responsabilità è dei colombiani.

Dopo la prospettiva di pace c’è un’altra domanda sul suo paese che vorrei rivolgerle. L’Uruguay ha accordi strategici di collaborazione col Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti fin dal 1953, e recentemente si è discusso al Parlamento della possibilità di rinnovarli. Qual è la sua posizione a riguardo?

Noi abbiamo accordi col mondo intero, e cerchiamo di moltiplicarli. Non ignoriamo la realtà degli Stati Uniti, ma apparteniamo a una regione e abbiamo intenzione di muoversi religiosamente nell’ambito degli accordi globali che abbiamo nella zona. Le nostre relazioni con l’Argentina e col Brasile vengono in primo piano nei nostri paradigmi internazionali.

D’altro canto gli accordi nati negli anni ’40 non furono da noi promossi, ma sono figli della storia politica del paese, e le riserve che abbiamo verso di essi possono essere compensati da una nostra attitudine molto indipendente. Avere degli accordi non significa essere sottomessi, ma rendersi conto delle responsabilità che si hanno col luogo dove la storia ha voluto che vivessimo.

Noi siamo alle foci del Rio de la Plata. È un angolo importante. Da qui passano molte cose. I grandi carichi diretti al cuore dell’America del Sud sovente passano vicini alle nostre coste, sia in entrata che in uscita. Qualsiasi cosa possa accadere a una nave diventa un problema anche per noi. Dobbiamo curare la sovranità di una zona marina di una superficie quasi uguale all’estensione del territorio, dove sappiamo che sono rinchiuse molte risorse da destinare alle generazione future. Così la nostra politica nei congegni, nei trattati e nella diplomazia deve tenerne conto. Per essere sovranamente indipendenti, dobbiamo essere saggiamente interdipendenti.

Il nostro paese, per la sua origine, è stato definito come un “batuffolo di cotone tra due cristalli”. Siamo nati da un residuo dell’impero spagnolo, da una crisi locale dovuta all’occupazione militare, eccetera. Per difendere le libertà che abbiamo in questo nostro pezzo di terra dobbiamo rispettare i problemi del territorio e avere amici lontani.

Questi amici sarebbero gli Stati Uniti?

Il miglior modo per essere legati agli Stati Uniti è quello di andare d’accordo con i vicini: la maniera migliore per avere considerazione dai nostri vicini è fargli sapere che siamo amici e non subordinati. Perché dobbiamo lottare per i nostri diritti.

La convenzione di pace da cui abbiamo avuto origine nel ’28 ha la firma della Gran Bretagna, che a quei tempi era la potenza dei mari. La Gran Bretagna non va molto d’accordo con i paesi della regione. Come vede si tratta di un gioco: siamo al fianco del Brasile, che sarà una superpotenza di carattere continentale, che ha formidabili interessi nell’Atlantico del sud, che crescerà, che per il suo futuro guarda verso l’Africa, che è 35-40 volte più grande di noi. Dobbiamo avere una visione strategica di tutto questo.

A peggiorare le cose, tra l’altro, dobbiamo aggiungere questo: il principale acquirente di Uruguay, Argentina, Brasile e Paraguay si chiama Repubblica Popolare Cinese. Voglio dire, siamo in una diabolica situazione di forze distinte. Per questo vogliamo avere molti amici, ma non tanto da considerarci dei sottoposti.

Per caso, alcuni giorni fa, ho letto una dichiarazione del Ministro della Difesa dell’Uruguay che ha suscitato molte polemiche, perché parlava della possibilità di costruire vicino alla frontiera con l’Argentina un porto fluviale. Quante possibilità ci sono che ciò si realizzi?

Noi siamo interessati alla costruzione di un porto nelle acque profonde del Rio de la Plata, per la semplice ragione che i canali più profondi sono “capricciosi” e arrivano fino alla costa uruguagia. Perché un porto in acque profonde? Per il passaggio delle grandi navi, che abbasseranno i costi del trasporto marittimo. Il Rio de la Plata in verità non è un fiume, ma un estuario. Ha una navigabilità scostante e pericolosa. È stato un cimitero di navi.

Quando verranno terminati i nuovi lavori al canale di Panama, le navi da trasporto più economiche saranno mastodontiche, abbasseranno il costo del trasporto per tonnellata. Questo avrà delle grosse ripercussioni nell’economia. Noi crediamo che in questa zona potremo creare un porto che ci possa consentire di partecipare alle iniziative logistiche. Un porto che appartenga al territorio, al Mercosur (Mercado Comùn del Sur). Soprattutto un’opera che serva a aiutare l’economia di questo territorio.

Abbiamo degli accordi col Brasile e al momento posso dire che ci sarà una collaborazione, perché il Brasile ha interesse che le loro zone meridionali e del centro prendano la via del Paranà per poi uscire nel Rio de la Plata: è per loro conveniente non uscire nell’Atlantico. Conviene sempre navigare piuttosto che andare per strada, ci sono differenze di costo enormi. Può interessare al Brasile, e anche al Paraguay. Noi scommettiamo che potrà servire anche a Bolivia e Paraguay, per potergli dare una via d’uscita verso l’Atlantico.

Così come l’avvento dei grandi autotreni non comportò la scomparsa di quelli più piccoli, il Rio Paranà e il Rio Uruguay possono essere servire a moltissime imbarcazioni, come punto di raccolta per volumi da trasportare più lontano. La regione è formidabilmente esportatrice. L’Argentina ha oltre 30 milioni di ettari coltivati a soia, anche il Paraguay si è trasformato in un importantissimo produttore di soia. Ci sono i minerali, e altro; quindi questo è un modo per interpretare il futuro. E siamo impegnati in questo sforzo.

Ci sono stati vari resoconti su questo possibile sbocco sul mare per Paraguay e Bolivia, ma non ho visto una relazione tra questo progetto e le altre sue dichiarazioni.

Sì. Sì, sì, c’è una ragione. Noi ne abbiamo parlato col Brasile. Parte del finanziamentodi questo progetto potrà venire da avvenire un fondo di compensazione presente nel Mercosur, che ha già degli antecedenti. L’Uruguay ha già utilizzato questo tipo di fondi, il Paraguay anche, e stiamo discutendo la moltitudine di dettagli che sono sempre presenti in casi di questo tipo.

Abbiamo comunque individuato il luogo, e stiamo cercando di elaborare un progetto tecnico, ma non è una cosa facile. Dobbiamo verificare le caratteristiche del fondale marino, calcolare la quantità di scavi necessaria. Ci sono varie questioni tecniche e ingegneristiche che stiamo cercando di delineare, per poi terminare un progetto da discutere col Brasile.

Qual è il ruolo di un piccolo paese come l’Uruguay nei processi d’integrazione della regione?

Il ruolo è quello di non farci mangiare. Tutto qui. Non possiamo rinunciare alla regione, sarebbe un errore. Al tempo la diplomazia internazionale ha contribuito al nostro riconoscimento, forse con l’idea di approfittare delle contraddizioni presenti nella regione, contraddizioni politiche molto forti. C’è sempre stata una rivalità portuale molto accesa tra Montevideo e Buenos Aires, anche nel periodo coloniale.

Ma siamo nati dalla stessa placenta del popolo argentino. Siamo un pezzo di quel popolo. Siamo stati chiamati l’oriente, perché eravamo a est del Rio Uruguay. C’è una corrente politica chiamata federalismo, il suo fondatore è un uruguagio, che è un nostro eroe nazionale, che ha avuto un approccio federale per l’organizzazione del Rio de la Plata, con stati federali e autonomi che gestivano in comune la politica estera e alcune decisioni interne.

Devo necessariamente semplificare. C’è stato un lungo conflitto, una serie di guerre che hanno portato all’occupazione da parte del Regno del Portogallo, e poi una trattativa politica con la garanzia del Regno Unito, da cui è nata l’accumulazione dell’Uruguay. Quindi i semi della nostra nazionalità erano già stati seminati nel corso di questo processo.

Lasciando da parte la nostra origine, siamo ormai una realtà e questa realtà la dobbiamo difendere. Abbiamo le nostre tradizioni, la nostra cultura, il nostro modo di vivere. Siamo un paese a cui piacciono i fine settimana lunghi. I più formidabili mangiatori di carne al mondo. Siamo un paese prima di tutto ricco di bestiame, esportatore di alimenti e abbastanza tollerante.

Quale crede che sia oggi la chiave del processo d’integrazione in Latinoamerica, un processo che sia davvero di emancipazione per il popolo?

L’emancipazione è un concetto molto più complesso dell’illusione che avevamo anni fa. Ovviamente significa sovranità politica e indipendenza. Comporta delle capacità intellettuali e materiali grazie a cui il nostro popolo riesca a star meglio, e questo significa molti investimenti pubblici e molti investimenti di capitali produttivi per far aumentare la ricchezza. Questo perché stiamo vivendo in un’epoca in cui la gente vuole consumare sempre di più, e non è più rassegnata a vivere come facevano i nostri nonni. Abbiamo bisogno di molte cose materiali che ci vengono offerte dalla civiltà moderna, e per questo la sovranità va sostenuta con grande efficienza economica e una forte capacità distributiva.

Viviamo in un periodo in cui viene generata molta ricchezza, che viene però mal distribuita. Di conseguenza ci sono alcuni che diventano sempre più ricchi e altri che vivono in una povertà più forte: quindi l’idea di sviluppo e integrazione è molto più complessa e difficile di quanto possa sembrare. Per questo ci sentiamo parte del popolo latinoamericano e abbiamo una gran necessità di formare economie complementari. Il vero mercato che può aiutarci nello sviluppo è dentro di noi, e sono i milioni di poveri che oggi non hanno potere d’acquisto: il nostro dovere è di darglielo. Credo che nessun paese riesca a risolvere questo problema da solo. È più semplice se siamo capaci di integrarci.

Ma la vita di una generazione è troppo breve. Per questo abbiamo bisogno della politica affinché questo messaggio continui nel tempo. L’essere umano è come l’ulivo. Gli serve molto tempo per dare frutti. Non c’è nessun trionfo dietro l’angolo. Per questo dobbiamo lavorare duro per avere cose che rendano possibile un futuro da costruire insieme.

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MÓNICA BARÓ SÁNCHEZ
Rebelión

Link: José Mujica, bosquejo para un retrato

01.03.2014

Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di GIANLUCA MARTIN

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