ITALIA DE PROFUNDIS

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DI GIUSEPPE GENNA

«Era, dunque, l’estate improduttiva e faticosa del 2007, ma già da due anni io sto male, da due anni io non mi riposo, non ci sono vacanze, ma soggiorni nella calura brevi, inappaganti.
Ci avviciniamo al luogo del racconto.
Stanno fondando un nuovo partito.
I periodi glaciali che non conducono a nulla di nuovo spaventano. Gli italiani appaiono indifferenti al clima psichico. Da vent’anni la loro collettività è entomologica, termitica.

Questo nuovo partito sostituisce i rimasugli rosastri del fu Partito Comunista Italiano, un terzo della nazione lo votava, ci credeva, veniva ripagato con un’educazione chiesastica ma colma di senso di contenzione, se non di contrizione.
Io sprofondo, parallelo ai miei concittadini, in un altro genere di disperazione: sconosciuta. Dapprima è un nucleo lontano, interno, una fusione fredda che osservo con stupore glaciale. I periodi glaciali conducono sempre a novità inattese: fenditure improvvise nel pack, sprofondamenti nel dramma, repentine ritirate delle nevi, discioglimento delle vedrette, spalancamenti di abissi impensati.
La disperazione cresce, si allarga, mangia spazio e ossigeno in me.
Gli italiani stanno raggiungendo il culmine dell’idiozia. Concionano. Berciano contro le tasse. Non si smuovono. Non intuiscono la crepa. L’orizzonte di deflazione psichica a cui stanno correndo incontro, con gioiosa incoscienza. Nemmeno la morbosità, nemmeno la rassegnazione, nemmeno l’indignazione hanno più presa su questo popolo diviso in due caste sommarie, la ricca e la povera che vive nella finzione di una ricchezza elusiva, l’agio ostentato a spese di una povertà occulta ritmata dal pagamento delle cambiali: debiti contratti per andare in vacanza in luoghi di culto estivo per vip e segnalati come costanti del desiderio dai magazine del gossip, questa stampa non patinata, in carta a bassissima grammatura e inchiostrata male, che viene sfogliata avidamente da due terzi del Paese.

Sono raddoppiate le procedure di pignoramento.
Sta incombendo, sulla nazione che utilizza il bene rifugio del mattone, la bolla speculativa edilizia, un tumore che partirà entro un decennio dall’area angloamericana e investirà come un tornado gli italiani, i proprietari di case, gli scopritori delle bellezze rumene della multiproprietà sul Mar Nero e sul Mar Caspio, i detentori di mutui trentennali, difficoltosi da ottenere dalle banche, codici proibitivi che richiedono un esame spettrografico condotto attraverso una miriade incontenibile di appretti cartacei, autocertificazioni complesse, impegni che rasentano il giogo dell’usura.
La spesa per la telefonia cellulare è la più alta del continente.
I SUV hanno invaso le metropoli, inutili abbozzi di Transformers.

La parola sta cadendo.
L’immagine sta cadendo.
Non creano più. Il cinema italiano eietta prodotti, non opere. Si tratta di pellicole la cui consistenza è sentimentale, secondo i canoni della finzione dei sentimenti a cui si è abituata la popolazione nel corso degli ultimi vent’anni. Successi popolari catastroficamente generalizzati, film imperdibili per la suburra che è diventata la nazione. Il tutto spacciato come arte del nostro tempo, come rappresentazione del nostro presente. Il che è vero: in senso opposto a quanto la generalità suppone.

Sono storie elementari, trame infantili, fanno perno sull’amore finto, sulle corna, si accompagnano con colonne sonore dozzinali e semplicistiche composte da romani accolti come maestri, sono ruoli insulsi a cui gli attori credono di lavorare con rigore stanislavskiano, rilasciano dichiarazioni impegnative e impegnate, del personaggio che interpretano dicono “lei è una donna che viene da un’esperienza difficile, all’inizio è chiusa e non sa perdonare, poi torna ad aprirsi e il mondo ridiventa una sorpresa, ho molto imparato da questo personaggio”, oppure “ho lavorato per mesi con un maestro di violino per interpretare al meglio lui, che è un uomo chiuso, che impara a poco a poco a tornare a sorprendersi della vita e a sentire le proprie emozioni, è stata una grande esperienza interpretarlo”, senza la benché minima differenza tra personaggio e persona, poiché anche la persona è personaggio. Sono storie sentimentali e devono fare sorridere, o ridere, ma la risata è facile, basta un ciccione pelato che con gli sci inforca un paletto che si abbatte sui genitali e le platee natalizie, debordanti, esplodono in risate.

Il cinema d’autore produce plot, conosce come si delineano i personaggi principali, essi devono subire uno sviluppo emotivo, devono mutare altrimenti il pubblico si annoia, così dicono i produttori cinematografici dei quattordici (quattordici) film italiani che vengono distribuiti nelle sale del Belpaese, e non hanno la prova del contrario, perché in ogni caso non finanziano storie alternative, complesse, correre il rischio della noia è un tabù finanziario insuperabile.
L’industria cinematografica italiana è smantellata.
Producono vicende di un intimismo irreale e, per questo, realistico secondo i canoni mentali della popolazione rimbecillita che assiste a uno spettacolo indifferente da quello che crede di ravvedere fuori dal cinema. Raffigurano ciò che gli altri, la gente, desidera desiderare. Non è applicabile alcuna strumentazione analitica raffinata a questo decalage nazionale, debordante inarrestabile.

Una marea di merda ricopre l’Italia.
Gli autori avanzati si inventano storie più laccate, utilizzano virtuosisticamente l’effetto plastico della cinepresa, rappresentano vicende fuori dalla probabilità e dalla verisimiglianza, contentandosi del finale che, a passi tremuli, incertamente richiama l’eco di quel grido emozionale comprimibile in un pacchetto di caramelle non balsamiche. Gli altri tentano l’approdo americano. Sono i produttori delle storie neoborghesi, in cui facilmente si identificano appunto gli ex borghesi che non hanno ancora compreso che non sono più borghesi, bensì appartenenti alla fascia alta della casta più bassa, ora che la borghesia altro non è che cognitariato, spesso precario, spesso sottopagato, comunque dedito all’extratime lavorativo.

Durante la bolla speculativa del Web, rizzando nuovamente il capo abbronzato ai raggi UVA, gli ex borghesi, percependosi nuovamente borghesi e pronti a fare il balzo verso la casta superiore, lavoravano fino alle dieci di sera nelle compagnie dot com, vedevano partner aziendali e stringevano accordi di cobranding, discutevano dei budget pubblicitari, commentavano le operatrici marketing, single in eterna ripetizione del ciclo seduttivo, che non originava in alcun caso rapporti stabili, e tutti si nutrivano nelle città del boom di Internet con junk food somministrato in lounge bar in estenuanti incontri di finto tempo libero, parlavano e parlavano e parlavano, di lavoro, ma esprimevano anche la loro visione del mondo, rozza, semplicistica, imperniata sul guadagno e sull’attività fisica continua, esasperata, i nomi di località montane in cui fare snowboard, mentre Linux insedia Gates, o il competitor ha asset minori.

Le dot com hanno chiuso a un ritmo da tappa cronometrica del Giro d’Italia.
Dappertutto: mutazione.
Analisi finanziarie condotte sull’economia dei derivati, senza minimamente tenere conto della forbice che future e bond hanno aperto rispetto a un’economia reale o, quantomeno, realistica.
Dico le cose come stanno, abolisco lo stile, rinnego la finzione. Non monto. Non è un saggio, non cadete nell’inganno: già blank


questo è racconto.

Fusioni di banche senza che il sistema bancario muti.
Re-engeneering: taglio dei posti doppi creati dalla fusione, e poi taglio anche di singoli posti e attribuzione di più compiti e funzioni a un impiegato o a un quadro, fino a condurlo alla nevrosi dell’overtime.
Ragionamenti spezzati orizzontalmente dal fiorire di problemi paralleli, di finestre parallele sulla scrivania Windows. Power-point mai riciclati, a causa del subitaneo e mutevole flusso di dati cangianti: Power-point per continue presentazioni, per accordi stretti sul nulla, per contratti eterei, soldi sganciati dalla produzione reale.
La massima azienda telefonica della nazione nasconde un gruppo occulto che scheda e interagisce illegalmente con i servizi segreti italiani. E’ stata acquistata più volte, dal momento che si è deciso di privatizzarla, è monopolista della rete, governi di finta destra e finta sinistra si sono avvicendati per rivendere l’azienda a compratori d’assalto, che la hanno acquistata con debiti, con denaro futuribile e inesistente, o evadendo il fisco grazie a sistemi aziendali strutturati a scatole cinesi.

La televisione crolla nella sua estetica dominante. Si osservano divi fintamente affamati su isole finte suonare l’ukulele. L’attore che interpretava Sandokan gioca la finale del reality su un’isola deserta insieme al cannoniere dei Mondiali italiani 1990, l’anno vigilia del crollo. Filosofeggiano scrutando un mare verdastro sempreguale. Filosofeggiano come Gianni e Pinotto ai tempi dell’MDMA.
Lo zapping è il programma statisticamente più visto in televisione: un programma fatto di vuoto.
Le società di produzione di format televisivi vomitano programmi che evocano “cultura generale” e non prevedono nemmeno una domanda o una prova di intelligenza: bisogna esibirsi vestiti da cuochi che cantano lo jodl, compiere trucchi da prestigiatore domestico, per accedere alla prova finale, che peraltro in una obiettiva considerazione della trasmissione sarebbe l’unica prova reale e dunque iniziale, consistente nell’indovinare quale scarto del sistema vip si nasconde in una cabina di mare multicolore, mentre vallette inutili portano in scena indizi grotteschi, vestite come un cittadino elvetico vestirebbe durante un soggiorno caraibico, e il presentatore squilla scettico, si vede che nemmeno lui ci crede, e il pupazzo Gabibbo, una delle voci della coscienza della nazione, rutilante nel suo accento genovese gutturale, spara stronzate di contorno.

Fa ridere abbastanza?
Poiché il Paese desidera ridere, spensieratamente. La Corrida, un programma la cui invenzione risale a quasi cinquant’anni orsono, è la trasmissione che raccoglie l’audience più alta di questa televisione garbage. Da anni ripete le medesime gag, il presentatore con la piazza larga e la faccia gonfia osserva con disdegno, oppure allibito, oppure sardonicamente l’alternarsi delle performance dei dilettanti.
Tutto ciò ha un’origine briantea. I format nacquero a Legnano, negli studi di Antenna Tre, emittente privata retta da Renzo Villa, organizzatore spettacolare che si prestava a una televendita significativa in orario notturno: leggeva, cadenzando con ignoranza metrica, la poesia più sottoculturale che esista, If di Ruyard Kipling, stampata su oro finto, da vendersi perché i brianzoli l’appendessero in casa, a Lissone, nella capitale della fabbricazione del mobile o nel bresciano, a Lumezzane, capitale del bullone, dove industriali ingrassavano e avrebbero approfittato della manodopera a basso costo a Timisoara, nella Romania post-Ceausescu, salvo ora invocare protezionismo perché i fatturati gli crollano all’ingresso delle imitazioni a basso costo provenienti dall’area asiatica.

Hanno tutti paura dei cinesi.
Hanno paura dei cinesi, ma vendono i loro bar ai cinesi, poiché i cinesi si presentano con un addetto cinese in paralisi facciale quasi parkinsoniana, robotticamente apre una ventiquattrore in finta pelle nera, mostra somme di un terzo superiori al prezzo di vendita, in contanti, e gli italiani vendono.
In sei mesi, nel 2007, sono stati recuperati 5,4 miliardi di euro da evasori fiscali, prevalentemente appartenenti alla casta superiore.
La lotta di classe non esiste più, la lotta tra caste si stenta a vedersi all’orizzonte di questo stivale di terra congestionato da ecomostri, percorso da ecomafie, bucherellato da discariche abusive, popolato da formiche ciarliere che, nella spazzatura, sognano il lindore che, da Dallas in poi, gli lucida i crani dall’interno.

La vita politica prosegue al di fuori di qualunque dibattito politico. I confronti sono finzioni. La rappresentanza, il meccanismo fondamentale del sistema democratico, è vanificata dall’assoluta assenza di percezione di un’effettività, di una possibilità di intervento sulla realtà, da parte della quasi totalità degli elettori. La democrazia si è trasformata in demagogia. L’élite politica, un migliaio tra deputati e senatori e funzionari di partiti leggeri, si limita a realizzare le direttive che provengono dall’estero, in particolare dal Fondo Monetario Internazionale, cioè dall’élite statunitense e inglese, dietro la facciata da protettorato distante che il continente ha elaborato rovinosamente a Bruxelles, col patto di Maastricht e col successivo allargamento a venticinque nazioni dell’Unione Europea.
L’area di manovra politica è inesistente.

La società non è liquida, come sostengono i sociologi: è vaporosa.
E’ un termitaio.
I paradigmi di sinistra e destra, questa opposizione che ha fatto, di riflesso alla situazione internazionale, l’ultima metà del secolo passato, sono stati strategicamente fatti evaporare, per non essere sostituiti da nessun paradigma ideologico. Al momento, perfino l’esistenza di un penetrante paradigma ideologico (il più funzionale risulterebbe l’opposizione tra centro e periferia: cioè la lotta di casta) non appiccherebbe alcun fuoco rivoluzionario o trasformativo. Si alternano su ciò che, in maniera filologicamente corretta, viene definito “palcoscenico della politica”, finzioni in forma di sagome umane e argomentazioni ipocrite tese ad aumentare le percentuali elettorali attraverso la promessa di elargizioni, le più grette possibili: abbattimento delle tasse (cioè il corretto sostentamento della vita naturale e organizzativa di uno Stato), aumento fantasmatico del lavoro (cioè delle possibilità di raggiungimento delle soglie di sopravvivenza), indurimento dei protocolli di sicurezza (cioè legittimazione della violenza contro coloro che nemmeno entrano a partecipare alle comunità delle caste, non raggiungono la soglia di entrata nemmeno dell’immensa classe più bassa: extracomunitari e immigrati, soprattutto, e microcriminali e antagonistti della legalità, che sempre sono esistiti e fortunatamente sempre esisteranno). Le sagome fantascientifiche, che simulano un gioco di contrasto a favore del pubblico (poiché tale è) elettorale, si attestano su enunciazioni fumose e incisive allo stesso tempo – si schierano per “valori” che non specificano, discettano di “famiglia” nel momento in cui il nucleo familiare non è per nulla l’elemento centrale della società, si scontrano sulla sofferenza dei malati terminali, conducono battaglie di principio che sono prive di fondamento effettivo.

Il Partito Comunista diventa una forza che ambisce a ricoprire il ruolo che fu quello storico della corrente di sinistra e popolare della Democrazia Cristiana.
L’autentico tavolo da gioco politico è l’economia, nel senso che l’unica direttiva da applicare è la sottrazione dell’intervento politico in àmbito economico. Di qui, una fiumana di privatizzazioni condotte “all’italiana”, come ormai si dice con significazione tecnica: favoritismi, dismissione a prezzi stracciati del patrimonio pubblico. Allegria Titanic.
Eppure tutto ciò non è centrale.

Crollano i saperi, in primo luogo quelli a carattere umanistico. La zona formativa, scuola e università, viene ristretta a un vuoto rito di passaggio, che si riduce a una camera iperbarica di attesa indefinita. Il numero di pagine studiate per un esame universitario viene ridotto per legge: è la legislazione dell’ignoranza collettiva. Un tronchese potente quanto invisibile, eppure storico, definitivamente ha imposto il distacco dal ricordo della storia, passata e recente, alle nuove generazioni. La tecnologia è elevata a metafisica esistenziale. Apprendere è una finzione che prepara a una finzione ulteriore, ovverosia l’entrata nel mondo del lavoro. Il lavoro è finzionale, grazie a una legislazione ad hoc che il Fondo Monetario Internazionale consiglia (cioè impone) a tutti i Paesi sviluppati e a quelli che ambiscono a entrare nel ristretto circolo delle nazioni pesantemente industrializzate. Il risultato è che attualmente, agosto 2007, il 45,4% dei lavori è a tempo determinato, mentre il 42,6% gode ancora di un contratto stabile.

Il precariato dilaga e, con esso, l’ansia di futuro, che è tutta un’ansia borghese, di stabilità commisurata all’ambizione di beni e lussi che non si addicono alla storia della nazione, fatta eccezione per gli ultimi trent’anni: dal momento in cui la strategia di disappropriazione del politico è stata attuata. Il disagio psichico dovuto a questo insieme di fattori, cioè l’appartenenza a nuova classe povera che si finge benestante e l’insicurezza dovuta al mutamento delle strutture lavorative, crea un disagio psichico ed esistenziale abnorme. L’Italia è il massimo consumatore in Europa di psicofarmaci (dalle benzodiazepine ai triciclici alla quarta generazione). Un fenomeno che accade nel momento in cui, con il crollo dei saperi e la conseguente avversione generalizzata verso la cultura come riparatrice e sutura terapeutica autoconsapevole, il paradigma di cura psichica subisce determinanti trasformazioni. E’ un boom di terapie psichiche a breve durata, la cura è stupida poiché misura il sintomo e lo fa regredire. L’area del counseling filosofico mima un’educazione a se stessi che è ineffettiva e dunque inefficace.

A Milano, il 54% degli abitanti vive solo.
Il tetto di sviluppo è stato toccato, il peak point della ricchezza finta del Paese è ormai un ricordo e ci si prepara a un orizzonte deflatorio: il congelamento dei consumi e dei desideri – il che, sia chiaro, è una delle ferite che il mercato, coltello bilame, apre nel proprio costato. Questo serpente che si mangia la coda non ha più coda e, se fosse possibile, resterebbe alla testa da mangiare se stessa. Non è possibile. Le nazioni tutte sono indebitate, quella che vanta il maggiore debito interno ed estero sono gli Stati Uniti, cioè il Paese che occupa il trono vacante dell’imperatore. Un mercato che si sostiene sullo sfondo di un colossale ubiquitario indebitamento.

In Italia è alle stelle il debito pubblico, una situazione che impone soluzioni “drastiche” come propagandano i media, tacendo che ogni tipologia di debito è virtuale, sul piano della totalità dei mercati. Il debito estero è un’astrazione simbolica che nasconde una possibilità di violenza. Il mercato esprime e impone una violenza più atmosferica, apparentemente più soffice, ma chi pone il proprio sguardo fuori dal mercato può osservarne l’infinita abiezione di violenza praticata su scala planetaria, a livelli di sterminio: garbage humanities, umanità spazzatura, vengono cancellate in tragedie silenziose, ovunque. Trecentomila deceduti a causa dello tsunami in Estremo Oriente, solo tre anni fa, sono stati immediatamente dimenticati dalla collettività, e mentre la tragedia era in corso, in periodo di ferie natalizie, gli italiani affollavano gli aeroporti per partire comunque verso mete estremorientali, dove si consumava un dramma di dimensioni immani, dovuto ai mutamenti climatici. Gli italiani hanno fatto il bagno a Natale, a temperature estive, nelle acque in cui galleggiavano a distanza cadaveri gonfi.

Gli italiani hanno espresso la pienezza della finzione sentimentale in occasione del decesso del pontefice Giovanni Paolo II, il polacco. E’ comparso, negli anni della decadenza, afflitto da un devastante morbo di Parkinson, sempre più impotente, fino al gorgoglio strozzato alla finestra dell’Angelus domenicale, all’agonia che “ha tenuto col fiato sospeso” milioni di italiani, che ancora si credono cattolici, e che, morto il papa, si sono catapultati in un happening funebre spazzato da un vento fortissimo e fortissimamente simbolico. Le esequie sono state celebrate dal cardinale che avrebbe sostituito il cadavere nelle sue funzioni. Quest’ultimo pontefice, che sfiora gli ottant’anni ed è già stato colpito da due ictus, è impegnato a riscoprire il nucleo della fede cristiana, è pressato dalla Curia che, avanguardia della dottrina sociale che ha cancellato il nucleo metafisico della religione cattolica, deve rincorrere l’apparato politico, poiché la società, e quindi i fedeli, le è sfuggita di mano. Questa Chiesa sposa del Cristo, che annuncia con la saccenza più priva di fondamento della sua storia bimillenaria, sconta ora tutti gli svantaggi della scelta secolare. Pochissimi dei suoi fedeli ha letto e conosce il Libro Sacro. La fede è emotiva, cioè si concreta in una finzione di sentimento, e sempre in forma di domanda: la preghiera è una domanda ormai, non una pratica metafisica, cioè una tecnica di indentramento che mira a fare sì che l’uomo senta se stesso. Il cattolicesimo si è protestantizzato sotto gli occhi fissi e parkinsoniani delle gerarchie ecclesiastiche. Nessuno crede più che esista l’inferno o il purgatorio. Il diavolo è contratto a superstizione popolare, all’interno della Chiesa le alte gerarchie non elaborano alcuna credenza in merito. Lo scetticismo e l’ironia scatenano una reazione: la Chiesa è in questa fase l’avanguardia reazionaria. La reazione è tutta giocata sul politico, a favore di un ripristino valoriale di una società che la storia ha già masticato, digerito, evacuato. Avviene dunque un’adesione collettiva dei fedeli a forme esteriorizzate, lontanissime dal lavoro metafisico. La Chiesa è la valva fossile disabitata dallo Spirito. Non produce immaginario, incanto, sogno, mistero, paura. Dio non affascina più. E’ una variabile percettiva individuale: ognuno ne ha un’idea propria.

Soltanto l’aldilà, la possibilità aliena dei morti e della vita extraterrestre, l’esistenza di dimensioni parallele – soltanto queste possibilità, che pressano la realtà con il miraggio dell’imminenza della propria manifestazione, sono oggi forme di universalità. Dio non tocca con un brivido nessuno più, mentre la possibile sopravvivenza dei trapassati sì.
L’ostia è un simbolo, non è più – se non per una ristrettissima congrega di fedeli – una presenza reale.

La lettura è sola: addirittura, abbandonata. Privi di lettura, i fedeli avanzano comunque, con una forza imbelle, il proprio diritto all’interpretazione personale dei dogmi di fede e del testo sacro stesso, che non conoscono. Hanno una vaga idea di elezione e comunione divina post-mortem.
Il gigantismo del cattolicesimo non inganni: le forme finali sono gigantesche.
La situazione peculiare italiana è percepita, dallo striminzito e giustamente inascoltato comparto degli intellettuali, come decadenza. L’analisi degli intellettuali, che nella maggioranza non dispongono di strumenti di analisi all’altezza della complessità della situazione, poiché non sanno nulla di neuroscienze e nuova psicologia e macro e microfisica e quantistica e teoria delle supercorde e paradigma universale olografico e astronomia e chimica e geopolitica e strategia di intelligence e tecnologia militare e climatologia e storia universale del pianeta e matematica e logica computazionale e intelligenza artificiale e teoria dei consumi e neosociologia e controstoria della modernità e della contemporaneità e farmacologia e fisiatria e scienza del sistema immunitario e scienza aeronautica e aerospaziale – questi intellettuali che non sono all’altezza né della contemporaneità né dei loro predecessori immaginano, con pessimismo apocalittico, che il Paese sia arretrato. Enunciano inaccettabili apodissi. Sono ignoranti a un grado tale da provocare il disgusto in chiunque conosca anche un brandello della realtà che è coperta dalla finzione. Le loro analisi coincidono con misinterpretazioni delle profezie filosofiche degli anni Cinquanta e Sessanta. Del resto, costituiscono una comunità che grida nel deserto, legittimamente inascoltato quel grido da parte della società che essi, con sogno inconsciamente platonico, vorrebbero rimettere su chissà quali giusti binari valoriali. Intendo che, insieme alla Chiesa, la finta élite intellettuale italiana è la componente più reazionaria che sta operando nel Paese.

E’ in questo àmbito della vita pubblica, non a caso, che si manifesta palesemente ciò che non è mai stato: l’interruzione della trasmissione dei saperi, il che cela un’ulteriore lotta che non deflagra in scontro aperto, ma viene trattenuta a spese della vita psichica ed emotiva di una vasta parte del Paese: è la lotta tra generazioni, che è bloccata da un trentennio circa, e che investe in realtà anche il settore produttivo, quello della finta rappresentanza politica, quello latamente esistenziale. Trasversale al conflitto di casta, che non esplode, il conflitto generazionale è mantenuto nel recinto delle energie compresse e, perciò, inespresse. L’esposizione a finti orizzonti di desiderio e, in pari tempo, la saturazione della finzione di desiderio (ben emblematizzata dalla bolla del mercato pubblicitario: la pubblicità non esercita in realtà nessuna funzione di controllo o instillamento del desiderio, come risulta dalle ricerche interne fatte realizzare dalle società mediatiche e mai esposte o rivelate alla pubblica opinione) costituiscono la tenaglia che ha il compito, perfettamente assolto, di mantenere ad alto livello la disgregazione sociale e l’individualizzazione finta che impedisce il coagularsi di una forza propulsiva e di massa, la quale inverta il processo e realizzi, anche violentemente, il rinnovamento delle classi anagrafiche operanti nella società.

A ciò è congeniale il processo di glaciazione a cui gli italiani hanno sottoposto la propria storia, che è una storia di tragedie, di guerre civili palesi e sotterranee, di ipocrisie e trasformismi, di odio covato ed esploso in pubblico o in occulto. Dalla Resistenza al fascismo fino alla stagione dei conflitti degli anni Settanta, non una risoluzione è stata data: piuttosto, una sospensione dei fatti e dei personalismi, diffusissimi, di quelle parabole storiche, tra le quali si pongono cospirazioni e scandali che avrebbero travolto ovunque le classi dirigenti – ma non in Italia.
Nella sospensione glaciale di questi periodi di sisma sociale, viene evitato il metabolismo naturale che la Storia commina come funzione basale per l’evoluzione di una società.
L’italiano medio, il giudizio storico sotto glaciazione, rimane fermo a una condanna appoggiata sul suo naturale giacobinismo, sul suo microfascismo antropologico e legalista, ipocritamente mutando parte con agilità sorprendente, mettendo sotto continuo scacco revisionista ciò che della storia del Paese è certo e non disciogliendo i nodi umani che occludono ciò che della storia del Paese è incerto o addirittura irrisolvibile. Questa perennità della presenza di una memoria irrisolta è uno degli elementi decisivi che dà linfa a una classe dirigente formatasi appunto in uno di quei periodi, gli Anni di Piombo, che videro esplodere una carica terroristica senza pari in alcuna nazione del mondo industrializzato. E’ questa un’arma nemmeno tanto implicita con cui la classe dirigente mantiene nella precarietà di vita e di storia le generazioni successive, intrappolate da un blocco del presente che, non giudicando il passato, lo giudica in continuazione, ricercando emblemi viventi su cui sfogare i propri istinti aggressivi, tanto più carichi d’ira quanto più pavida fu la condotta dei censori in quel passato e nel futuro che ne seguì, e condannandolo senza avere gli elementi effettivi di conoscenza delle carte processuali e delle storie individuali e degli eventi e financo del contesto storico e ambientale, nonostante la generazione al potere abbia vissuto esattamente quel contesto storico e ambientale, salvo mutare, nel corso degli anni Ottanta, il proprio baricentro ideologico ed esistenziale.

L’amplificazione della libertà e la lotta all’alienazione dovrebbero essere la parola d’ordine di qualunque organismo sociale che entri in contatto politico e psichico con la popolazione. Ciò deve nascere dalla constatazione, che deve essere avvertita come oggettiva, che l’Italia non sta affatto regredendo: sta al contrario avanzando. L’Italia, in questo momento, è la punta di diamante del mondo sviluppato nell’accelerazione verso la trasformazione antropica impulsata da quella che si potrebbe definire “malattia occidentale” e che consiste nell’autoespropriazione dell’umano, attraverso gradi sempre più intensi di assunzione di finzione non retroattiva – cioè risulta impossibile, a un dato punto di quintessenzializzazione nell’assumere in se stessi la finzione (psichica, emotiva, politica, sociale) tornare alla percezione di ciò a cui le finzioni si sono sovrapposte come strati geologici.

Sfugge il nucleo umano.
Questo portato è l’esito definitivo dell’occidente e coincide con la fine dell’umanismo, ultima risorsa a disposizione per mantenere l’umano nell’umano. La veridicità della viralità umana, che per William Seward Burroughs, quasi gnosticamente, è data a priori (il che è vero per qualunque metafisica), ha la sua realizzazione finzionale estrema: l’umano, che è il virus, è viralizzato dall’antiumano. Questo antiumano non è una possibilità di futuro. Porta con sé lo spettro dell’emergenza e della fine di specie, ma non come la doglia che precede il parto. L’antiumano mira all’estinzione dell’umano in senso antispirituale, cioè abolendo il fenomeno coscienziale dell’autoconsapevolezza.

Insieme a quello degli Stati Uniti, il popolo italiano è il più alienato del pianeta. In un certo senso, lo è anche in misura maggiore della popolazione statunitense: poiché quest’ultima non ha storia da abolire e fare evaporare, il suo infantilismo finzionale, palese quando la sicumera di una nazione che si pensa impero e non lo è viene intaccata, come nel caso dell’attacco al World Trade Center e al Pentagono o nella risibile (a fronte delle altre del pianeta) tragedia del ciclone Kathrina, è in un qualche modo un infantilismo sinceramente finto. Di fatto, non esiste un’alienazione americana, poiché il popolo americano è da sempre alienato: la sua storia coincide con una storia dell’alienazione. Polarmente opposto il caso italiano, cioè quello della comunità che parla la lingua moderna più antica del pianeta, la lingua più umanistica del comparto contemporaneo. L’espropriazione linguistica e immaginale, in Italia, coincide con la resecazione di una storia e di un’evoluzione comunitaria particolarissima, formatasi per induzioni e osmosi nel corso di una fase post-imperiale assai estesa nel tempo, quindi provenendo da una disgregazione ricomposta nell’arco di più di un millennio, fino all’avvento della Seconda Guerra mondiale, al termine della quale il sottile colonialismo di mercato ha indotto a mutare parametri che erano sì tradizionali, ma mai statici o cristallizzati in costumi.

Tutto ciò che è stato scritto è sconcertantemente banale. Non è neppure un’analisi, poiché è una constatazione. Non c’è argomentazione opponibile a questa oggettività.

Per questo motivo la descrizione della “scena italiana” è stata condotta senza stile: poiché lo stile è un’estrema finzione, funzionale al sistema alienativo che predispone che perfino il racconto, che deve essere condotto entro un cerchio stilistico largo ma limitato e con caratteristiche “interessanti” (ovvero tese ad abolire fintamente la noia e la paura che essa erompa – l’autentico spettro della nostra contemporaneità, il prodromo della fuga dalla sofferenza e dai suoi significati magistrali), perfino il racconto è omologato alle pratiche di espropriazione dell’umano da se stesso.

E’ inaccettabile una pressione che non sia diluita in accettabile suspence.
E’ impensabile un’abolizione della linearità che si pensa inibire la leggibilità.
E’ in pratica estromessa la possibilità che si manifesti il misterioso, l’indecifrabile che comporta fatica, la spinta violenta all’indentramento. Quindi, è a priori abolita l’arte, che è ultimativa sul piano politico e penultimativa rispetto all’attività metafisica per eccellenza: cioè il porsi la domanda, infinitamente priva di risposta, “chi sono io?”.»

Giuseppe Genna
Fonte: www.la7.it/

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17.11.08

Estratto da GIUSEPPE GENNA “ITALIA DE PROFUNDIS”

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