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DI DINO ERBA

Comedonchisciotte

UNA CROCIATA ISTERICA E IPOCRITA, FUORI TEMPO MASSIMO

I trafficanti di civiltà, che sparano a palle infuocate contro città indifese, e aggiungono lo stupro all’assassinio, chiamino pure barbari, atroci, codardi, questi metodi; ma che importa, ai cinesi, se sono gli unici efficaci? Gli inglesi, che li considerano barbari, non possono negar loro il diritto di sfruttare i punti di vantaggio della loro barbarie.

Friedrich Engels,
Persia-Cina, «New York Daily Tribune», 5 giugno 1857[1].

Le stragi avvenute a Parigi il 13 novembre hanno dato la stura ai peggiori sentimenti della borghesia occidentale. Ancor più che in occasione del raid del 7 gennaio contro la redazione di «Charlie Hebdo»[2].

Oggi, come allora, ci troviamo di fronte a un’azione militare di quella guerra asimmetrica che è in corso da qualche anno e che sconvolge soprattutto il Medio Oriente, il Nord Africa con le appendici somale e afghane. Ma che non può restare circoscritta.
Inevitabilmente, la guerra lambisce i Paesi che, da lontano, soffiano sul fuoco dei conflitti, in primis gli Usa, la Francia, l’Inghilterra. Ma nessuno è innocente: tutti i Paesi dell’Occidente[3] hanno nell’armadio scheletri da nascondere. Sono l’eredità delle violenze coloniali che non si sono mai smorzate. Anzi, si sono rincrudite, sorrette da un sentimento di impunità che, solo oggi, i raid del daish hanno scosso.
E allora, la paura prevale. La ragione declina. L’ipocrisia trionfa. L’improntitudine dilaga.

La forza delle parole

Il frutto di questi deleteri sentimenti sono argomenti la cui forza nasce solo dalla reiterata ripetizione di frasi fatte, spacciate per buone. Come in un mantra, si ripete: civiltà, libertà, democrazia (con contorno di uguaglianza e fraternità), ossia i valori dell’Occidente, contrapposti alla barbarie. Vediamo la sostanza di queste parole.

Civiltà: dal latino civitas, città, spazio urbano contrapposto alla campagna. In sostanza, uno spazio chiuso contrapposto a uno spazio aperto. Una vita coatta contrapposta a una vita naturale. L’uomo si è via via adattato a questa condizione contro natura, solo al prezzo di una riduzione delle sue capacità sensoriali, accompagnata dalla diffusione di patologie che hanno assunto spesso carattere cronico. Con il modo di produzione capitalistico, con la società industriale, le città si sono espanse divenendo, contemporaneamente, un ricettacolo di veleni ambientali e sociali. Da qualche anno, la popolazione urbana ha superato la popolazione rurale; la causa principale è la forsennata concentrazione della proprietà fondiaria dettata dalla rapina di materie prime, agricole e minerarie. Espropri e rapine si accompagnano con le dilaganti guerre che gettano crescenti masse di senza risorse nelle immense baraccopoli, sorte ai margini delle grandi città del Sud del Mondo. Finché non subentra l’emigrazione forzata verso il Nord.

Sulla «civiltà cristiana», sarebbe meglio stendere un velo pietoso. Come sappiamo, fu esportata con la spada, così come oggi la democrazia è esportata con le bombe. La versione riformata del cristianesimo fornì la gelida etica del capitale (In God We Trust – Noi confidiamo in dio – è scritto sulla banconota da un dollaro degli Stati Uniti!). È comunque doveroso ricordare che la più recente strage di cristiani la fece la cristianissima (e fascista) Italia, il 19 maggio 1937, nel monastero di Debrà Libanòs (Etiopia), dove l’esercito coloniale italiano trucidò a colpi di mitraglia oltre 2mila monaci, diaconi e giovani seminaristi, cristiani copti[4].

Barbaro: dal greco βάρβαρος, balbuziente, termine con cui i greci indicavano gli stranieri cioè coloro che non parlavano greco e quindi non erano di cultura greca. È evidente il suo significato di sprezzo xenofobo. La Roma repubblicana fece proprio il termine barbaro e lo enfatizzò ideologicamente, definendo come barbaro i popoli e le culture che erano estranee alla propria weltanschauung (concezione del mondo).
Con questa accezione, il termine barbaro è prevalso nella moderna società occidentale, caricandosi di ulteriori significati negativi, a volte anche involontariamente[5]. E razzisti. Per combattere la barbarie, la civiltà occidentale da cinque secoli giustifica le stragi e i genocidi che si susseguono ai danni di altri popoli, diversi[6].
E per questo condannati all’oppressione e allo sfruttamento.

Libertà (dal greco ἐλευθερία): concetto prettamente occidentale. È nato nella Grecia classica (Terzo sec. a. C.), quando i rapporti di produzione registrarono una crescente articolazione che marcò le differenze in seno alla popolazione urbana. Dove l’eguaglianza prevale, la libertà non ha senso. Ad Atene, in nome della libertà, si consumò la lotta per il potere politico. Altrettanto avvenne nella Roma repubblicana. Col tramonto della società greco-romana, la libertà venne relegata alle disquisizioni teologiche e filosofiche, finché, nel XVII secolo, fu riesumata dagli esponenti politico-filosofici dell’emergente borghesia, in opposizione ai residui di un sistema feudale, di cui restava in piedi solo il privilegio dei signori, privo di sostanza sociale.
E libera fu l’impresa, libero fu il commercio, libero fu il lavoro e libero fu lo sfruttamento dei proletari (i senza risorse). Di fronte a tanta grazia di libertà, le varie classi e i vari strati strati sociali hanno cercato di difendere i propri interessi, per porre limiti alla libertà degli altri. Alla fine, il moderno Stato capitalista, ha imposto un compromesso che ha sussunto (o conciliato), in un modo o nell’altro (con la democrazia o col fascismo), le diverse libertà, nell’interesse generale del modo di produzione capitalistico.
Il risultato è sotto i nostri occhi. La sfrenata espansione del modo di produzione capitalistico ha prodotto una degenerazione dei rapporti sociali che possono essere gestiti solo attraverso una miriade di leggi, di norme e di regole. E la libertà si è via via ridotta a una pura parvenza[7].

Democrazia: altro termine di derivazione greca (δῆμοςκράτος, potere del popolo) che tuttavia i greci ripudiarono[8]. In realtà, come il concetto di libertà, il concetto di democrazia fu fatto proprio dalla nascente società borghese[9] per la gestione della cosa pubblica da parte del gruppo sociale emergente che, per quanto ristretto, era pur sempre assai più numeroso e vitale della decadente aristocrazia. La successiva espansione della classe borghese ha mantenuto, almeno inizialmente, una sostanziale omogeneità, in seno alla quale non sussistono motivi di contrasto che non possano essere risolti per via di mediazioni, di modo che gli interessi di una parte appaiano come interessi generali.
Lo sviluppo del modo di produzione capitalistico ha via via esteso le condizioni di tendenziale omogeneità a strati sempre più larghi della popolazione, coinvolgendo i piccoli proprietari e i contadini, gli artigiani e, infine, i proletari, consentendo a questi ultimi di avere forme di rappresentanza proprie, i sindacati, ma non autonome, poiché anche i sindacati hanno dovuto sottomettersi all’interesse generale. Altrimenti sono «fuori legge».

Nel corso del Novecento, la politica si è via via ridotta alla pura amministrazione della cosa pubblica, la gestione dell’esistente, senza metterlo in discussione. Oggi, i risultati sono evidenti, con un Parlamento che potrebbe essere assimilato all’assemblea degli azionisti del Sistema Italia (Germania, Francia ecc. ecc.) SpA, in cui si confrontano le varie lobbies e cosche. Inevitabilmente, via via che è riemersa la disomogeneità sociale, sono diventati più numerosi i cittadini che si sono trovati emarginati politicamente, da cui la cosiddetta disaffezione al voto, volgarmente: astensione.

Uguaglianza/fraternità sono un puro orpello che maschera la realtà di una società profondamente iniqua e violenta. Negli ultimi anni, la sperequazione sociale (indice di Gini) è andata via via aumentando nella maggior parte dei Paesi occidentali, evidenziando una crescente polarizzazione della ricchezza (ovvero delle risorse)[10].
Di pari passo, è cresciuta anche la violenza nel dilagare di guerre che, direttamente o indirettamente, coinvolgono gran parte dell’Asia e dell’Africa, lambendo anche l’Europa (Ucraina)[11].
Alcuni Paesi, in particolare Stati Uniti, Francia, Russia, Italia, Inghilterra, partecipano o hanno partecipato, a guerre, «lontane da casa loro». Altrove, come in America Latina e negli Stati Uniti[12], pur senza guerre vere e proprie, la violenza è quasi ovunque endemica, ancorché a «macchia di leopardo», con picchi nelle aree urbane[13].

La civiltà della violenza
Come si vede, la civiltà occidentale non è altro che un coacervo di violenza che
almeno da cinque secoli si è scagliata contro altri popoli. Popoli in cui spesso non regnava l’armonia ma che l’aggres-sione europea ha definitivamente rovinato, socialmente ed economicamente, contribuendo all’in-staurazione di regimi oppressivi e reazionari, di cui lo Stato Islamico è l’ultimo (ma non ultimo) frutto avvelenato.
Oggi, con la crisi sistemica del modo di produzione capitalistico, anche in Occidente sta venendo meno quel benessere che, fino a ieri, assicurava Welfare e pace sociale. Scioperi e manifestazioni sono all’ordine del giorno.

Contemporaneamente, il sistema democratico-parlamentare fa acqua da tutte le parti, in preda ad affaristi e faccendieri. Di par passo, la psicosi della guerra fa venir meno quella libertà e quei diritti e garanzie che i politicanti occidentali vantano nei confronti di altri popoli.
E il gioco si fa duro.

Cosa ci resta?
Molto di male. Poco di buono.
Tra il molto di male serpeggiano tentazioni opposte, ma altrettanto perniciose ed emotive.
Da un lato, il comprensibile odio verso la natura retriva del daish (e dell’islamismo in genere), induce a riesumare i valori dell’89: egalité, liberté fraternité. Parole ormai prive di senso, buone solo a coprire la falsa coscienza del borghese.

Dall’altro, il comprensibile odio verso i disastri della civiltà occidentale alimenta giustificazioni (e passioni) verso i kamikaze. Non solo. Secondo una fantasiosa ipotesi, la jihad aprirebbe nel mondo capitalista machiavelliche contraddizioni, poco dialettiche e molto ingenue (se non sciocche), che, in realtà, favoriscono derive decisamente reazionarie, condite con sciagurati pregiudizi ostili alle donne e con un antisionismo di marca antisemita.

In entrambi i casi, si perde la bussola per poter capire e affrontare una catastrofe, alla cui origine non c’è uno scontro tra due civiltà, bensì uno scontro tra due classi sociali – borghesi e proletari –, anche se i loro contorni, oggi, appaiono assai sfumati. E spesso non vengono visti e neppure intuiti. Ma ci sono.

Tra il poco di buono, ci sono le esperienze solidaristiche, maturate ultimamente, di fronte all’eso-do di profughi, ultimo (ma non ultimo) disastro della civiltà occidentale.

Ci sono le lotte dei facchini extracomunitari del SiCobas che in un settore strategico, la logistica, hanno ridefinito (se non sconvolto) le «relazioni industriali», ossia la collusa gestione padronal-sindacale dei rapporti di lavoro.
Ci sono le lotte per la casa che coinvolgono centinaia di famiglie di sans papiers (o meglio, di senza patria e senza risorse).
E questo, secondo me, è il banco di prova su cui si cimenta chi sostiene una prospettiva rivoluzionaria, per farla finita con la civiltà del capitale. Con padroni e preti di ogni risma e colore.

Dino Erba,

Milano, 20 novembre 2015.

Fonte: comedonchisciotte.org

NOTE:


[1] L’articolo riguarda la Seconda guerra dell’Oppio (1856), ora in: Karl Marx e Friedrich Engels, India, Cina, Russia, Prefazione, traduzione e note di Bruno Maffi, Il Saggiatore, Firenze, 1965, p. 154. L’articolo spesso è attribuito a Karl Marx che, invece, aveva chiesto espressamente a Engels di scriverlo.
[2] Vedi: Dino Erba, È guerra, Milano, 9 gennaio 2015.
[3] Per evidente assimilazione, anche il Giappone moderno viene considerato parte della civiltà occidentale.
[4] Vedi il recente: Wu Ming 1 – Roberto Santachiara, Point Lenana, Einaudi, Torino, 2013, p. 330. La strage di San Bartolomeo (23-24 agosto 1572), scatenata dal cattolicissimo re di Francia Carlo IX, provocò la morte da 5mila a 30mila ugonotti, secondo le diverse stime. Tutto in una notte.
[5] Mi riferisco a Rosa Luxemburg che con la nota espressione socialismo o barbarie (Juniusbroschüre, 1916) volle indicare il carattere regressivo assunto dal modo di produzione capitalistico. Quarant’anni dopo, Amadeo Bordiga, in polemica con il gruppo-rivista francese Socialisme ou barbarie, difese invece la barbarie, volendo evidenziarne il superiore livello nei rapporti interumani che il capitalismo avrebbe dissolto. Implicitamente, è una critica alla concezione progressista della storia. Vedi, [Amadeo Bordiga], Avanti, barbari!, «Battaglia Comunista», a. VII, n. 22, 13-27 novembre 1951. Più volte pubblicato, ora in http://www.sinistra.net/lib/bas/ battag/ceke/cekeogizui.html.
[6] Un’ inversione di tendenza si ebbe col nazismo, che applicò «all’Europa metodi colonialisti fino ad ora subiti solo dagli arabi, dai lavoratori indiani e dai negri d’Africa», Aimé Césair, poeta della Martinica [Poesie e negritude, Edizioni Accademia, Milano, 1969].
[7] Michele Ainis, Tutte le strade portano in galera. Una pioggia di divieti sta inondando l’emisfero occidentale, lo Stato diventa poliziotto, «La Stampa», 22 gennaio 2004. Il decennio successivo ha confermato, in peggio, lo scenario tracciato dal giurista e costituzionalista Ainis. Anche nelle piccole faccende della vita quotidiana, la libertà deve seguire percorsi sempre più rigidi. Vedi: Raffaele La Capria, L’infelicità al tempo dello spread. Bolli, multe, conguagli: il vocabolario molesto della crisi. Nuovi leviatani: il lamento del cittadino indifeso di fronte allo strapotere burocratico dello Stato, «Corriere della Sera», 5 settembre 2012, p. 39.
Dopo il 13 novembre, il clima si è fatto isterico, vedi l’emblematico: Pierluigi Battista, A quanti diritti si può rinunciare?, «Corriere della Sera», 19 novembre 2015.
[8] Gilles Dauvé – Karl Nesic, Au-delà de la dèmocratie, L’Harmattan, Paris, 2009, p. 9 e ss.
[9] Dino Erba, Proletariato e democrazia. Anche in Italia, il tabù democratico vacilla. Spunti per una riflessioni politica, Milano, 27 marzo 2013.
[10] Negli Stati Uniti, il coefficiente di Gini segnala un aumento della sperequazione, passando dallo 0,40 del 1997 allo 0,45 del 2007. Non ci sono successivi rilevamenti. Nell’ambito dell’Unione Europea, l’Italia è tra i Paesi che registrano le maggiori disuguaglianze nella distribuzione dei redditi, seconda solo al Regno Unito (grazie alla signora Thatcher & Co.), e con livelli di disparità superiori alla media dei Paesi Ocse. Vedi: Barbara Bisazza, Distribuzione dei redditi, Italia seconda in Europa per disparità, «Il Sole 24Ore», 24 giugno 2013 [leggi su http://24o.it/vusq6].
[11] Vedi:/ /www.guerrenelmondo.it/?page=static1258218333/.
[12] «Con 2,2 milioni di prigionieri in tutto il Paese, gli Stati Uniti tengono dietro le sbarre più uomini e donnedi 35 Paesi europei messi insieme: un quarto della popolazione carceraria mondiale è concentrata nelle carceri americane mentre gli Stati Uniti rappresentano solo il 5% della popolazione mondiale», Negli USA un quarto della popolazione mondiale dei detenuti: Obama visita un carcere Federale, 16 luglio 2015, in: //www.poliziapenitenziaria.it/public/ post/negli-usa-un-quarto-dela-popolazione-mondiale-dei-detenuti-obama-visita-un-carcere-federale-4798.asp/. [13] Per una classifica relativa al 2014, vedi: //www. vesuviolive.it/vesuvio-e-dintorni/notizie-di-napoli/22223-classifica-delle-50-citta-pericolose-mondo-napoli-assente/

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