IL VOTO CHE POTREBBE CAUSARE IL CROLLO DELLA STERLINA

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DI JAMES MEADWAY

neweconomics.org

Questa settimana due cose hanno scosso la città di Londra. I sondaggi, che hanno mostrato la rapida crescita degli scozzesi favorevoli all’indipendenza, ed il valore della sterlina, che Martedì scorso si è ridotto rispetto al dollaro.

Nel frattempo, il Telegraph di oggi ha pubblicato in prima pagina un articolo intitolato: “Sì, il voto potrebbe causare il crollo della sterlina”, nel quale si parla degli “avvertimenti minacciosi” del capo-economista della Goldman Sachs nel Regno Unito.

Il Financial Times, a sua volta, ha segnalato i commenti dell’Amministratore Delegato dei Lloyd’s di Londra, John Nelson, che sostengono di come “sia nell’interesse di tutta la popolazione scozzese e di tutta la popolazione britannica … che questa ‘unione’ continui a restare unita”.

Noi non assumiamo alcuna posizione sul referendum scozzese. E’ il popolo scozzese che deve decidere il suo futuro. Sembra che solo ora la City si stia rendendo conto della possibilità di una vittoria dei “sì”. Ma non è certo l’incertezza sul futuro della Scozia che la tormenta.

La “rivelazione” (su ciò che la tormenta) era nascosta nel rapporto del Financial Times pubblicato ad inizio settimana: “gli investitori in valuta” sarebbero “particolarmente preoccupati per il persistente disavanzo delle ‘partite correnti’ del Regno Unito, se questo non fosse più compensato dai proventi del petrolio del Mare del Nord”.

Quest’affermazione è un po’ eufemistica. Il Regno Unito è dal 1983 che ha un deficit nella sua “bilancia commerciale”. Per oltre trent’anni ogni anno abbiamo importato più beni di quanti ne abbiamo esportati.

Se comprendiamo anche i servizi e gli utili degli investimenti fatti all’estero (ovvero le “partite correnti” o “current account”. L’insieme delle transazioni per l’acquisto di beni e servizi, ndt), il Regno Unito è invece in disavanzo a partire dalla metà degli anni ‘90. Oggi questo deficit è vicino al livello record del 4,4% del PIL.

Se un determinato paese ha un deficit notevole nelle “partite correnti”, ed al contempo è dotato di una valuta negoziabile, allora dovrebbe assistere alla riduzione del valore della sua moneta. Se un minor numero di persone acquista all’estero i suoi prodotti, la domanda della sua valuta andrà a diminuire, spingendo il tasso di cambio verso il basso.

Il calo di questo tasso dovrebbe portare, a sua volta, ad un aumento delle esportazioni (dal momento che diventano più economiche per il resto del mondo) e ad una diminuzione delle importazioni (dal momento che sono diventate più costose), con il disavanzo commerciale che andrebbe a colmarsi.

Questa è la teoria. Ma non è successo così nel Regno Unito, perché abbiamo un’economia che è stata estremamente efficace nel coprire il suo deficit, prendendo soldi in prestito dal resto del mondo.

Il Regno Unito, oggi, detiene il secondo più grande debito estero al mondo, dietro solo a quello degli Stati Uniti. Il Regno Unito, nel suo insieme, ha debiti verso l’estero pari al 406% del suo PIL.

Questo deficit è stato sostenibile, fino ad ora, perché abbiamo un settore finanziario straordinariamente grande, esso costituisce una parte fondamentale del sistema finanziario globale.

Le operazioni della City dipendono dall’alto valore della sterlina. Gli assets finanziari (e le proprietà immobiliari) denominati in sterline inglesi sono molto più attraenti quando il valore della sterlina è alto e stabile (non importa, naturalmente, le conseguenze per coloro che cercano di esportare: http://www.thisismoney.co.uk/money/markets/article-2662878/CITY-FOCUS-Sterling-beats-rival-currencies-surging-1-70.html).

Il risultato di tutto questo è che il Regno Unito è il paese con le più grandi passività del settore finanziario, in relazione a qualsiasi altra economia sviluppata. Uno straordinario 1.634% del PIL.

Lo status quo ha funzionato molto bene per coloro che operano nella finanza. Ai bei tempi, essi avevano un vasto mercato interno per il credito, considerando che l’economia del Regno Unito era (ed è) basata sul debito. Male che fosse andata, avrebbero sempre potuto contare su un aiuto da parte di Westminster, anche a prezzo di uno straordinario costo sociale.

Il deficit commerciale cronico è semplicemente un’altra fonte di domanda di credito. Questo squilibrio cronico nel commercio internazionale del Regno Unito persisterebbe, tuttavia, anche tenendo conto dei proventi del petrolio del Mare del Nord, che al momento sono comunque imprescindibili. Nel 2013 il Regno Unito ha venduto petrolio al resto del mondo per un importo pari a 39.3 miliardi di sterline.

Ci sono alcune domande, tuttavia, sulla sostenibilità delle estrazioni di tutto questo petrolio dal Mare del Nord (ovvero sulla consistenza delle riserve e sui costi ambientali, ndt). Sarebbe opportuno, per una Scozia indipendente, spostarsi il più rapidamente possibile dalla dipendenza dal petrolio.

Ma, a questo proposito, la Scozia non dovrebbe fare alcunché di diverso da qualsiasi altra economia sviluppata che abbia necessità di porre fine alla sua dipendenza dal carbonio.

Nel caso che una Scozia indipendente reclami, secondo il diritto internazionale, la sua giusta quota del petrolio del Mare del Nord, i proventi di queste esportazioni non apparirebbero più sulla “bilancia commerciale” del Regno Unito.

Solo nel corso dell’ultimo anno, la perdita del petrolio del Mare del Nord avrebbe portato il deficit delle “partite correnti” del Regno Unito dal 4,4% a poco meno del 7% del PIL. Il grafico a seguire mostra l’andamento delle “partite correnti” degli ultimi 11 anni, con e senza il petrolio del Mare del Nord:

Il deficit medio, durante il periodo indicato, è stato del 2,3% del PIL. Senza petrolio questo salirebbe ad una media del 4,1% – e la situazione chiaramente peggiorerebbe.

Una cosa è prendere soldi in prestito dal resto del mondo per coprire un deficit del 2-3% (nel corso di molti anni), ben altra cosa prenderli per coprire il 4-5%. E nel caso di un ulteriore peggioramento? Il volume dei prestiti necessari sarebbe astronomico.

Se la Scozia dovesse conservare la sterlina, la svalutazione per la restante parte del Regno Unito (la soluzione più ovvia) sarebbe difficile, dal momento che le esportazioni scozzesi sarebbero ancora denominate in sterline.

Se è vero, in ogni caso, che indebitarsi con l’estero per coprire il deficit è più facile con una sterlina forte, è anche vero che non è affatto sicuro che il Regno Unito (come qualsiasi altro paese) possa ragionevolmente sostenere una posizione verso l’estero così brutta per un lungo periodo di tempo.

Ed è questa la prospettiva che preoccupa la City.

La minaccia di una crisi della sterlina non è dovuta all’eventuale indipendenza della Scozia, ma ai problemi economici del Regno Unito. Complessivamente, fra calo dei redditi ed aumento dei debiti, siamo già al “one shock away from a further crisis”.

Che si tratti della stagnazione dell’Eurozona, dell’indipendenza della Scozia o dello scoppio di una bolla immobiliare, questo tipo di economia è quasi sicuramente destinato a fallire – ad un certo punto e per una qualche causa.

La City ritiene, chiaramente, che la Scozia sia assolutamente necessaria per sostenere lo status quo economico. Ma questa non è solo una questione di “sì” o di “no” al referendum scozzese. Questa è un’opportunità perché l’intero Regno Unito possa aprire un dibattito sulla sua economia, che è terribilmente squilibrata … incapace di creare posti di lavoro dignitosi, dipendente senza speranza dal debito e, soprattutto, soggetta all’effetto dannoso della City di Londra.

James Meadway

Fonte: www.neweconomics.org

Link: http://www.neweconomics.org/blog/entry/scottish-independence-uk-dependency

4.09.2014

Scelto e tradotto per www.comedonchisciotte.org da FRANCO

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