IL PETROLIO, IL COTONE E IL FOSFATO DELLO STATO ISLAMICO SONO VENDUTI IN EUROPA

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DI OLIVIER PETITJEAN E RACHEL KNAEBEL

bastamag.net

Pozzi di petrolio, giacimenti di gas, miniere di fosfato, campi di cotone, colture di cereali…tante risorse sulle quali lo Stato Islamico ha messo le mani grazie ai territori che controlla in Iraq ed in Siria. Malgrado l’embargo di cui sono fatti oggetto, una parte di questi prodotti affluiscono sui mercati, verso i paesi confinanti, e servono a finanziare la sua guerra infinita. Cosa fanno le imprese del settore, i venditori di materie prime, le banche e le istituzioni internazionali per assicurarsi di non contribuire a riempire le casse di Daesh?

«Le istituzioni finanziarie e del credito sono chiamate ad esercitare una particolare vigilanza in relazione a tutte le transazioni commerciali che possano beneficiare Daesh», precisa Tracfin, il ramo del ministero francese delle Finanze incaricato della lotta contro il riciclaggio. Le entrate annuali dello Stato Islamico si avvicinano a 3 miliardi di dollari, secondo le stime. Avendo preso il controllo di parte del territorio siriano ed iracheno, il gruppo armato ha messo le mani su numerosi pozzi di petrolio, giacimenti di gas, fabbriche di fertilizzanti, campi di cotone e di cereali…tutte materie prime che possono contribuire al suo finanziamento. In aggiunta al denaro proveniente dai rapimenti di persone, dalle tasse imposte alle popolazioni, al traffico di beni archeologici, questa appropriazione di risorse naturali e di idrocarburi apporta ingentissime somme. Le materie prime, tuttavia, vanno vendute a qualcuno: chi sono, dunque, i partner commerciali di Daesh? Le autorità internazionali e le grandi imprese dei settori interessati hanno preso le opportune contromisure?

Con il dispiegamento della portaerei Charles De Gaulle nel Mediterraneo orientale, in seguito agli attentati di Parigi del 13 novembre, l’esercito francese ha l’intenzione di intensificare i bombardamenti aerei – iniziati più di un anno fa – contro Daesh in Siria e in Iraq. Alla vigilia degli attacchi di Parigi, il ministero della difesa annunciava di avere bombardato tre siti petroliferi siriani. Anche i colpi sferrati dagli Stati Uniti colpivano installazioni petrolifere di Daesh. L’operazione è stata denominata “Tidal Wave II”, in riferimento alla prima operazione Tidal Wave, che fu condotta contro le risorse petrolifere naziste in Romania durante la seconda guerra mondiale.

Lunedì 16 novembre, per la prima volta, gli Stati Uniti hanno iniziato ad attaccare anche i convogli dei camion cisterne, trasportanti petrolio destinato al contrabbando, cosa da cui si erano in precedenza astenuti per il timore di mietere vittime tra i civili.

ExxonMobil, Chevron e Total bramano il sottosuolo curdo

I pozzi petroliferi controllati da Daesh rappresentano, all’ottobre 2014, il 60% della produzione siriana di petrolio ed il 10 % di quella irachena, secondo un rapporto dell’agenzia informativa finanziaria Thomson Reuters. Approssimativamente, queste percentuali corrispondevano, in quel tempo, a 60.000 barili al giorno in ciascuno dei due stati. Una produzione che classifica teoricamente il “califfato” al 40° posto tra i produttori di petrolio, con un profitto stimato tra i 2 e i 4 milioni di dollari al giorno. Ma questo era più di un anno fa.

La situazione militare è cambiata. Una parte dei pozzi petroliferi, presi da Daesh nel 2014, sono stati riconquistati dalle forze curde e irachene, supportate dagli Stati Uniti e dall’Iran. In tal modo le potenzialità dello Stato Islamico sono state considerevolmente ridimensionate. I giacimenti attualmente sfruttati da Daesh sono modesti: qualche dozzina di migliaia di barili al giorno, al più, contro la produzione totale dell’Iraq di milioni di barili. I giacimenti siriani controllati dall’organizzazione sono, d’altronde, in declino. Ma l’avanzata di Daesh nel nord dell’Iraq, durante l’estate del 2014, costituisce una seria minaccia per giacimenti ben più importanti. È stata, forse, questa minaccia a motivare l’intervento americano: d’altra parte, ExxonMobil, Chevron e la francese Total si stanno già preparando a sfruttare le ricchezze del sottosuolo curdo.

Petrolio, fosfati e tessile made in Stato Islamico?

Cosa fa Daesh con le sue risorse, seppur limitate, di petrolio?
Lo Stato Islamico «copre il suo fabbisogno e, così sembra, vende il resto sul mercato nero locale, oppure esporta petrolio, grezzo o raffinato, in Giordania, Iran, Kurdistan e Turchia», indica il report di Thomson Reuters. I jihadisti farebbero profitti tramite i canali di contrabbando creati con l’inizio dall’embargo all’Iraq di Saddam Hussein e con l’Iran. Un rapporto dell’aprile 2015 del Congresso degli Stati Uniti segnala che il gruppo vende il petrolio estratto dai suoi pozzi iracheni attraverso la Turchia, «essenzialmente lo stesso sistema vale anche per il petrolio siriano». Le informazioni parlano anche di possibili vendite al regime siriano, oltre che ai ribelli e ai curdi di Siria, che combattono contro gli islamisti.

Oltre al petrolio, Daesh ha anche preso il controllo di numerosi giacimenti di gas, di una miniera di fosfato in Iraq, di una fabbrica di acido solforico e fosforico e di cinque cementerie, tra cui una del colosso francese Lafarge in Siria. Ma, precisa uno studio del gruppo intergovernativo contro il riciclaggio di denaro sporco (Gruppo d’azione finanziaria internazionale, Gafi), «al contrario del petrolio grezzo e raffinato, per i quali esistono circuiti di contrabbando di lunga data e mercati neri locali, quest’altra risorsa è probabilmente più difficile da monetizzare per Daesh». Ci sono forti timori sul fatto che il cotone siriano coltivato nei territori controllati da Daesh possa passare attraverso la Turchia e, infine, ritrovarsi tra le scorte dei produttori tessili europei. Uno studio condotto da una consulente francese sulla filiera tessile regionale allertava, circa due mesi fa, dell’esistenza di un reale rischio per i consumatori francesi di comprare vestiti contenenti cotone dello Stato Islamico. Conclusioni che, tuttavia, l’Unione delle Industrie Tessili Francesi, indirettamente chiamata in causa, ha giudicato non attendibile.

Le transazioni petrolifere con Daesh vietate da UE, USA e ONU

In linea di principio, è vietata qualunque transazione che rischi di alimentare le casse dei gruppi islamisti in Siria e Iraq. Le imprese hanno smesso di importare materie prime dalla Siria fin dallo scoppio della guerra. La multinazionale norvegese Yara, specializzata nella produzione di fertilizzanti, assicura di non aver più acquistato fosfato siriano a partire da febbraio 2011 e nemmeno dall’Iraq.

L’Unione Europea ha proibito l’importazione di petrolio siriano, da prima ancora dell’emersione dello Stato Islamico sulla scena regionale, quando le sanzioni erano indirizzate specificamente contro Bashar Al-Assad e la sua sanguinosa repressione dei sollevamenti popolari. Total, la multinazionale francese che sfruttava i pozzi di petrolio della regione del Dei Ez Zor, ha dismesso tutte le sue attività in Siria nel dicembre 2011. La compagnia fa sapere che, col fine di «rispettare le obbligazioni contrattuali», mantiene attualmente solo due persone nella sua sede di Damasco.

Anche gli Stati Uniti hanno vietato l’importazione di petrolio siriano prima che Daesh prendesse il controllo di una parte dei pozzi. Le sanzioni statunitensi proibiscono non solo le transazione di petrolio, ma anche quelle di natura finanziaria connesse col petrolio d’origine siriana.

Le sanzioni dell’ONU, grazie al sostegno della Russia – che dispone di potere di veto in seno al Consiglio di Sicurezza – colpiscono unicamente i gruppi islamisti della regione, ma risparmiano il governo siriano. Una risoluzione del 3 febbraio 2015 condanna: «tutti gli accordi per il commercio diretto o indiretto di prodotti petroliferi con Daesh e Al-Nusra», un’altra componente delle forze islamiste in Siria.

Una rete di contrabbando che risale all’embargo iracheno

In Francia, Tracfin invita «le istituzioni finanziarie e di credito» a «considerare le transazioni finanziarie relative, direttamente o indirettamente, all’acquisto di petrolio, greggio o meno, di provenienza irachena o prodotto in Iraq, come transazioni a rischio elevato, giustificando dei controlli particolari, tranne nel caso in cui lo State Oil Marketing Organization, che dipende dal ministero del petrolio del governo iracheno, non abbia approvato».

Sul campo, le frontiere sono un colabrodo, le alleanze tra le fazioni sono a geometria variabile, la corruzione è generalizzata e la situazione regionale, con particolare riferimento al Kurdistan iracheno, è estremamente complessa. Tutti elementi, questi che favoriscono la vendita di petrolio dal Daesh, grazie all’intermediazione di trafficanti, attraverso l’Iraq e la Turchia. Il governo regionale curdo dell’Iraq, malgrado combatta contro Daesh, esporta petrolio senza il consenso del governo iracheno, all’interno di una strategia d’indipendenza politica e finanziaria.

In questa situazione di guerra, dove le reti del contrabbando esistono e sono calcate da lunga data, facendo barcollare le frontiere, e dove il Kurdistan iracheno vende petrolio senza l’avallo di Bagdad, è estremamente difficile “tracciare” il petrolio. La frontiera turca, in particolare, ha il dito puntato contro: «Le istituzioni finanziarie farebbero bene ad esaminare con precisione le transazioni che implicano il coinvolgimento di aziende turche o di individui legati al settore del petrolio in Turchia», consiglia l’agente d’informazione finanziaria Thomson Reuters nel suo rapporto. In Iraq «sembra che Daesh faccia uso di antiche rotte tracciate dal Baath (il partito al potere al tempo di Saddam Hussein) per contrastare il programma “Oil for Food”».

Le società di trading comprano petrolio da Daesh?

Il programma “Oil for Food”, voluto dall’ONU per attenuare gli effetti dell’embargo degli Stati Uniti contro l’Iraq tra il 1992 ed il 2002, è stato caratterizzato da un elevato livello di corruzione. Nell’ambito di questo programma, l’azienda francese Total è stato processata per corruzione ed è ancora in attesa del verdetto del giudizio d’appello. Vitol, una grande impresa svizzera, è stata condannata nel 2007 negli Stati Uniti a pagare più di 17 milioni di dollari tra multa e compensazioni per la corruzione dei funzionari iracheni. Come fanno coloro che trattano petrolio e materie prime ad assicurare che non stiano commerciando oro nero estratto dallo Stato Islamico? «Vitol ha un programma globale di conformità che include politiche e procedure rigorose d’esame degli intermediari e delle loro catene di approvvigionamento», ci assicura la società di trading. «Nella regione, sono state attuate misure di massima sicurezza, come l’esigenza di trattare solo con interlocutori noti da tempo e di provata fiducia»

«È troppo difficile tracciare il petrolio all’origine»

Trafigura, un’altra grande impresa di mediazione di materie prime, risponde in maniera similare: «Trafigura non compra petrolio e prodotti petroliferi, metalli e minerali che da fonti che conosciamo bene e che hanno superato le nostre procedure di selezione». Trafigura era stata accusata anche per traffici illeciti di petrolio sudanese al tempo della guerra in Darfur (oltre che coinvolta nello scandalo del riversamento di rifiuti tossici in Costa d’Avorio). Le due imprese oramai collaborano con le autorità di Washington, essendo state «invitate col solo scopo, sulla base delle loro conoscenze nel loro settore d’attività, a fornire una valutazione del possibile volume e dello svolgimento di operazioni petrolifere dello Stato Islamico», comunicano le autorità svizzere.

Ciò è sufficiente? Per Marc Guéniat, responsabile d’inchiesta dell’ONG svizzera Déclaration de Berne e che segue da vicino le attività delle grandi imprese commerciali: «è troppo difficile seguire dall’origine il petrolio, soprattutto se viene mischiato. Non esiste un dispositivo atto ad obbligare i venditori a porsi questa domanda. In Svizzera, dove si trovano i grandi intermediari, nessuno di costoro ha l’obbligo di interrogarsi sull’origine delle materie prime che commerciano, diversamente dalle banche, che debbono farsi domande relative alla provenienza dei fondi che ricevono in virtù delle norme contro il riciclaggio di capitali sporchi. Costoro possono acquistare materie prime d’origine illegale o che derivano da un crimine». Tracciare l’origine è ancora più difficile in situazioni di guerra, le quali, visti i precedenti, non intimoriscono le imprese.

Cessare ogni tipo di attività con i paesi confinanti?

A settembre 2014, l’ambasciatrice europea in Iraq, Jana Hybaskova, confidava che è risaputo che paesi europei acquistano in nero petrolio da Daesh. La notizia, tuttavia, non ha avuto alcuna conferma ufficiale dalle istituzioni europee. «Le imprese del settore sarebbero assai infastidite dal dover escludere il commercio del petrolio proveniente dai territori di Daesh», giudica Marc Guéniat. «Una banca francese che opera a Ginevra nel finanziamento delle imprese importatrici ha deciso di evitare completamente ogni rischio mediante la cessazione di qualunque rapporto con il petrolio della regione, inclusa la Turchia. A mio giudizio, questo è l’unico modo per essere sicuri di non far affluire questo petrolio sui mercati mondiali»

Le banche francesi sanno bene che questo tipo di transazione in zone a rischio possono costargli davvero care. L’anno scorso, BNP Paribas ha ricevuto un’ammenda record di più di 6 miliardi di euro per degli affari svolti con regimi sotto sanzioni USA (Sudan, Iran, Cuba). Quasi tre quarti delle transazioni incriminate riguardavano scambi realizzati con il regime sudanese, colpito da sanzioni per il sostegno al terrorismo e la violazione di diritti umani. E si trattava, non a caso, di vendite di petrolio. La prima banca francese ha, in seguito, rinforzato il suo controllo giuridico ed è adesso particolarmente attenta a non farsi coinvolgere dai paesi confinanti con la Siria.

La Svizzera, paradiso dei mercanti di petrolio…e del traffico di beni archeologici

La Svizzera è anche al centro delle preoccupazioni circa il commercio di beni antichi sottratti nei territori occupati da Daesh. Un rapporto del presidente del Louvre, reso pubblico dopo gli attentati di Parigi, indica che i principali antichi siti di Siria e Iraq sono stati oggetto di «un numero incalcolabile di scavi selvaggi». Anche la vendita di questi oggetti contribuisce a gonfiare le finanze di Daesh. «Daesh ha probabilmente recuperato i pezzi più pregiati del museo di Raqqa (oltre a quelli rubati dai musei iracheni) per rivenderli ai trafficanti che possono giovarsi della rete perfettamente organizzata che esisteva già prima dell’apparizione di Daesh», recita il rapporto. Ora, è possibile che questi pezzi rubati si trovino in porti franchi sparsi nel mondo alla ricerca di un compratore, perché in questo «paradiso dell’occultamento», confidenza e discrezionalità sono la regola. «In certi porti franchi, non è richiesto dichiarare l’inventario alle dogane: la natura dei beni, il loro valore e l’identità del loro proprietario rimangono strettamente confidenziali», sottolinea il direttore del Louvre. Tra questi territori ci sono Singapore e Shanghai, ma anche Ginevra e il Lussemburgo. Nel cuore dell’Europa.

Olivier Petitjean e Rachel Knaebel

Fonte: www.bastamag.net

Link: http://www.bastamag.net/Le-petrole-le-coton-ou-le-phosphate-de-l-Etat-islamique-sont-ils-vendus-en

24.12.2015

Traduzione per www.comedonchisciotte,org a cura di NICOLA PALILLA

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