IL MASSACRO COME STRATEGIA DI DOMINIO

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DI RAUL ZIBECHI

La Jornada

Si tratta di una guerra coloniale per appropriarsi dei beni comuni, che suppone l’annientamento di quella frazione d’umanità che s’oppone al furto di tali ricchezze. Gli abitanti locali, che vivono su questi beni, (miniere a cielo aperto o terre da coltivare con le monoculture) che ne rifiutano lo spoglio, che sono “di troppo”, o che semplicemente sono inutili all’accumulo di altre ricchezze, vengono eliminati.

Recentemente è avvenuta la consegna del premio Tata Vasco 2014, presso l’Università Latinoamericana di Puebla per conto del FUDEM ( Forze Unite per i Dispersi del Messico). Uno dei pochi uomini presenti nel gruppo dei 25 parenti degli scomparsi che hanno partecipato alla manifestazione, ha urlato “Questa è una guerra!”

Il dolore inimmaginabile dei parenti delle vittime di questo massacro silenzioso li costringe a guardare in faccia la realtà, senza filtri.

In effetti, in Messico, è in corso una vera e propria guerra, nella quale il popolo dei lavoratori è la vittima e l’obbiettivo da sterminare. I metodi usati in questo conflitto ricalcano quelli, estremamente violenti, adoperati durante le guerre coloniali: non vengono perpetrati solo degli omicidi bensì dei veri e propri massacri. I corpi vengono decapitati e smembrati, per poi essere sparpagliati in strada affinchè tutti li vedano, a guisa di lezioni ed avvertimenti. Tramite questa strategia del terrore, si vuol instillare la paura. Per paralizzare, per impedire ogni reazione, ed in particolare per dissuadere il popolo dal compiere azioni collettive d’opposizione.

Evidentemente, quella del massacro non è una strategia nuova. Venne adoperata dalla Corona Spagnola per annientare le lotte indigene. È là, infatti, che i nuovi colonizzatori l’hanno appresa. Tùpac Amaru, infatti, era stato squartato davanti alla folla sulla piazza d’armi della città di Cusco.

Amaru fu costretto ad assistere alla tortura ed all’assassinio dei suoi due figli e di sua moglie, oltre che alla brutale esecuzione di altri suoi parenti ed amici. Prima di morire venivano seviziati ed amputati della lingua, con un metodo che, simbolicamente, richiamava a ciò che più irritava i conquistadores.

Il figlio minore, di soli 10 anni, dovette assistere al massacro della sua famiglia e poi venne mandato in esilio in Africa. La testa del papà, Amaru, infilazata su una lancia, venne dapprima esibita a Cusco e poi a Tinta. Le sue braccia e le sue gambe vennero inviate in città limitrofe come avvertimento per i suoi sostenitori. I suoi seguaci più fedeli subirono più o meno le stesse torture, ed i loro resti furono sparpagliati sul territorio di ciò che oggi è chiamata Bolivia.
La crudeltà dei nuovi conquistatori non è nuova. Prima si trattava di appropriarsi dell’oro e dell’argento, oggi si tratta dell’industria delle miniere a cielo aperto, delle monoculture e delle produzioni idroelettriche. Ma adesso si tratta di tenere le schiere d’oppressi in silenzio, sottomessi e tranquilli.

Il massacro è ontologicamente una delle più grandi differenze tra la storia europea e quella latinoamericana.
Qui (in Sud America) non hanno avuto luogo quelle riforme disciplinari dell’illuminismo, e non s’è visto né il “Satanic Mill” della Rivoluzione Industriale né l’apoteosi del capitalismo, ritratta dal poeta William Blake ed analizzata rigorosamente da Karl Polanyi. La recinzione dei campi in Inghilterra, a partire dal XVI secolo, ha portato ad una “rivoluzione dei ricchi contro ai poveri”. È stata analizzata come la rottura dei vecchi usi e costumi tra signori e nobili, che hanno imparato ad imporsi “usando raramente la violenza, ma adoperando sempre la pressione e l’intimidazione”. (La grande trasformazione, Edizioni Einaudi)

Qui, in Sud America, invece, la violenza è la norma con cui sono sempre eliminati i ribelli (come a Santa Maria d’Iquique, in Cile, nel 1907. 3600 minatori furono massacrati durante una protesta).
È la maniera di prevenzione contro a coloro che stanno schiacciati in basso e che non devono muoversi dalla posizioni a loro assegnate. Qui noi abbiamo avuto, ed abbiamo, lo schiavismo. Non vi è nulla che assomigli al “lavoratore libero” promosso dal capitalismo europeo dopo che ha rubato le terre ai nostri contadini.

Bisogna notare l’unica eccezione: Durante le guerre d’indipendenza tra Creoli e Spagna, gli insorti, secondo a coloro che si definiscono realisti, non furono torturati. Miguel Hidalgo e José Maria Morelos, per citare dei celebri ribelli Creoli, infatti furono solamente giudicati e fucilati, come era d’uopo all’epoca coi prigionieri di guerra. Il trattamento differente riservato a Tùpac Katari e Tùpac Amaru è spiegabile solo in virtù del colore della pelle, cosa che accade a tutti gli indiani, neri e meticci, della nostra America.

Questa tragedia, invece, non è storia e probabilmente non vi entrerà mai.
Nel Brasile democratico. L’organizzazione “Mamme di Maggio” ha contato che tra il 1990 ed il 2012 sono state massacrate 25 persone, tutte nere o meticce, come gli altri militanti. Nel maggio 2006, nel contesto della repressione del Primo Commando della Capitale di Sao Paulo ( dei narcotrafficanti che si sono organizzati pur stando in prigione), 498 poveri giovani sono stati assassinati. Quasi 500 uomini, dai 15 ai 25 anni, sono stati trucidati tra le dieci di sera e le tre del mattino dalla polizia.

In realtà, la storia dei trafficanti di droga è un pretesto. La narco non esiste. Si tratta, in vero, di normalissimi affari che fanno parte delle mode di accumulo/furto volute dalla classe dominante. Attualmente, non ci troviamo confrontati con “eccessi” sporadici della polizia, ma di fronte ad un modello di dominio. Tale strategia d’oppressione fa del massacro il sistema con cui soggiogare la classe popolare affinchè non evada dal progetto scritto da coloro che stanno in alto, e che chiamano “democrazia”: votare un giorno ogni cinque o sei anni e lasciarsi derubare/assassinare tutto il resto del tempo.

Il peggio che noi possiamo fare è il non guardare in faccia la realtà e far finta che la guerra non esista, solo perchè non ci hanno ancora colpiti, perchè sopravviviamo ancora.

Questo combattimento avviene fra tutto e tutti. È certo che ci sia una minima parte che possa esprimersi liberamente e persino manifestare senza essere annientata. Ma, perlopiù, gli altri non possono mettere in dubbio questo progetto e confutare il modello “democratico”. Attenti: coloro che tra di noi possono manifestare a viso scoperto, sono simili ai Creoli durante la guerra d’indipendenza: ossia, possono sperare in una morte degna, come Hidalgo e Demeurez.
Ma il soggetto è altrove. Se vogliamo davvero che il mondo cambi, e non utilizzare la resistenza di quelli in basso per arrampicarsi più in alto, come hanno fatto i Creoli nella loro repubblica, non possiamo accontentarci di rabberciare ciò che esiste. Si tratta di prendere altre direzioni.

Forse, un buon inizio sarebbe quello di seguire i passi dei seguaci di Amaru e Katari. Ricostruire i corpi smembrati e riprendere il cammino, là dove il combattimento è stato interrotto. È un momento mistico: guardare l’orrore in faccia, elaborare il dolore e la paura ed avanzare tenendosi per mano, affinchè le lacrime non adombrino più il cammino.

Raúl Zibechi, giornalista uruguaiano, è insegnante e ricercatore presso la Multiversidad Franciscana de l’Amérique Latine, ed è consigliere presso diversi gruppi sociali.

Fonte: www.jornada.unam.mx

Link: http://www.jornada.unam.mx/2014/10/31/opinion/023a1pol

31.10.2014

Traduzione dal francese per www.comedonchisciotte.org a cura di LILIANE TAMI

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