EVITIAMO DI DARE ALL’ISIS ESATTAMENTE QUELLO CHE VUOLE

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DI STEPHEN WALT

foreignpolicy.com

Quando si verifica un evento sconvolgente come gli attentati di Parigi, sappiamo come reagirà il mondo. Ci sarà sgomento, espressioni di solidarietà e partecipazione, discorsi infiammati dei politici e frenesia mediatica. Purtroppo queste reazioni, peraltro prevedibili, danno ai responsabili, almeno in parte, quello che volevano ottenere: attenzione per la loro causa e la possibilità che i bersagli, pur involontariamente, facciano qualcosa che favorisca le mire radicali degli attentatori.

È proprio in questi momenti che è maggiormente necessario evitare la rabbia, lo sdegno, la ricerca di cause e colpevoli e mantenere la risolutezza e la lucidità di pensiero. Quanto è accaduto a Parigi è una tragedia indicibile per le vittime ed un’offesa profonda a tutto quanto abbiamo caro, ma la nostra reazione deve nascere dalla testa e non semplicemente dal cuore. Ecco cinque lezioni da tenere a mente mentre valutiamo e pericoli e cerchiamo una reazione efficace.

No. 1: mantenere la prospettiva della minaccia.

La morte improvvisa e violenta di circa 130 persone innocenti, in una città pacifica, attrae inevitabilmente la nostra attenzione, ma eventi come questo non hanno il potere di scuotere le fondamenta della società, se noi non lo permettiamo. Le morti di venerdì scorso, 13 novembre, a Parigi, sono tragiche, ma eventi come questo e simili impallidiscono al confronto con i massacri e la disumanità che l’Europa ha sofferto dal 1914 al 1918 e dal 1939 al 1945. Nonostante tutti i suoi problemi attuali, l’Europa di oggi è più ricca, più libera, più sicura, più aperta, più uguale e più stabile di quando non sia stata in qualsiasi altro momento della propria storia: non si può e non si deve rinunciare a questi successi. Se la Francia o i paesi vicini voltano le spalle a ciò che è stato costruito in Europa negli ultimi 60 anni, sarà una vittoria di cui gli attentatori gioiranno ma che, molto chiaramente, non meritano.

Non dobbiamo dimenticare che altre città e società hanno sofferto eventi simili e, pure, oggi di nuovo prosperano. New York, Oslo, Londra, Boston, Madrid, Parigi, Ankara e molte altre città hanno subito in anni recenti gravi attacchi terroristici, ma se oggi le visitate, potrete vedere come le comunità si siano riprese, abbiano ricostruito e riescano ad andare bene avanti. Pur piangendo i morti dobbiamo trovare conforto nel sapere che il terrorismo è l’arma dei deboli e, conseguentemente, può avere soltanto un impatto materiale limitato sui propri obiettivi. La Ville Lumiere, la città della luce, sarà ancora qui e prospererà molto tempo dopo che questi attacchi saranno stati in gran parte dimenticati.

No. 2: accettare l’idea che la sicurezza al 100% non è possibile.

Come era prevedibile, molti paesi hanno reagito agli attacchi chiudendo le frontiere ed avviando altre misure a breve termine. Si faranno sicuramente sforzi anche per migliorare i servizi di spionaggio e di informazioni. Queste azioni hanno senso come mezzo per rassicurare un’opinione pubblica preoccupata e contribuire a limitare ulteriori atatcchi terroristici.

Ma non c’è modo di difendere la società da ogni estremista intenzionato a uccidere altri e a morire in tale azione. Come ho lungamente spiegato in precedenza, ogni società moderna contiene un numero illimitato di bersagli facili: non possiamo proteggerli tutti. Anche stati fortemente autoritari, quali Russia e Cina, hanno sperimentato violenze terroristiche su larga scala, e questo dimostra che metodi più coercitivi, da stato di polizia, non sono in grado di eliminare il problema. Malauguratamente, eventi come gli attacchi di Parigi rischiano di diventare un fenomeno ricorrente della vita nel 21° secolo. Ma, ripeto: non possono costituire una minaccia esistenziale.

No. 3: per sconfiggere gli estremismi è necessario comprenderne cause e origini.

Non possiamo sperare di ridurre i pericoli derivanti da tale sorta di estremismo violenti se non ci sforziamo di comprenderne ed accettarne le origini. Contrariamente a quanto scrivono gli islamofobi contemporanei, la violenza jihadi(stica) non è intrinseca dell’Islam. Il Corano esplicitamente proibisce di attaccare innocenti e non combattenti, e la grande maggioranza dei fedeli musulmani in tutto il mondo condanna fermamente queste azioni. Incolpare l’“Islam” di questi attacchi è come incolpare la Cristianità per la strage compiuta da Anders Breivik a Oslo, oppure attribuire al Giudaismo la responsabilità della furia omicida di Baruch Goldstein a Hebron.

Piuttosto, il terrorismo jihadi(sta) è un movimento politico che si basa su un’interpretzione ristretta e fondamentalista dell’Islam da parte di una minoranza. In parte, l’emergere di gruppi quali il c.d. Stato Islamico o l’originaria al Qaeda è sintomatico della più ampia crisi di legittimità e di capacità di governare nel mondo arabo ed islamico. Ma è anche, comunque, una sfortunata ma comprensibile risposta a decenni (o anche secoli) di interferenze occidentali in Medio Oriente e, specialmente, a quelle politiche che hanno causato la morte di centinaia di migliaia di persone nella regione.

Riconoscere ed ammettere questo dato di fatto non giustifica in alcun modo ciò che è accaduto a Parigi, e certamente io non intendo difendere, scusare o razionalizzare quello che i terroristi hanno fatto venerdì scorso, o altri terroristi hanno fatto prima. Al tempo stesso, però, pretendere che le azioni americane ed europee non abbiano niente a che vedere con questo problema è nascondere la testa nella sabbia ed ignorare l’ovvio. Per fare solto un esempio del ruolo dell’Occidente nel creare questo problema: se gli Stati Uniti avessero evitato di invadere l’Iraq nel 2003, quasi certamente oggi non vi sarebbe alcuno Stato Islamico.

Affrontiamo i fatti con onestà: decenni di malaccorte politiche statunitensi ed europeee hanno creato rabbia e risentimento in molti popoli del mondo arabo ed islamico. Politiche che includono l’aver l’Occidente ampiamente favorito ed aiutato vari ditattori Arabi, aver dato cieco sostegno alle brutali politiche israeliane nei confronti dei palestinesi, come pure aver prontamente lanciato campagne aeree, applicato sanzioni o aver invaso paesi medio-orientali ogniqualvolta abbia ritenuto che ciò favorisse i propri interessi a breve termine. Considerate ora come reagiremmo noi se una qualsiasi potenza straniera avesse fatto ciò a noi, e non soltanto una volta ma per moltissimi anni. Non deve sorprendere quindi che tra tante persone che hanno motivi per avercela con noi, ve ne siano alcune, fortunatamente poche, che hanno deciso di ripagare l’Occidente per quelle che vengono, a ragione, viste come interferenze illegittime e criminali. La loro reazione sarà moralmente spregevole e non risolverà niente, ma non è affatto difficile da comprendere.

Inoltre, sta accadendo qualcos’altro. Per molto tempo le grandi potenze hanno sfruttato le società più deboli; oggi però i deboli possono talvolta restituire i colpi nel cuore dei territori delle grandi potenze. Gran Bretagna, Francia, Belgio ed altre nazioni hanno trattato i paesi colonizzati in maniera brutale e, a volte, criminale, ma i popoli colonizzati non avevano alcuna possibilità di attaccare i propri padroni colonialisti direttamente al centro del potere imperiale. Oggi, gruppi come al Qaeda e lo Stato Islamico possono fare proprio questo, indipendentemente da quante precauzioni possiamo prendere. Questa è la nuova realtà che stiamo cercando di comprendere.

No. 4. Lo Stato Islamico ha una strategia. Cerchiamo di non abboccare

Lo Stato Islamico ed altri gruppi terroristici sono motivati da una propria combinazione di rabbia, ideologia ed ambizione, ma le loro azioni non sono il sintomo di una furore senza scopo. Come ho spiegato altrove, ed altri esperti anche, lo Stato Islamico utilizza la violenza in maniera altamente strategica. Assieme alle recenti bombe di Ankara e di Beirut, ed all’abbattimento dell’aereo russo pieno di turisti (tragedie che si ritiene siano collegate allo Stato Islamico), gli attacchi di Parigi sembrano essere la risposta dello Stato Islamico alla recenti perdite territoriali ed alla lenta crescita della coalizione contro di esso, che include la Francia. I suoi leader stanno cercando di dimostrare ai paesi avversari che c’è un prezzo da pagare per abbattere lo Stato Islamico.

Lo Stato Islamico ha, inoltre, un obiettivo strategico a lungo termine: consolidare il controllo territoriale in Syria ed Iraq e, successivamente, espandere il proprio c.d. “califfato”, nel mondo musulmano ed oltre. A tal fine, i suoi ideologi vogliono acutizzare il conflitto tra i musulmani e forzare i popoli nel mezzo (cioè la “zona grigia”) a fare scelte di campo. Lo Stato Islamico spera quindi di provocare reazioni che rafforzino il mito di un inconciliabile conflitto religioso ed attraggano ancor più simpatizzanti sotto le proprie insanguinate insegne. Se lo Stato Islamico otterrà che la Francia ed altri paesi inaspriscano i controlli e le restrizioni sui propri cittadini musulmani e che l’Occidente torni ad occupare grandi aree di Medio Oriente, la falsa propaganda sulla profonda ed intrinseca intolleranza occidentale nei confronti dell’Islam acquisterà maggiore credibilità. Al tempo stesso, l’immagine accuratamente coltivata dello Stato Islamico come il più fedele difensore dell’Islam ne uscirà grandemente rafforzata.

La sfida dell’Occidente è sconfiggere questa strategia, ed il primo passo è non cadere nell’ovvia trappola preparata. Se prendiamo per buona questa visione di un inesorabile conflitto culturale, religioso e di civiltà, ci troveremo facilmente ad intraprendere iniziative che trasformeranno questa visione in realtà. Data l’attuale debolezza dello Stato Islamico, l’ultima cosa che dobbiamo fare è incoraggiare chiunque a vederlo come eroico o con obiettivi di lungo periodo.

No. 5: mantenere la calma e andare avanti.

L’ovvia tentazione sull’onda di un tale attacco è avviare una mobilitazione totale per distruggere lo Stato Islamico. Il tema si svolge in questo modo: se lo Stato Islamico sta ampliando le proprie attività dalle operazioni locali e sta attivamente tentando di organizzare attacchi in Europa ed altrove, i giochi sono fatti e tutte le misure sono giustificate. Nello specifico, arruoliamo una “coalizione di volenterosi” ed inviamo nuovi corpi di spedizione in Syria ed in Iraq, con lo scopo di uccidere quanti più jihadisti possibile, nella speranza di distruggere lo Stato Islamico una volta per tutte.

Una campagna totale di questo genere sicuramente lo indebolirebbe, riducendone la libertà di pianificare nuovi attacchi e diminuendo in conseguenza la minaccia diretta contro l’Occidente, ma, in ultima analisi, non risolverebbe il problema e potrebbe facilmente aggravarlo. Se gli Stati Uniti, la Francia ed i loro alleati lanciassero in Medio Oriente ancora un’altra crociata frettolosamente pianificata, il grande messaggio di fondo dello Stato Islamico verrebbe confermato e ancor più persone vedrebbero questi terroristi come eroici martiri che resistono gloriosamente alle forze eternamente ostili dell’Occidente. Ulteriormente, le forze d’invasione non troverebbero condizioni più favorevoli per governare o pacificare tali aree di quelle che erano quando gli Stati Uniti avevano oltre 150.000 uomini sul terreno. Anche se lo Stato Islamico stesso fosse completamente distrutto, le sue idee rimarrebbero vive e potenti ed alcuni dei suoi dirigenti si disperderebbero in moltissimi altri posti della regione. Lo Stato Islamico potrebbe essere finito, ma nuovi gruppi terroristici sicuramente spunterebbero in questa turbolenta e travagliata regione.

L’unico rimedio a lungo termine a questo pericolo (ma ricordate che la soluzione non potrà mai essere totale) è ripristinare in tali aree istituzioni statali più legittime ed efficaci. Ma, come abbiamo ripetutamente visto, creare le istituzioni necessarie non è qualcosa eserciti d’invasione possano fare, specialmente se così contaminati dalla storia come quelli dell’Occidente. Potranno farlo soltanto i popoli che abitano quelle aree, certamente non noi. E questo è il motivo per cui lo sforzo principale per arginare lo sviluppo dello Stato Islamico deve essere fatto da attori locali, con gli Stati Uniti (e la Francia) quanto più possibile sullo sfondo. Comunque, se la nostra storia post-11 settembre ci insegna qualcosa, è che probabilmente faremo l’esatto contrario.

Link: http://foreignpolicy.com/2015/11/16/dont-give-isis-what-it-wants-united-states-reaction

Traduzione per www.comedonchisciotte.org a cura di CPTHOOK

16.11.2015

Nota del traduttore

Ho tradotto questo articolo prima di tutto per la stima che ho dell’autore. Stephen Walt, assieme a John Mearsheimer, professore a Princeton prima e poi a Harvard, ha scritto un testo fondamentale per comprendere cosa muove la politica statunitense da molti anni: “La lobby israeliana e la politica estera degli USA”.

Anche se non condivido alcune interpretazioni di fondo dell’Autore (a mio dilettantistico parere manca almeno un’ipotesi, un dubbio, che l’origine dell’ISIS possa essere voluta da poteri occulti che sfruttano le legittime doglianze, che pure l’articolo tratta, per propri fini di potere e dominazione del mondo), riconosco il fondamentale buon senso di molte sue affermazioni e, principalmente, la profonda critica dell’Occidente come causa prima del proprio problema. Basta pensare al colpo di stato del ’53 in Iran, per deporre il presidente Mossadeq, legittimamente eletto (vi sembra una novità?), ma non mancano molti altri esempi. Principalmente, condivido in pieno la sfiducia profonda che l’ultima frase sottolinea pesantemente. Se però il messaggio di fondo vuole essere: non perdiamo la speranza (e lottiamo per salvarci), allora Walt ha centrato il tema.

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