EUROPA IN GINOCCHIO. LA MERKEL NON SA COSA FARE. E GLI EUROPEI HANNO CAPITO ANCORA MOLTO POCO

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DI VALERIO LO MONACO
ilribelle.com

Mentre l’Italia si trova nelle condizioni di dover fronteggiare la più grande recessione dal 1970, i sentimenti di preoccupazione a livello europeo aumentano, e allo stesso tempo la Germania, se da un lato intende mantenere il pugno duro sulla situazione, dall’altro si rende conto che se vorrà continuare a far parte dell’Unione Europea almeno per come è al momento, qualche concessione in tema di rigore deve pur farla. Non solo. Sempre da parte tedesca non mancano alcune ipocrite soluzioni e aperture all’immigrazione, come vedremo: in Germania nei prossimi imminenti anni sono previsti 6 milioni di lavoratori in meno. E dunque non si pensa di meglio che cercare di fare spese, in tal senso, proprio nei Paesi in crisi dove la manodopera costa meno.

I temi sono differenti, come si vede, ma attengono al medesimo quadro, e seppure presi separatamente si deve poi confluire necessariamente a un ragionamento unitario se si vuole considerare la situazione nel suo complesso.

Illusioni

Dalle nostre parti, come avevamo sollevato dubbi ieri stesso ( qui) in merito all’abolizione dell’Imu, argomento più da campagna elettorale che vera realtà economica possibile, al momento ci sono più dubbi che certezze. Ne scrive Federico Zamboni proprio oggi ( qui). Dal punto di vista economico siamo al settimo trimestre consecutivo in cui si contrae il Pil, panacea per tutti i mali e unico sistema, quello della crescita, sbandierato come sola possibilità di uscita dalla situazione. Ma i dati, appunto, sono sconfortanti. Soprattutto perché sono previsti ulteriormente al ribasso.

Ricordiamo di passaggio come, non molto tempo addietro e nella più classica delle premonizioni alla Nostradamus, il Tesoro ci ammoniva dichiarando che si sarebbero visti segnali di ripresa alla fine del 2013: “c’è luce in fondo al tunnel” dichiarava Monti. Visto ciò che stiamo attraversando, il supertecnico dovrebbe andare a nascondersi in un Paese del terzo mondo (e invece ce lo troviamo nuovamente in Parlamento…)

L’Eurostat invece parla chiaro: le prospettive non sono buone. Dai tassi di disoccupazione ai deficit, dai debiti pubblici alle produzioni industriali sino all’andamento del Pil, appunto, non c’è un solo indicatore in ripresa. Anzi, appare ormai chiaro che i tempi che ci aspettano saranno ancora peggio, visto che buona parte delle norme approvate in Europa sino a ora devono ancora far registrare i propri – funesti – effetti. Tutti, indistintamente, indicano che produrranno altra recessione e disoccupazione. Perché dunque sono stati varati, a vario titolo, in ogni luogo?

La nostra opinione è palese, ed è inutile rispiegarla nuovamente se non con una estrema sintesi: il meccanismo si è rotto e questa non è una crisi passeggera ma uno spartiacque della storia. Come in tutti i momenti del genere, le fasi di passaggio sono quelle più imprevedibili e in cui si rovescia il paradigma generale. Con le conseguenze inedite che stiamo vivendo. Il resto sono chiacchiere. Ed effetti, certo, quelli che aggiorniamo di giorno in giorno e che non stimolano però nessuno ad ammettere che il gioco è finito e che si deve cambiare rotta.

Europei e presa di coscienza

Anche a livello di percezione pubblica le cose non stanno meglio. Se la paura ormai in Europa la fa da padrona, allo stesso tempo non è ancora scattato il click necessario per capire i motivi che la rendono manifesta. In uno studio condotto dal Pew Research Center lo scorso marzo (in otto Paesi europei) la principale preoccupazione è lo stato in cui versa l’economia. Solo l’1% dei greci, il 3% degli italiani, il 4% degli spagnoli e il 9% dei francesi, solo per fare qualche esempio, pensa che l’economia nazionale sia in buone condizioni. Il resto, soprattutto nei Paesi del Sud Europa, rileva cittadini estremamente preoccupati. Fa eccezione, naturalmente, la Germania: oltre la metà dei suoi abitanti, cioè il 57%, è soddisfatto della direzione presa dall’economia nel proprio Paese.

I principali motivi di preoccupazione, invece, sono la disoccupazione, il debito pubblico, l’inflazione e la disuguaglianza. Tutti – attenzione – frutti amari del nostro modello di sviluppo che dunque, al momento, stanno per staccarsi dall’albero della cuccagna e cadere a terra prima di deperire definitivamente. Facendo una media nei Paesi presi oggetto nello studio, il 78% teme la disoccupazione, il 71% il debito pubblico, il 67% l’inflazione e il 60% la disuguaglianza.

L’inganno

Altro elemento: il sentimento diffuso di sfiducia verso le istituzioni. Che però, e qui è il rovescio della medaglia, continuano a essere supportate in ogni dove mediante il voto (o il finto voto di protesta verso partiti e movimenti che apparentemente possono rappresentare una alternativa ma che alla resa dei conti si confermano come parte del sistema stesso: e nel nostro Paese ne sappiamo qualcosa).

Tutta questa sfiducia, tutta questa paura, e infine tutta questa rabbia viene dunque incanalata su sentieri innocui per chi manovra la situazione e ci sta conducendo al collasso. In altre parole, ed ecco il punto fondamentale: le percentuali di chi comunque – comunque! – vorrebbe mantenere l’Euro come propria moneta si attestano al 63% per la Francia, al 66% per la Germania, al 67% per la Spagna, al 64% per l’Italia e addirittura, ancora, al 69% per la Grecia. Ogni commento è superfluo.

Sintesi: gli europei non hanno ancora la benché minima idea dei motivi reali per i quali si trovano a fronteggiare la situazione che li sta annichilendo. Ecco perché ci siamo permessi di sollevare più di un dubbio sulla possibilità di indire referendum in merito all’Euro e all’Europa in questo momento, anche nel nostro Paese ( qui). Il risultato sarebbe scontato e con effetti disastrosi, perché a quel punto, una volta votato e confermato il desiderio di rimanere nella situazione attuale in merito a Europa ed Euro, non vi sarebbe veramente più scampo.

Giovani senza futuro

Un altro studio dimostra che la disoccupazione giovanile non diminuirà almeno sino al 2018. E, come al solito, si tratta (solo) di previsioni. L’International Labour Organization ha fatto una panoramica sulla situazione delle disoccupazione giovanile, questa volta a livello mondiale, e i risultati eloquenti: quasi il 40% in Italia, il 52% in Spagna e il 55% in Grecia. Ciò significa, in parole povere, che una intera generazione sarà segnata, e per sempre, dagli effetti di questa crisi. A nostro avviso ne saranno segnate almeno un paio. Più in là è inutile anche solo cercare di vedere. 

Il trend è negativo soprattutto perché è in forte aumento la disoccupazione di lungo periodo. La caratteristica di questo tipo di disoccupazione è essenziale: più tempo si passa senza lavoro e più difficile diventa, esponenzialmente, trovarne uno nuovo. A questo si aggiunge che è in fortissima crescita una cosa ancora più deprimente e pericolosa: il tasso di sotto occupazione. Si tratta delle tante persone che non figurano nei dati dei senza lavoro perché un lavoro lo hanno. Ma è un lavoro che non gli permette neanche di riuscire a sopravvivere. L’esempio tipico: il giovane italiano che guadagna 500/600 euro al mese ma che, se non potesse risiedere nella casa dei genitori, e dunque se non avesse vitto e alloggio offerto dalla famiglia di provenienza, sino a che essa ci sarà e potrà permetterselo, sarebbe in mezzo a una strada.

Nuova emigrazione

Quando detto in merito alla Germania e alla sua carenza di posti di lavoro – ribadiamo: 6 milioni in meno in pochi prossimi anni – è la quadratura del cerchio che viaggia ipocritamente verso la direzione sbagliata: il governo federale tedesco corteggia la manodopera dei Paesi in crisi. Con parole di Angela Merkel stessa, in occasione del vertice sulla demografia che si è tenuto lo scorso 14 maggio a Berlino e di cui riporta la Frankfurter Allgemeine Zeitung, «considerando che nel 2025 avremo sei milioni di lavoratori in meno, dobbiamo essere aperti ai giovani che vogliono venire da noi». A questo ha fatto eco il ministro dell’interno tedesco Hans Peter, che punta soprattutto sui lavoratori qualificati provenienti dai Paesi dell’Europa meridionale. Si tratta della versione moderna degli emigranti con le valigie di cartone, per intenderci, che seppure oggi qualificati, andranno in Germania, dunque, a ottenere posti di lavoro del tipo mini-jobs dei quali abbiamo parlato spesso. Una sorta di nuovo schiavismo, in fin dei conti.

Contagio 

L’ultima nota di stretta attualità è però il fatto che la crisi europea stia contagiando anche la Germania. Sembra un paradosso, parlare di contagio quando uno tra i responsabili maggiori della situazione è proprio questo Paese. Ed è aspetto sul quale battiamo da molto tempo. A Berlino è in atto da mesi una vera e propria processione di vari capi di Stato per chiedere alla Merkel, che a questo punto appare come l’unica sovrana a cui “implorare pietà” un allentamento delle misure restrittive. Ora pare vi sia qualche apertura in tal senso. Il che è ovvio, e rientra nel quadro delle “norme non convenzionali” delle quali abbiamo scritto dal giorno dopo le elezioni italiane.

Insomma, inizia a farsi largo anche in Germania – alla buon’ora – la convinzione che l’austerità non stia pagando come ci si era aspettati, e che gli effetti negativi, giocoforza, si stiano iniziando ad abbattere anche sulla economia tedesca. 

Beninteso, anche se la nuova parola d’ordine, che pure i tedeschi iniziano a pronunciare, è quella della “competitività” (e sappiamo cosa questo voglia dire per i lavoratori) ciò non significa che il governo voglia abbandonare le politiche di rigore sino a qui portate avanti, e fatte portare avanti a forza a tutti gli altri Paesi. Ma se i mercati finanziari attraversano una fase di calma relativa, vuol dire che qualcosa bolle in pentola.

Si tratta di una calma apparente, però. Attenzione: è come il respiro profondo prima di una nuova ondata devastante. Quella che si sta armando bolla dopo bolla.

Valerio Lo Monaco
www.ilribelle.com
16.05.2013

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