DALLA PARTE DEI TEPPISTI

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DI VALERIO MATTIOLI

vice.com

Intervista a Franco Berardi “Bifo”

Il primo maggio me ne stavo a 600 chilometri da Milano, a guardare la diretta degli scontri che come tutti sanno hanno segnato le proteste anti-Expo. Da dove stavo, ho innocentemente pensato che be’, se tra gli scopi della manifestazione c’era rovinare la festa a Expo, tutto sommato gli stava riuscendo benissimo.

La conferma in fondo me l’hanno data quasi subito sia i commentatori istituzionali (per i quali “non è ammissibile che una vetrina importante come Expo venga insozzata da questi criminali”), sia lo stesso commissario di Expo Giuseppe Sala, per il quale “rimane una festa rovinata, è un peccato in un momento come questo con tutto il Paese raccolto intorno ad Expo.”

In realtà, le violenze di Milano hanno quasi immediatamente sollevato un’ondata di critiche, prese di distanza e condanne, anche (soprattutto?) da parte di chi in No Expo si riconosce: sul manifesto, Luca Fazio ha parlato di “riot che asfaltano il movimento“, mentre su Internazionale il mio amico Christian Raimo la mette sulla “pornografia della devastazione“.

Poi, nel panorama letteralmente infinito di commenti a caldo sui fattacci milanesi, è spuntato un post su Facebook di Franco Bifo Berardi, eloquentemente intitolato “Dalla parte dei teppisti“. Come da previsioni, la posizione di Bifo ha suscitato polemiche ma anche qualche timido tentativo di capire cosa realmente quelle violenze dicevano, sempre ammesso che non siate d’accordo con Matteo Renzi quando afferma che in realtà non erano altro che studenti della Bocconi in gita al centro. Nel momento in cui scrivo, il post di Bifo è stato condiviso più di 1.500 volte, collezionando centinaia e centinaia di commenti.

Non è la prima volta che in queste settimane Bifo si trova al centro di polemiche. Tempo fa è stata la volta di un altro intervento (qui)in cui analizzava a modo suo il suicidio di Andreas Lubitz, il pilota Germanwings responsabile del disastro da 150 vittime dello scorso 24 marzo. Il tema del suicidio (e della depressione) è d’altronde il nodo attorno a cui ruota l’ultimo libro dello scrittore e filosofo bolognese; si intitola Heroes, è in uscita in questi giorni per Baldini & Castoldi, e parte da una domanda al tempo stesso semplice e controversa: qual è la relazione tra capitalismo e salute mentale?

La tesi di Bifo è che le malattie mentali siano “storicamente e culturalmente determinate” e che queste possano provocare “reazioni inusitate, violentissime e atroci (…), ma ben spiegabili alla luce del funzionamento stesso del capitalismo contemporaneo.” Heroes è un libro molto cupo e mi verrebbe da dire disperato, il cui unico barlume di ottimismo sta nella “ironia distopica” che secondo l’autore dovremmo opporre a un potere i cui effetti sulle nostre vite sono riassumibili in plumbei concetti quali “solitudine”, “tristezza”, “disperazione”, e ovviamente “morte”.

Ho quindi telefonato a Bifo innanzitutto per farmi raccontare i motivi della sua posizione sui fatti milanesi del primo maggio, e poi per capire se—e come—questi vadano letti alla luce della sua ultima fatica letteraria.

VICE: Nel post sul primo maggio che hai pubblicato su Facebook dici tra le altre cose due cose molto chiare: “tremila teppisti hanno rovinato il banchetto, tutto qui.” E poi, qualche riga più sotto, “i giornali parlano di loro più che di Renzi, Armani e Bocelli. Come posso non essergliene grato?”
Bifo: E sono affermazioni che confermo senza tentennamenti. Ora, partiamo da cos’è Expo: lasciamo perdere per un attimo la corruzione, gli scandali, i ritardi… Expo è prima di tutto l’esposizione universale: un appuntamento che da 150 anni rappresenta un momento importantissimo nella definizione dell’avvenire della società e dell’umanità stessa, no? Perché vengono condensate le possibilità, le intuizioni, le novità che poi diverranno patrimonio comune. Quindi, cosa ci consegna l’Expo milanese del 2015? Quale è il suo messaggio per il futuro? Per prima cosa, l’idea di “nutrire il pianeta” attraverso la devastazione e l’indebitamento. Poi, la constatazione che le giovani generazioni sono a tal punto sole e socialmente umiliate, che possiamo anche farle lavorare gratis, e loro baceranno la mano che le sta sfruttando. Bene: io speravo che qualcuno interrompesse lo spettacolo, tutto qui. E qualcuno lo ha interrotto.

Però la reazione ai “tremila teppisti che rovinano il banchetto” è stata perlopiù di condanna, anche da parte di molte persone vicine a No Expo.
Ma io rispetto moltissimo il movimento No Expo, ho anche partecipato a tutti gli incontri di questa realtà e continuerò a farlo. Però non prendiamoci in giro: non c’è nessuna possibilità di fermare l’offensiva neoliberista con le buone intenzioni. La storia di un movimento come Occupy ci insegna che quella vicenda è definitivamente conclusa: non si tratta più di tentare un’azione “democratica” o addirittura “politica”, perché l’offensiva del neoliberismo non è né politica né democratica. È un’offensiva mortale, nel vero senso della parola. Quindi sì, possiamo continuare a vederci tra noi, a fare manifestazioni e a scambiarci parole consolanti… però in questo modo non succederà mai niente.

Pensi che una soluzione sia, non so, spaccare le vetrine?
Ma assolutamente no! Penso che le cose cambieranno soltanto nel momento in cui si metterà in moto un processo di autorganizzazione del lavoro cognitivo. Ma il vero problema è che intanto ci troviamo già in una fase di devastazione e di guerra, quindi capisci, arrivati a questo punto non provo più tanta tenerezza per il buon vecchio “movimento pacifico”, di cui pure faccio parte. Quella fase come ti dicevo è finita, forse è finita già 35 anni fa; poi sì, continuiamo pure a vederci e a fare i cortei, ma solo perché probabilmente è l’unico modo di mantenere un minimo di aggregazione umana.

In Heroes citi per l’appunto il fallimento di Occupy e parli di “movimenti che sono incapaci di liberarsi dal senso di colpa che il debito produce.” A quale senso di colpa ti riferisci?
Al mio, per esempio. O a quello di milioni di persone come me. Parlo di tutti coloro che si sono trovati di fronte alla violenza e al cinismo della finanza internazionale e che, a seguito di episodi come quello greco, si sono indignati. E l’indignazione è una bellissima cosa, no? Solo che purtroppo non serve a niente. Perché il potere con cui abbiamo a che fare si fonda sostanzialmente su due grandi parole d’ordine: tecnologia e disperazione. E allora, se non siamo capaci di impadronirci della potenza della tecnologia, se non sappiamo come governare questa intelligenza collettiva, l’effetto sarà uno soltanto: la disperazione psichica di massa.

È un punto su cui insisti anche nel tuo post su Facebook, quando dici che “la battaglia necessaria (e forse a un certo punto anche possibile) è quella che trasforma la potenza della tecnologia in processo di liberazione dalla schiavitù del lavoro e della disoccupazione.” E anche in Heroes, è un tema che ricorre con una certa frequenza. Qualcuno, nei commenti che ho visto in giro, vi ha scorto sfumature accelerazioniste, ma so che a riguardo sei abbastanza scettico…
Sì, assolutamente: sono molto scettico. L’accelerazionismo in realtà parte da una premessa giusta: e cioè che le condizioni per un’emancipazione sono già dentro al processo, e che dunque l’accelerazione di questo processo può produrre effetti di emancipazione. Per capirci: le condizioni per “nutrire il pianeta”, per ridurre il tempo di lavoro, e per vivere socialmente ed emotivamente in modo felice, sono già tutte dentro l’attuale organizzazione tecnica del lavoro cognitivo. Ma quello che l’accelerazionismo dimentica è la dimensione corporea, la carne, la concretezza psichica e affettiva entro cui questi processi si svolgono. In questo senso, l’accelerazionismo mi lascia molti dubbi.

Per tornare ai fatti di Milano: se parliamo di corpi, negli episodi del primo maggio di “corporeità” ce n’era parecchia…
Ecco, questo è un punto molto interessante, ricco e complicato, e faccio fatica a risponderti… Anche Occupy è stato un movimento “corporeo”, no? Cosa c’è di più corporeo che occupare una piazza? Per quanto riguarda le cosiddette tute nere di Milano: sono evidentemente molto incazzate, e hanno ragione di esserlo. Ma non credo che la loro sia una corporeità felice. Rappresentano semmai la sofferenza di una corporeità compressa, che per esprimersi non trova altro modo che la violenza. Vedi, io non faccio il giudice: cerco di capire. E quello che capisco è che nella violenza delle tute nere non c’è felicità: c’è la rabbia per non essere capaci di esprimere un’affettività in maniera collettiva.

Un parallelo che dopo i fatti di Milano è tornato con una certa frequenza, è quello coi riot di Baltimora. Pensi che, con tutte le differenze del caso, si tratti di eventi tra loro legati?
Io penso proprio di sì. Tanto per cominciare sfatiamo questa porcata detta da Renzi, secondo cui i protagonisti degli scontri di Milano sono “figli di papà”. Bene, come sociologo posso assicurarti che non è così. La stessa accusa la sentivo nel ’68 e nel ’77, e per quanto riguarda Renzi, lui i figli di papà li va a incontrare alle feste con Armani, mica in piazza. Comunque, per tornare a noi: io non credo in alcun modo che l’esplosione di violenza del primo maggio sia un’indicazione politica. Ma è il sintomo di una sofferenza che assomiglia moltissimo a quella dei neri americani. O crediamo forse che a Baltimora sia venuta fuori la linea politica del futuro?

Hai citato il ’77, ed è un altro parallelo che torna in un articolo de Gli Stati Generali, in cui l’autore lascia intendere che gli eredi del ’77 (e quindi, in generale, il movimento No Expo) adesso si ritrovano nella scomoda posizione di venire a loro volta “sabotati dai Black Bloc”. Al di là di questa lettura, mi chiedo se vedi assonanze con quanto il ’77 è stato, visto che di quel movimento sei stato uno dei riferimenti. Fermo restando che le dimensioni sono molto diverse…
Innanzitutto, l’estensore di quell’articolo è molto male informato: tutti i settantasettini che ho sentito tra ieri e oggi non si sentono affatto scavalcati dal Black Bloc, non è proprio questo il punto. Per quanto riguarda le assonanze col ’77: be’, è stato senz’altro un movimento a due facce. Da una parte fu il punto d’arrivo dell’utopismo, della speranza di ispirazione marxista ma anche di quella hippie, della controcultura e così via. Ma poi c’era anche la faccia di Sid Vicious, del “No Future”, della violenza armata, dell’eroina, una faccia insomma disperata. E oggi mi pare che viviamo nella lunga coda della disperazione post-punk: a delineare l’orizzonte, è prima di tutto il senso di un’assenza di futuro.

La lezione del ’77 viene anche ripresa in un altro articolo che è molto girato, quello in cui Christian Raimo ti accusa di “pensare il suicidio e la depressione come una sorta di boicottaggio, di auto-sabotaggio nei confronti di una società turbo-capitalista.” Il riferimento è più a Heroes che ai tuoi commenti sul primo maggio, e so che a Raimo hai già risposto…
Ma scusa, io in Heroes dedico un intero capitolo, l’ultimo, a smentire ogni possibilità che qualcuno possa interpretare il libro come un invito romantico o nichilista al suicidio. Col cavolo! Io parlo del suicidio come un sintomo, e provo a ragionare non come giudice, ma come medico. E compito del medico è interpretare il sintomo per poi guarire le radici della malattia, punto. Prendi per esempio il raffreddore: può essere sintomo di influenza, no? Tu hai mai visto un medico che invita un paziente a prendersi il raffreddore? Dal mio punto di vista l’onda suicidaria di questi ultimi anni è il sintomo di un esaurimento culturale e psichico che attraversa la società. Certo non mi metto a esaltare il sintomo come se mi facesse piacere se la gente si impicca.

Per chiudere: il primo maggio è passato e il movimento No Expo dovrà comunque andare avanti. Che idea ti sei fatto a proposito? Come andranno a incidere gli eventi del primo maggio da qui a sei mesi? E pensi che si possano verificare altri episodi simili?
Non credo che ci saranno nuovi episodi di violenza: posso sbagliarmi, ma non mi pare che sia nello spirito. Molto semplicemente questi qua, questi miei amici e compagni vestiti di nero, hanno fatto quello che volevano, hanno comunicato la loro rabbia e se ne sono tornati a casa, fine. E allora adesso? Io tornerei da dove avevamo cominciato: l’Expo, il concetto di esposizione universale. Che è sempre stata un momento di riflessione su ciò che di buono ci può riservare il futuro.

E allora dai, andiamo in questa direzione: facciamo dell’Expo l’occasione per ragionare sul modo in cui l’umanità potrà nutrirsi senza subire il ricatto delle grandi corporation, e su come è possibile riappropriarci della potenza tecnica di cui noi stessi siamo produttori. Sempre nell’interesse della maggioranza dell’umanità, dando lavoro a tutti e riducendo il tempo di lavoro di tutti. Questo è il contributo positivo che dovremmo cercare di dare. Io non mi chiamo No Expo, non mi identifico con quella definizione: per me, nella migliore tradizione dell’esposizione universale, l’esposizione universale siamo noi, non Monsanto.

Valerio Mattioli

Fonte: www.vice.com

Link: http://www.vice.com/it/read/intervista-bifo-scontri-no-expo-milano-616

4.05.2015

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