COME MUORE UN'AZIENDA

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DI ROMOLO BUGARO

ilprimoamore.com

Il volto concreto della crisi delle aziende piccole e medio piccole, così diffuse nel Veneto e nel Nordest, è molto diverso da quello che si potrebbe immaginare. Niente uffici in disarmo, con impiegati amministrativi (i pochi rimasti) che guardano sconsolati i telefoni muti. Niente capannoni semiabbandonati, con operai (i pochi rimasti) che si aggirano smarriti fra macchinari fermi per mancanza di ordini. Niente piazzali di carico e scarico deserti, senza camion né furgoni che trasportano merce.

Al contrario, l’attività delle imprese di costruzioni, delle officine meccaniche e delle ditte di autotrasporto stritolate dagli impegni e dalle scadenze, ferve più che mai. Gli impiegati, tutti ancora in forza, corrono come pazzi da un ufficio all’altro reggendo fascicoli e chiavette e contratti da controfirmare. I macchinari lavorano a pieno regime, anzi la proprietà continua a chiedere ore di straordinario per far fronte agli ordini dei clienti. I camion entrano ed escono a ciclo continuo dai piazzali, caricando e scaricando molto oltre il normale orario di lavoro, spesso fino a notte alta.

Sembra la più grande delle contraddizioni, eppure non lo è. Le cose, a dispetto del più consolidato immaginario collettivo, funzionano esattamente così. E la ragione è tanto semplice quanto drammatica. Un’azienda può entrare in crisi per molte ragioni. La riduzione della propria quota di mercato (seppur piccola o minuscola) dovuta all’ingresso di nuovi competitors. L’aumento dei costi dovuto alle fluttuazioni delle materie prime oppure delle lavorazioni di filiera. L’obsolescenza delle tecnologie. Qualunque sia il motivo, la difficoltà economica prima o poi genera tensione finanziaria. I ricavi diventano insufficienti per pagare i costi. Pian piano il debito cresce, producendo interessi sempre maggiori. Diventa impossibile fronteggiare le rate dei finanziamenti, i canoni dei leasing. Anche le linee di finanziamento autoliquidanti si paralizzano, perché le banche, allarmate dai continui sconfinamenti, non accettano più di erogare anticipi. Per andare avanti, per restare sul mercato, l’azienda ha un disperato bisogno di soldi, di finanza. Serve per pagare gli stipendi, i fornitori, il fisco strettamente indispensabile. Ogni giorno diventa una battaglia sfibrante contro mille scadenze che si accavallano, si sovrappongono.

È esattamente a questo punto che si produce l’effetto paradossale dell’esplosione degli ordini, delle commesse, con impiegati sommersi dalle incombenze e operai che lavorano anche di notte. Accade perché, arrivata al punto più incandescente della tensione, si produce una sorta di salto di quiddità. L’azienda comincia a lavorare sottocosto. Si firmano contratti non convenienti, non remunerativi. Si accetta di produrre o vendere a cento qualcosa che costa centodieci, centoventi – o centocinquanta. Si sceglie questa strada nel nome del piccolo anticipo immediato che rappresenta una boccata d’ossigeno assolutamente necessaria. O nel nome della possibilità di scontare un altro contratto, un’altra fattura, presso l’ultima banca ancora disponibile. Si sacrifica il lungo periodo (e anche il medio) al breve o brevissimo, per restare in vita un giorno di più.

Naturalmente è una scelta distruttiva. Come bere l’acqua salata del mare per placare una sete terribile. Il sollievo immediato produce un’intossicazione più grave, di fatto senza ritorno. Tuttavia, lo schema più diffuso è questo. Il dramma e custodito in pochi files dentro pochi computer esclusi dalla rete interna. Operai e fornitori sono convinti che tutto vada bene. Gli straordinari sono continui e si lavora anche di notte!

La fine arriva all’improvviso, letteralmente dalla mattina alla sera. Un fornitore esasperato ottiene un decreto ingiuntivo e iscrive l’ipoteca. Una banca passa la posizione a sofferenza. La Centrale Rischi presso Bankitalia “vede” l’informazione e la immette nel sistema. In quell’esatto momento la società si disintegra. Nel giro di pochi giorni, addirittura di poche ore, qualsiasi liquidità si blocca, si azzera. Niente più soldi per pagare fornitori o stipendi o semplici bollette. Il crash di ogni speranza, di ogni prospettiva. Naturalmente non va sempre così. Le aziende più gradi e strutturate, dotate di un controllo di gestione migliore, reagiscono in modo più rapido e consapevole. Tentano manovre correttive. Ma qui stiamo parlando di piccole aziende, piccoli imprenditori. Gente che spesso ha cominciato a lavorare a quindici anni, spezzandosi la schiena in fabbrica o in cantiere, e poi s’è messa in proprio. I classici imprenditori di prima generazione. Rimproverare a questi uomini di non aver saputo fermarsi in tempo è assolutamente giusto e al tempo stesso piuttosto sterile. Nella maggior parte dei casi, non si sono fermati perché speravano che, nel breve intervallo di sopravvivenza in più, arrivasse qualcosa in grado di salvarli. Un grosso ordine, un contratto dalla marginalità elevata. Raramente è successo e tutto è crollato.

Un pezzo della storia della crisi italiana può essere letta anche così. Uomini che bevono l’acqua del mare, sperando di sopravvivere un giorno di più.

Romolo Bugaro

Fonte: www.ilprimoamore.com

Link: http://www.ilprimoamore.com/blogNEW/blogDATA/spip.php?article3379

15.09.2015


Pubblicato sul “Fatto quotidiano”, agosto 2015.

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