BIRDMAN OVVERO L'UMANITA' IN PICCHIATA

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DI HS

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Riggan Thompson è un uomo fallito, un padre assente e un attore di dubbia capacità che ha goduto del suo momento di celebrità vestendo i panni del solito fumettistico supereroe nella sua gioventù. Dovendo fare i conti del bilancio della sua vita privata e professionale decide di realizzare per il teatro una personale trasposizione del “What we talk about when we talk about love” di Raymond Carver.

La prova del fuoco per un attore che veramente si rispetti, tuttavia non è ben chiaro che cosa spinga il protagonista a fare un passo impegnativo. Vuole forse mettere in mostra insospettate e nascoste doti di attore sensibile e impegnato ? Vuole dimostrare a sè stesso di essere riuscito a fare qualcosa di veramente valido e importante nella sua vita ? Vuole conquistare un amore autentico da parte degli altri o l’ammirazione di un pubblico che si suppone più colto e sofisticato ? Vuole finalmente scrollarsi di dosso i panni dell’ingombrante supereroe che in gioventù gli donò fama e ricchezza ? Quello che sappiamo con certezza seguendo Thompson è che l’uomo è assolutamente squinternato, uno psicotico perseguitato da una voce che lo martella a tamburo battente per convincerlo che la sua è un’impresa disperata…

Anche se sicuramente in “rete” sono stati resi noti lo sviluppo della trama e la conclusione di questa storia perturbante e singolare, noi non ci concederemo il lusso di aggiungere alcunchè sulla pellicola di uno dei più talentuosi registi contemporanei, il messicano Alejandro Gonzalez Inarritu (“21 grammi”, “Babel”) se non che l’allestimento teatrale del protagonista andrà incontro ad esiti inattesi dopo una serie di sorprese e colpi di scena. Lo stesso finale si carica di ambiguità, simbolismi e interpretazioni…

Giustamente Hollywood ha ben meritato anche la fama di efficace e costosa macchina propagandistica spettacolare celata dalla maschera del “divertissement” così come la notte degli Oscar ne celebra i fasti e l’artificioso mito. Eppure difficilmente si può contestare a “Birdman (o l’insospettabile virtù dell’ignoranza)” di aver meritato i premi per il miglior film, per la miglior regia, per la miglior sceneggiatura originale e per la splendida fotografia di Emmanuel Lubezki. Per una volta si può ben dire che a Los Angeles è entrata una ventata di aria fresca perchè, a parere del sottoscritto, “Birdman” si colloca a due passi dal capolavoro onorando quel cinema con la C maiuscola ormai prerogativa di pochi artisti. Il tutto a partire dalla cifra stilistica del film racchiusa – oltre che – ribadisco – dalla grande qualità di una fotografia ricca di toni e sfaccettature – nell’interminabile successione di piani sequenza che, seguendo i tormenti e le angosce esistenziali del protagonista, ci proiettano direttamente sulla scena in una danza apparentemente caotica e confusa in cui realtà e finzione, onirico e tangibile si intrecciano e si sovrappongono spiazzandoci e sorprendendoci. Tuttavia non appaia tutto ciò un vezzo stilistico e formale o un virtuosistico e narcisistico esercizio di talento visivo e visionario, perchè “Birdman” è una di quelle opere in cui forma e contenuto si fondono perfettamente e in maniera tortuosamente armonica.

La MDP – fra piani sequenza e ammirevoli ed acrobatiche evoluzioni – ci accompagna, mano nella mano nella mano, sulla strada del folle e memorabile protagonista – un Michael Keaton che, comunque, avrebbe ben meritato la statuetta – attanagliato da un’angoscia sicuramente molto contemporanea. A parere del sottoscritto sbaglierebbe chi considerasse “Birdman” la parabola di un attore decaduto in cerca di riscatto artistico e di una fama rinnovata, perchè nello sviluppo narrativo lo spettatore scopre di essere lui stesso l’autentico protagonista del film.

Come spesso accade il linguaggio dell’arte e dello spettacolo si scopre più efficace delle millanta parole di saggi sociologici e antropologici: sostanzialmente “Birdman” non è una riflessione sulla fama e sulla miseria dello star system, ma un manifesto preciso e meditato sullo spettacolo e sull’arte e, in definitiva, sulla nostra vita nel tempo della postmodernità. Come si sottolineava poc’anzi, l’insistenza ossessiva sulla tecnica del piano sequenza abbatte tutte le barriere così come un’onnipresente, pervasiva e onnipotente società dello spettacolo e “mediatizzata” si è ormai insinuata nelle pieghe delle nostre esistenze da imbrigliarle e trasformarle irrimedibilmente. La multimedialità contemporanea si fa calderone in cui nulla si distingue: teatro, cinema, social network, giornali, videogames… Tutto si trasforma in un immenso inesauribile palcoscenico in cui sono al centro le nostre vite ormai distorte. Non è certamente un caso se Inarritu mette in scena una schiera di personaggi – tutti interpretati in maniera eccelsa – ormai alla deriva, con una vita privata a pezzi e condannati a interpretare una parte “sbagliata”.

L’angoscia di Thompson diventa nostra perchè la dissoluzione del reale nell’incessante finzione e virtualità diventa caduta libera, in picchiata, nel precipizio del Nulla. La follia del protagonista – nonostante il suo status di ex star hollywoodiana – rimane appiccicata sulla nostra pelle, come sottolinea l’ambiguo finale, insieme “scontato” e imprevisto…

Anche il dilemma estetico – la morte dell’arte e della creatività in un mondo forzato ad indossare la camicia banalizzante e livellatrice dei media – c’è tutto, ma si pone al servizio del dilemma esistenziale di quest’opera insieme amara, tragica e grottesca. Fra i personaggi minori c’è una critica teatrale che nella sua prosopopea intellettualistica e nel suo pregiudizio culturale si condanna a non capire, prigioniera com’è delle proprie etichette e delle proprie certezze.

Così “Birdman” si impone anche come una piacevole e sorprendente contraddizione: nel mondo della “pazza” mediocrità ed idiozie indotte dallo “spettacolo onnipresente” il grande cinema è ancora possibile…

Saluti

HS

Fonte: www.comedonchisciotte.org

23.02.2015

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