ANAMORFOSI DELLO “SPREAD”

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(Globalizzazione finanziaria, guerre valutarie e tassi di interesse dei debiti sovrani)

DI GIUSEPPE DI GASPARE

LUISS

1.
L’anamorfosi, una prospettiva deformante

L’“anamorfosi” costituisce una tecnica di raffigurazione di un oggetto secondo una prospettiva diversa da quella centrale, in modo che l’oggetto principale venga rappresentato in una prospettiva appositamente deformata che lo nasconde.

In questo senso, attraverso la focalizzazione univoca della prospettiva sullo spread tra i titoli del debito pubblico dei Paesi dell’Eurozona, si è ottenuto l’effetto di distogliere l’attenzione dell’opinione pubblica dall’oggetto principale costituito dall’andamento del tasso di interesse.

La tesi qui sostenuta, in quanto contrasta con la prospettazione assolutamente predominante del ruolo di indicatore fondamentale riconosciuto unanimemente allo spread, richiede pertanto al lettore una consapevole correzione del punto di osservazione per staccare lo sguardo dallo spread – cioè la differenza tra i tassi – e rimetterlo, invece, a fuoco centralmente sull’oggetto principale è cioè sull’andamento dei tassi di interesse. Cambiando prospettiva lo sguardo si apre su un diverso scenario incentrato sul nesso di dipendenza causale tra il tasso di interesse ed i flussi monetari speculativi, da e verso l’euro, correlati a loro volta essenzialmente all’andamento del tasso di cambio dollaro/euro.

Nel passare da un ordine di causalità interne, cui lo spread rinvia, ad un ordine di causalità esterne basato sul tasso di cambio dollaro/euro, e conseguentemente sugli effetti delle fluttuazioni monetarie derivanti dalle
guerre valutarie, la difficoltà maggiore che si incontra è data dal fatto che il richiamo allo spread connette la causa dell’andamento negativo o positivo del costo del servizio del debito a fattori politici ed economici interni facilmente constatabili empiricamente da tutti. Attribuire, invece, le variazioni del costo del debito pubblico a cause esogene come i flussi monetari speculativi ( carry trade del dollaro e ora di nuovo anche dello yen ) appare, di primo acchito, poco plausibile se non addirittura un improvvido tentativo di deresponsabilizzazione.

Nella consolidata linea di ragionamento sullo spread, i fondamentali
strutturali ed economico-finanziari dei vari Paesi e le vicende congiunturali,
come la credibilità e le politiche dei Governi nazionali, sarebbero la causa
prima e sostanzialmente unica dell’aumento o della diminuzione del costo dei
diversi debiti pubblici. Da qui, appunto, la scelta della Germania come
virtuosa “pietra di paragone”. In questo modo la prospettazione anamorfica,
imputando il costo del servizio del debito pubblico alle politiche economiche positive
o negative di ogni singolo Stato, risulta in linea con la percezione come
intuitivamente condivisibile ed, in questo senso, mette fuori quadro e fa da
velo alla comprensione della prevalente incidenza sull’andamento del tasso di
interesse del debito pubblico dei fattori esogeni di natura finanziaria:
le fluttuazioni monetarie e le connesse speculazioni sui tassi di cambio e sui
tassi dei debiti pubblici.

Per
contrastare il punto di vista interno che conduce alla cosiddetta “dittatura
dello spread”, nel ragionamento che ho sviluppato nel saggio, si è fatto
ricorso ad una rilettura dei grafici alla luce della prospettiva
globale
degli investimenti, in valuta o in titoli, da parte della
speculazione finanziaria, comparando l’andamento dello spread e dei
tassi di interesse sul debito a quello del cambio dollaro/euro.

2.
Tassi di interesse sul debito e tassi di cambio dollaro/euro

Invertire
l’ordine di causalità nella crescita del debito pubblico, riconoscendo la
prevalenza delle cause speculative esogene rispetto a quelle politico-economiche
endogene, conduce, evidentemente, ad un ricettario diverso per uscire dalla
crisi che mette in prima linea il contrasto della speculazione finanziaria.

La
convinzione che la riduzione o l’aumento dello spread sia dipeso e
dipenda principalmente dall’azione del Governo italiano è fortemente radicata
nell’opinione pubblica ed è sostenuta di un pensiero finanziario unico.

Ma
come è stato possibile che lo spread sia sceso e abbia continuato a
scendere – intorno a 260 punti – nonostante il Governo Monti fosse
dimissionario, l’affidabilità del Governo italiano vacillava al centro di uno
scontro politico-elettorale in cui la nostra classe politica dava il “meglio di
sé”, il debito pubblico aumentava di circa 100 Mld di euro e anche il rapporto
tra Pil e debito pubblico segnava un ulteriormente peggioramento, mentre sulla
sponda del Reno si affacciava una Merkel trionfante e in forte recupero di
consensi, con un Pil in crescita ed un debito pubblico in effettivo
contenimento. Ciononostante lo spread scendeva.

Si potrebbe gridare al miracolo?

In realtà la domanda da porsi è la seguente: cosa è che, a partire dal terzo trimestre del 2012, sta spingendo la liquidità monetaria verso (anche) i nostri Btp, facendo salire la domanda di titoli di Stato italiani in modo tale da abbatterne il costo, determinando di conseguenza anche la diminuzione dello spread
tra Bund e Btp decennali, nonostante il peggioramento di quei fattori critici che, secondo la vulgata dominante, avrebbe dovuto spingere in alto lo spread?

Dovrebbe
apparire chiaro che la risposta a tale quesito, prescindendo completamente
dalla “forzata correlazione” dei titoli di debito di Italia e Germania, vada
più correttamente ricercata in un fattore esogeno agli stessi e che
incide su entrambi condizionandone l’andamento.

Nella
sostanza, la ragione della parabola discendente dello spread è che la
domanda dei titoli di debito pubblico espressi in euro (quindi di tutti gli
Stati membri dell’Eurozona) dipende, in prima battuta ed essenzialmente, dal
cambio del dollaro che si svaluta nei confronti dell’euro.

3. Il carry trade sul dollaro.

Se
il cambio del dollaro scende rispetto all’euro – come è avvenuto nuovamente
dal settembre 2012 – si innesca una aspettativa negativa sulla debolezza
del dollaro che, a sua volta, riattiva il carry trade su quella moneta.
Si ripete il fenomeno che si era determinato a partire dal 2002 – e che era
andato accentuandosi in maniera rilevante nel periodo 2006-2008– del
deprezzamento del 40% del cambio del dollaro sull’euro (cfr. figura 1) come
conseguenza dell’intervento della FED che, immettendo liquidità in eccesso ed a
basso costo per sostenere la leva del debito nel mercato finanziario, aveva
determinato la continua svalutazione del dollaro. La speculazione finanziaria,
con un dollaro che perde al cambio con l’euro, ha infatti convenienza ad
indebitarsi in dollari per investire in euro, dato il bassissimo tasso di
interesse praticato dalla FED, lucrando così sul differenziale del cambio e sul
tasso di interesse dei titoli di Stato “europei”, aventi rendimenti più elevati
di quelli dei titoli americani. In altri termini, il carry trade, solo
temporaneamente tamponato, con “l’attacco all’euro” nel 2010, si sta
manifestando nuovamente.

Contenerlo
in costanza di una politica monetaria espansiva da parte della FED, infatti, è
una impresa non semplice.

Per
capire la difficoltà in cui si imbatte la FED nel cercare di tenere sotto
controllo il carry trade sul dollaro, bisogna richiamare l’attenzione su
alcuni profili particolarmente critici del contesto di riferimento: l’imponente
dimensione della massa monetaria
espressa in dollari – che rappresenta
circa i 2/3 della liquidità monetaria mondiale – e la natura dei suoi
detentori
i quali si trovano più al di fuori che dentro gli USA, sono global
player
del “meta mercato finanziario” che, in tale ambito, agiscono
essenzialmente come battitori liberi”.

La
percezione dello stabilizzarsi di un trend negativo sul cambio della
valuta statunitense continua a fare inclinare il piano di questa ondeggiante
massa monetaria espressa in dollari. L’investimento è orientato in particolare
verso l’euro ed alimenta così ulteriormente le aspettative della speculazione “contro
la moneta americana. Ne consegue che, nella scelta di chi si allontana da un
dollaro percepito in indebolimento, gli investimenti in euro si rafforzano in
generale – ed è così che anche le quotazioni del mercato azionario
nell’Eurozona mostrano nel complesso un andamento positivo.

Gli
afflussi monetari in entrata accrescono le disponibilità in dollari e creano un
surplus monetario nell’Eurozona. La BCE è in grado intervenire con
maggiore facilità e, a questo punto, dopo le dichiarazioni del suo Presidente
M. Draghi – che sono state una specie di contro bluff vincente – sulla
intenzione della Banca Centrale di fare «tutto il necessario per proteggere
l’euro
», scommettere al ribasso sull’euro diventa più rischioso per la
speculazione, che non ama perdere e corre in soccorso al vincitore.

Se,
dunque, non sono percepiti rischi di insolvenza nei titoli dell’Eurozona ed
anzi l’euro in rafforzamento ne allontana la prospettiva, le emissioni di
titoli di Stato in tale valuta, anche quelle degli Stati con i rating
più bassi (ed in barba alle stesse valutazioni delle agenzie specializzate)
divengono “appetibili” in quanto corrispondono interessi più elevati per
una liquidità in dollari che cerca investimenti speculativi approfittando della
– e, al contempo, coprendosi dalla – svalutazione della moneta USA.

Tali
dinamiche determinano, dunque, una diminuzione generalizzata – anche se
differenziata – dei tassi di interesse del debito pubblico dell’Eurozona. Il miracolo
della riduzione dello spread si spiega semplicemente con la legge della
domanda e dell’offerta che, in presenza di una eccessiva liquidità in dollari
in cerca di investimenti finanziari, erode il cambio della valuta USA.

E
così il miracolo è continuato anche dopo il sorprendente – e
paralizzante – risultato elettorale italiano di fine febbraio. Lo spread,
infatti, non è risalito in modo significativo, nonostante le obbiettive
difficoltà in cui versa il Paese, il quadro politico incerto, la minaccia
reiterata di downgrading di Moody’s e quello intervenuto da parte di
Fitch ed i clamori mediatici sulla catastrofe finanziaria ed economica
incombente, a conferma della dipendenza dell’aumento dei tassi di interesse
soprattutto da cause esogene. Verrebbe anzi da chiedersi se il pur contenuto
innalzamento dello spread (tra i 340/320 punti ma ora nuovamente sui
300) si sarebbe verificato in questi termini senza l’insistenza mediatica sullo
stesso.

Ad
ogni modo, lo spread è rimasto sempre di gran lunga sotto la soglia di
372 salutata come la svolta salvifica che aveva fatto seguito al discorso del
Presidente della BCE sulla difesa dell’euro di fine luglio 2012. Sembrerebbe
quasi che l’idolo irato dei mercati finanziari, sempre pronto a punirci al minimo
fallo, si sia improvvisamente placato.

Sull’innalzamento,
comunque contenuto, dei tassi del debito pubblico, non solo italiano,
dell’ultimo mese, ha pesato, in maniera rilevante, la maldestra gestione della
crisi bancaria di Cipro che ha riproposto lo schema “ Ponzio Pilato”, già
sperimentato con scarso successo per la Grecia, in base al quale incerti
organismi UE/UEM si defilano, lasciando il FMI a dettare le onerose condizioni
del salvataggio per la concessione del prestito europeo al quale lo stesso FMI,
in definitiva, partecipa in una misura sostanzialmente marginale e con un
prestito a medio termine di un Mld di euro.

L’incerta
governance UE/UEM, incapace di gestire autonomamente crisi finanziarie
circoscritte, nonché il lesto prelievo forzoso nei depositi privati nelle
banche cipriote si è indubbiamente ripercosso sui flussi di liquidità verso
l’euro – molto di più della nostra tormentata crisi post-elettorale – come del
resto attesta il coincidente leggero indebolimento del cambio dell’euro ora appena
sotto la parità di 1,30 sul dollaro.

Ciononostante,
il tasso di cambio tiene e tengono così anche i tassi di interesse sui debiti
periferici, fra i quali quello italiano sceso nuovamente sotto la soglia di 330
punti, a conferma che il tasso di interesse sul debito dipende soprattutto
dalla persistenza di un’offerta di liquidità in dollari, e ora anche in yen,
che si sposta verso gli investimenti nell’Eurozona.

4.
Un punto di vista contro intuitivo ai grafici sullo spread.

Nella
parte finale del saggio si sottopone questa tesi a un riscontro con i dati
rielaborati graficamente relativi al tasso di cambio e tasso di interesse sul
debito dei principali Paesi dell’Eurozona nel periodo 1999-2013.

Il
primo grafico mostra l’andamento del cambio dollaro/euro nel periodo gennaio
1999-marzo 2013:
in
una prima fase, l’andamento del tasso di cambio è negativo ma solo virtuale, in
quanto risultante dalle negoziazioni su strumenti finanziari (futures ed
altri quotati sul Forex). La tendenza alla svalutazione si arresta quasi
subito con l’entrata in circolazione dell’euro che apre a una seconda fase
complessivamente caratterizzata dall’espansione della liquidità monetaria
espressa in dollari (effetto del Greenspan put e del Bernanke put)
che innesta il carry trade sul dollaro il quale, a sua volta, rafforza
il trend negativo sulla valuta americana nei confronti dell’euro. Dal 2008 si
registra un’inversione di tendenza, con l’euro che si svaluta sul dollaro con
l’emersione della crisi dei derivati nelle banche dell’Eurozona e la successiva
estensione della crisi ai debiti sovrani. Il trend negativo sull’euro con
andamento altalenante interrompe all’inizio del terzo QE della FED nel terzo
trimestre del 2012 con un recupero dell’euro che si stabilizza intorno a 1,30 sul dollaro.

Prima
di passare ad esaminare la correlazione inversa tra andamento del cambio
dollaro/euro e tassi di interesse sui debiti pubblici dell’eurozona nello
stesso arco temporale ci si sofferma sul periodo va dal secondo trimestre 2008
fino al terzo trimestre 2012, per evidenziare meglio l’effetto delle politiche
di immissioni di liquidità, effettuate sia della FED sia della BCE, sul
rapporto di cambio a seguito dell’emersione della crisi subprime
nell’Eurozona. L’andamento a denti di sega del grafico in questo periodo è
imputabile essenzialmente ai movimenti di liquidità dal dollaro all’euro e
viceversa. Sono contrassegnate con dei punti le cadute del cambio del dollaro,
che si collocano esattamente in corrispondenza del primo, secondo e terzo QE
della FED. I cedimenti del cambio dell’euro avvengono poco dopo la scadenza dei
programmi di QE e in concomitanza con le “immissioni non fisiologiche di
liquidità” da parte delle BCE.

Con
il terzo QE, nel terzo trimestre del 2012, l’andamento a denti di sega del
rapporto di cambio si arresta. Il programma di acquisto di titoli incagliati
nei bilanci delle banche di investimento americane, per un importo mensile di
85 mld di dollari messo in atto dalla FED a tempo indefinito, innesca l’attuale
tendenza rialzista a favore dell’euro, che stabilizza una ripresa del carry
trade
sul dollaro verso gli investimenti in titoli espressi in euro e la
conseguente discesa dei tassi di interesse sui debiti pubblici in euro nello stesso periodo.

In
un terzo grafico si illustra la correlazione inversa tra tasso di cambio
dollaro/euro e tasso di interesse dei debiti sovrani espressi in euro sempre
nel periodo gennaio 1999- marzo 2013, per cui, al crescere del primo il secondo
scende e viceversa.
Con
l’entrata in circolazione dell’euro i tassi sui diversi debiti sovrani tendono
a omologarsi ed a rimanere stabilmente bassi per tutto il periodo in cui il
cambio dell’euro rimane elevato (dal 2002 al 2008) con flussi di dollari verso
l’Eurozona (carry trade sul dollaro). I tassi di interesse sul debito
tendono, invece a divergere, unitamente all’inversione di tendenza nel cambio a
favore del dollaro, a seguito dell’emersione della crisi di derivati nelle
banche dell’eurozona. Con l’avvio dell’attacco al debito greco, si innesca il
progressivo innalzamento dei tassi di interesse dei debiti sovrani espressi in
euro per effetto del suo ulteriore deprezzamento sul dollaro. Anche in questo
caso, come avvenuto dieci anni prima in occasione dell’entrata in circolazione
dell’euro, l’attacco è stato anticipato con operazioni mediatiche e utilizzando
strumenti finanziari quotati su mercati dell’anglosfera e dunque “senza
andare in valuta
”. L’attacco è proseguito con vendite allo scoperto
aggredendo “l’euro carciofo” ad iniziare dai debiti dei paesi marginali come la
Grecia. In corrispondenza dell’avvio del terzo QE della FED e della ripresa
dell’euro sul dollaro anche i tassi dei debiti pubblici in euro manifestano una
tendenza al riallineamento al ribasso e, conseguentemente, anche lo spread
tra gli stessi si riduce. Come risulta evidente è il rapporto di cambio con il
dollaro che influenza, anche in questa ultima fase, i tassi di interesse sul
debito pubblico nell’Eurozona.

Nell’ultimo
grafico, si fornisce un punto di vista contrastante con l’effetto illudente
dall’anamorfosi dominante della relazione tra lo spread dei Bonos
e dei Btp le cui variazioni sono attribuite, dal pensiero unico finanziario, al
diverso andamento delle variabili endogene nei due Paesi.
Se ora riportiamo la linea tendenziale del cambio dollaro/euro e la compariamo con l’andamento del tasso di interesse sui debiti sovrani (in bond decennali) nello
stesso periodo (gen. 1999-mar. 2013) è possibile visualizzare l’evidente correlazione
tra apprezzamento dell’euro sul mercato dei cambi e riduzione dei tassi di interesse nei debiti dell’eurozona.

Giuseppe Di Gaspare

Professore ordinario di Diritto dell’economia presso
la LUISS G. Carli di Roma –
[email protected]

Estratto dal saggio pubblicato su: http://docenti.luiss.it/digaspare/globalizzazione-e-crisi-finanziaria-approfondimento/

Link al pdf: http://docenti.luiss.it/digaspare/files/2012/01/GDG_Spread_III-vers.pdf

Aprile 2013

La riproduzione è consentita se accompagnata dalla citazione dell’autore e della fonte.

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