ADDIO, MIA AMATA ARMATA

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Dov’è finita la gloria dell’Armata rossa? Mutilati e mendicanti in divisa a Mosca. Violenze e denunce nell’esercito. Ma la gente non perde affetto e stima per gli uomini che servono la patria
L’ex capitano K. passa le sue giornate in piedi, immobile, nel bel mezzo della Piazza Rossa, davanti al Mausoleo di Lenin, coperto davanti e dietro da grandi cartelli con il racconto della sua disgrazia, i documenti protetti con il cellophane che comprovano l’ingiustizia di cui è oggetto, le accuse roventi contro le autorità, a partire da quelle che abitano le rosse mura lì davanti

DI ASTRIT DAKLI

«Stimati passeggeri!», esordisce di colpo la voce tonante, in mezzo alla folla. Ci vuole un po’ per capire da dove viene: poi si vedono dei movimenti, persone che cercano come possono di scostarsi, guardando in basso. E appare il padrone della voce. Sembra piccolo, incastrato com’è in una seggiolina a rotelle per bambini, ma dev’essere un ragazzone abbastanza alto. Gli manca una gamba, e sul suo trabiccolo si fa strada molto faticosamente tra le duecento persone in piedi nell’ultimo vagone della metropolitana, furiosamente in corsa alle sei di sera fra le stazioni Taganka e Kurskaja, sulla linea anulare che circonda il centro di Mosca. «Sono un sottufficiale del reggimento XY», dice con una rapida litania, «ferito in Cecenia e lasciato senza indennità e senza pensione. Per favore aiutatemi». Gli stimati passeggeri ci provano, e mentre passa arrancando sono in molti che gli allungano monete – cinquanta copeche, un rublo, anche dieci rubli. Dieci rubli sono poco più di venticinque eurocentesimi, ma sulla metropolitana di Mosca non ci sono magnati del petrolio: c’è gente normale, che guadagna appena quel che basta per sopravvivere – uno stipendio pubblico raramente va oltre i centocinquanta euro al mese. La microstoria che il ragazzo – avrà sì e no trent’anni – ripete in ognuno dei vagoni gremiti può essere vera o no, non ha importanza: quel che conta è che è una storia verosimile e tutt’altro che rara. Tant’è che la gente ci crede subito, e aiuta.
Quando ci passa accanto abbiamo uno scatto da avvoltoi, e mentre gli diamo i nostri dieci rubli gli chiediamo se possiamo fargli una foto. Lui si ferma perplesso, chiede giustamente perché, cosa ce ne faremo, poi fa un sorriso timido e dice «meglio di no, grazie». Sa che la vita non ha esaurito il campionario di sgradevolezze riservate a lui, e che una fotografia su un giornale, perdipiù straniero, può procurargliene altre.
Non ha gli stessi timori l’ex-capitano K., che alla nostra domanda, preceduta dai soliti dieci rubli, risponde gridando: «Non `potete’, dovete! Fatemi tante foto, pubblicatele da tutte le parti, dite la verità su di me!» e prosegue con un fiume di parole inarrestabile. Che l’ex-capitano K. non abbia paura è del resto evidente, dato che passa le sue giornate in piedi, immobile, nel bel mezzo della Piazza Rossa, davanti al Mausoleo di Lenin, coperto davanti e dietro da grandi cartelli con il racconto della sua disgrazia, i documenti che comprovano l’ingiustizia subita, le accuse roventi contro le autorità, a partire da quelle che abitano dietro le rosse mura lì davanti.

Non è stato ferito in battaglia l’ex-capitano K., diciassette anni di servizio nella regione di Stavropol, retrovia della guerra caucasica, ma colpito da una malattia invalidante che lo ha reso zoppo e che – intuiamo ma non riusciamo a capire esattamente in che modo – è stata causata dal suo lavoro in certi servizi logistici dell’esercito. Il quale esercito, a quel che pare, lo ha mandato a casa e rifiuta da tre anni di pagargli la pensione e le cure di cui ha bisogno. Da un anno e mezzo, esaurite le vie normali per chiedere giustizia, l’ex-capitano K., in divisa e coperto dai suoi cartelli, comprendenti una serie di documenti fotocopiati e protetti dal cellophane, si va a piazzare ogni giorno davanti al Cremlino per portare avanti la sua muta protesta, dalle otto del mattino alle otto di sera. Un po’ davanti al Mausoleo, un po’ davanti alla porta della torre Spasskaja da dove entrano i visitatori, un po’ davanti alla porta della torre Borovitskaja da dove entrano boss e funzionari.

«Il presidente è il mio superiore in linea diretta, in base alla legge: dipende da lui se sono in questo stato e se non mi viene dato quel che mi spetta. Ma è un criminale, è il capo dei criminali, il capo dei corrotti in questo paese dove c’è soltanto corruzione e ruberia, e non c’è giustizia…». La protesta silenziosa del capitano si trasforma in un comizio furibondo e inarrestabile. Anche un po’ inquietante, perché se fino a quel momento la poca gente a passeggio sulla piazza lo aveva sostanzialmente ignorato, ora comincia a fargli intorno un capannello crescente, sotto l’occhio attento dei poliziotti in servizio davanti al Mausoleo – e di quelli, molto più numerosi, che gironzolano senza divisa.
«Il presidente mi conosce benissimo, personalmente, perché mi vede quasi tutti i giorni, mi passa accanto con la macchina quando entra ed esce. Anche il vostro Berlusconi mi conosce, e il primo ministro del Giappone, e tanti altri, tutti mi hanno visto tante volte. I funzionari della presidenza e gli ufficiali del reggimento presidenziale sanno chi sono, come mi chiamo, tutto: mi sfiorano ogni giorno, ma non c’è stata una volta in un anno e mezzo, estate e inverno, che uno di loro sia venuto da me a dirmi qualcosa. Mai. E io resto qui, così almeno la gente che passa saprà chi comanda l’esercito, e che criminali corrotti si nascondono lì dentro…» e gesticola gridando e indicando il Cremlino.

Non è matto per niente, l’ex-capitano K. – tanto che quando la gente intorno a lui comincia ad essere un po’ troppa lui abbassa la voce e poi chiude il discorso. «In un paese civile quelli come me vengono curati a spese dell’esercito, e hanno la pensione. Ma questo non è un paese civile…». E’ un paese dove le forze armate sono amate dalla gente, però: girato l’angolo della Piazza Rossa, una coppia di sposi con tutto il codazzo di amici e parenti sta orgogliosamente posando per le foto di rito insieme agli impettiti soldati di guardia al Milite Ignoto, sotto le mura del Cremlino. Succede tutti i giorni, a ogni cambio della guardia, seguendo una procedura che ormai è standard e in cui mosse, pause e sguardi sono codificati come quelle dei soldati tirati a lucido del reggimento presidenziale. Chissà se qualcuno di quei soldati non finirà prima o poi come il capitano K.

Perché la Russia è un paese dove le forze armate sono amate dalla gente ma trattate male dal potere. Non soltanto ormai la figura tipica del mendicante a Mosca non è più la tradizionale nonnetta con lo scialle ma un uomo che porta la divisa, o quel che ne rimane; anche per chi è in servizio le cose vanno orribilmente. Tre giorni fa un rapporto di Human Rights Watch denunciava il crescente numero di reclute che ogni anno in Russia muoiono per i maltrattamenti subìti dai superiori e dai «nonni», o sono spinti al suicidio dalle angherie continue e insopportabili. I numeri sono del resto ufficiali, visto che li fornisce il capo della Procura militare Aleksandr Savenkov – nei primi sei mesi di quest’anno: 25 morti per maltrattamenti e punizioni, 109 suicidi provocati da persecuzioni dei superiori, più di tremila denunce per abusi, di cui almeno trecento contro ufficiali – e si tratta, per ammissione comune anche dentro le forze armate, di numeri che riflettono solo una parte della realtà, quella che arriva alla luce.

Chi cerca di denunciare questa situazione, e soprattutto chi cerca di aiutare concretamente i singoli militari, è sotto tiro. Nello stesso giorno in cui veniva reso pubblico il rapporto di Human Rights Watch, dalla Duma di stato partiva una violenta accusa contro la presidente dell’associazione «Madri dei soldati», Valentina Melnikova, additata come «agente straniero» che tenta di minare il morale e le capacità difensive delle forze armate russe. Il deputato nazionalista Viktor Alksnis (vecchia conoscenza della politica russa, fin dai tempi in cui denunciava la perestrojka di Michail Gorbaciov: ora milita in un partito parafascista, che comunque sostiene il presidente Putin) ha sollecitato un’inchiesta federale sull’attività delle Madri.

Lei, Valentina, respinge ovviamente le accuse di operare «al soldo dello straniero», ma appare sempre più esasperata e sfiduciata. L’associazione esiste e combatte da più di dieci anni, ha salvato molti ragazzi, moltissimi altri ne ha aiutati a tirarsi fuori dai guai (soprattutto con consigli e assistenza legale) ma non è riuscita a cambiare e la situazione di base, a scalfire il muro di indifferenza e ostilità con cui i vertici dello stato – per non parlare di quelli delle forze armate – guardano l’attività delle Madri. Le ultime iniziative di Valentina (il tentativo di formare un partito politico e quello di avviare un dialogo con alcuni esponenti moderati, in esilio, del separatismo ceceno) l’hanno fatta finire nel mirino dei «duri». L’armata, con tutto quel che vi succede dentro, deve restare un mondo chiuso e inaccessibile.

Nessuna meraviglia, è una tradizione che dura da parecchio: sulla facciata della «Casa sul fiume», l’edificio anni `20 a pochi passi dal Cremlino dove in epoca staliniana abitavano dirigenti di partito, scienziati, alti ufficiali, ci sono decine di lapidi commemorative dedicate alle personalità maggiori vissute lì dentro. L’unica che non porta date è quella del maresciallo Tukhachevskij, militare di genio che negli anni `30 cercò di trasformare l’Armata rossa in un esercito moderno e insieme rivoluzionario. Non riuscì a terminare l’opera e finì fucilato in segreto.

Astrit Dakli
Fonte:www.ilmanifesto.it
24.10.04

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